Archivio di: Maggio 2009

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Il Big Bang sul palmo della mano: l’esperimento ALICE all’acceleratore LHC del CERN

“Cosa fate voi fisici?”. Ecco una domanda che mi sono sentito rivolgere molto spesso in questi anni.

Rispondere ad essa è molto meno facile di quanto non si pensi e descrivere “all’uomo della strada” che tipo di attività svolga un fisico sperimentale è tutt’altro che immediato. Nell’immaginario comune, nel migliore dei casi, alla parola “fisico” si associa l’immagine dell’immortale Albert Einstein, ma nel caso peggiore veniamo pensati chiusi in laboratori segreti a progettare e realizzare nuove e terribili tecnologie di distruzione di massa.
Inutile dire che la realtà, come nella stragrande maggioranza dei casi, è totalmente diversa e non collima con il cosiddetto “sentimento popolare”.
Proprio per darvi un’idea del lavoro di chi, giorno per giorno, si dedica a piccole e grandi ricerche, colgo questa ulteriore occasione per parlare di quale sia la realtà quotidiana per uno studente di dottorato come me.

La mia attività di ricerca si svolge all’interno di un esperimento di fisica nucleare delle alte energie, noto con il nome di ALICE (acronimo di A Large Ion Collider Experiment). ALICE è uno dei quattro maggiori esperimenti in allestimento presso LHC (Large Hadron Collider), la nuova macchina acceleratrice costruita presso il CERN di Ginevra.
LHC, la cui costruzione ha richiesto quindici anni di lavoro e la profusione di notevoli sforzi finanziari ed umani, consentirà di accelerare fasci protoni e nuclei di elementi pesanti, come il piombo, ad energie fino ad oggi mai raggiunte sulla Terra e disponibili solamente nelle profondità del cosmo.
ALICE utilizzerà le particelle che così accelerate saranno fatte collidere le une contro le altre per andare a studiare le caratteristiche della materia che ci circonda in condizioni di temperatura e densità elevatissime che si ritiene fossero presenti nei primi istanti di vita dell’universo, all’incirca un milionesimo di secondo dopo il Big Bang, nome con il quale in fisica è chiamato l’istante in cui tutto ha avuto inizio.

A tutti gli effetti, quindi, ALICE aprirà una finestra su un passato remotissimo, un passato che in questo modo ci apparirà meno oscuro e spingerà ancora più in là la nostra conoscenza sulle origini del cosmo.
Sfortunatamente, le condizioni che in ALICE cercheremo di riprodurre sopravviveranno per un tempo brevissimo, 10 milionesimi di miliardesimo di miliardesimo di secondo, un tempo troppo breve per poter essere valutato direttamente. Per questo, ALICE è stato progettato e costruito per poter osservare e studiare non il momento della collisione ma tutto ciò che uscirà dal punto in cui le particelle si scontreranno. In parole povere, è come studiare la composizione e il funzionamento di un orologio mandandolo in mille pezzi e analizzandone i frammenti prodotti. Questo approccio, per quanto incredibile e paradossale, da 50 anni a questa parte ha consentito progressi inimmaginabili nello studio dell’immensamente piccolo e, al tempo stesso, dell’immensamente grande.

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“Che” di Steven Soderbergh

 

“Un vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d’amore: amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità”.
Ernesto Guevara

Film fortemente voluto dall’attore Benicio Del Toro (che ne è anche co-produttore assieme a Laura Beckford), peraltro giustamente premiato per la sua interpretazione al 61esimo festival di Cannes (2008), ispirato direttamente ai diari del compagno Guevara (Diario della rivoluzione cubana e Diario in Bolivia), scritto dal fidato Peter Buchman, il penultimo lavoro dell’eclettico Steven Soderbergh (regista che con assoluta naturalezza passa da film indipendenti a mega produzioni hollywoodiane), è di dificile valutazione critica.

Di sicuro è magistralmente curato, e per le tecniche di ripresa adottate (soprattutto nella prima parte, con quei salti da un bianco e nero sgranatissimo dell’uomo pubblico ai sparatissimi colori digitali del “barbudo” che arranca nella Sierra Maestra), e per il montaggio (ad opera dello stesso Soderbergh), e per la curatissima fotografia e per la colonna sonora, molto presente e mai inopportuna.

Ma di sicuro è anche magistralmente audace, sia per la scelta di girarlo interamente in lingua spagnola, sia per la durata di 4 ore e mezza (inconcepibile per un certo modo di intendere il cinema, e anche ahimè per i distributori, che han pensato di tagliare il film in due parti e farlo uscire separatamente) ma soprattutto per l’inevitabile rischio in cui si incorre nel rappresentare una vita così breve ma così densa come quella del Comandante Ernesto “Che” Guevara: o di risultare eccessivamente celebrativi o al contrario noiosamente pedanti. “Il parto” dell’opera in questo senso è emblematico (frutto di una gestazione di oltre 10 anni), ed è evidente anche l’estrema difficoltà in cui il regista incorre nel cercare continuamente una via che si ponga in posizione intermedia rispetto a questi due opposti. La scelta di fondo è dunque quella di focalizzarsi sull’elemento “uomo” di Guevara, e derubricare il mito ad elemento di valutazione da parte dello spettatore.

Quest’ottica è coerente con la scelta di stigmatizzare in bianco e nero gli spezzoni del Guevara “istituzionale”, nel suo discorso all’ONU, in cui il grande idealista e provocatore non lesina a farsi beffe e lanciare accuse ai delegati e diplomatici americani per poi concludere con il famoso “patria o muerte”; oppure ancora con le citazioni tratte dall’intervista trasmessa dalla CBS il 14 dicembre 1964, che ancor maggiormente evidenziano l’obiettivo del regista: non quello di dare lezioni di storia, o tantomeno di celebrare la politica cubana, ma esclusivamente di raccontare una vita vissuta all’interno della Storia. Ciò si evidenzia ancora maggiormente nella seconda parte della pellicola, che aprendosi con la lettura da parte di Fidel della lettera di rinuncia agli incarichi istituzionali da parte del Che rende la sua figura ancor più solitaria e per questo umana.

In questo senso il viaggio in Bolivia per esportare la rivoluzione si caratterizza da subito come una “via crucis laica”, in cui un sottile presentimento di disfacimento e caduta è continuamente sottolineato da un’efficace ripresa con camera a mano, dal progressivo rallentamento del ritmo e dalla sempre più preponderante visione in soggettiva da parte del protagonista. Tale visione in soggettiva trova il suo culmine nel finale: la morte è vista attraverso gli occhi del Che, viene ad essa negata una piena rappresentazione. Semplificando, la prima parte si può definire “il film della vita” (nel senso più ampio del termine) e la seconda “il film della morte” (nel senso più strettamente “personale”).

Non si versano lacrime durante la visione, non c’è pathos né celebrazione, non ci sono misteri da svelare né trame intricate, ma c’è la fierezza di un uomo, e di un gruppo di compagni, che hanno creduto negli ideali di uguaglianza e di liberazione dei popoli oppressi, un sentimento quantomai moderno ed attuale nelle esperienze politiche dell’America Latina odierna.

scheda film su IMDb, prima parte

scheda film su IMDb, seconda parte

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