“Se nu ti magni i ti imboconi coma una oca!”
Questa, anni addietro, era una frase ricorrente ed era rivolta naturalmente ai bambini che non volevano mangiare. La povera oca in questione mi ha fatto sempre tenerezza, sin da quando ero piccola e mi veniva affidata, assieme alle “sorelle”, perché la portassi a pascolare dove l’erba era più tenera.
Loro mangiavano ed io restavo là seduta a guardare le nuvole e a fantasticare; ma naturalmente avevo anche con me un centrino da ricamare per evitare di restare inoperosa (cu li man in man).
Il tempo passava loro crescevano ed io con loro; arrivava così l’autunno ed incominciava l’ingrasso.
“I ti ai da imparà a imboconà li ochi”.
Non era un suggerimento ma un ordine, al quale non avevi nessuna possibilità di sottrarti e quindi prima lo eseguivi meglio era.
La maestra di solito era una nonna o una zia “vedrana”, a me invece toccò uno zio abbastanza avanti con gli anni, grande e grosso, “un tocon di om”, e con la gentilezza di un orso che un giorno mi disse “Ven par cà! Ti vuol imparà a imboconà li ochi. Ti lu fai viodi.”
Il tono non ammetteva repliche pertanto lo seguii nel recinto delle oche e per darmi un contegno e far vedere la mia buona volontà mi misi a rincorrerne una, con l’intento di prenderla.
Al che l’omone, con un grugnito che voleva essere una risata, mi bloccò e mi fece cenno di scansarmi e “Fermiti! Si ti li fa cori cussì a se ca serf imboconali?”
E mentre diceva questo, trac, aveva già afferrato il collo lungo e piumoso dell’oca. La mia oca! Quella che avevo coccolato sin da piccola; il mio cuore si fermò… “La mia oca, no!” urlai dentro di me; ma lui, imperterrito, si avviò verso il sotpuartin, una tettoia posta a ridosso della stalla, sostenuta da pali di legno e con il tetto ricoperto da canne (ciani cargani e cianoi).
Arrivati sul posto, sempre gentilmente, si fa per dire, lo zio mi sbatté l’oca in braccio; preoccupata mi chiesi “Perché?”. Il perché fu presto spiegato: lui doveva prepararsi per il rito dell’“imboconadura”. Lo vidi mettersi un grembiule lungo e largo, fatto con avanzi di stoffa cuciti insieme, praticamente un nisuol, perché per coprirlo tutto quel suo pancione ci voleva veramente un lenzuolo.
Finita la vestizione, gettò un sacco di iuta per terra e ci mise accanto uno strano imbuto che nella parte superiore, in corrispondenza dell’imboccatura, aveva una manovella, come quella del macinino del caffè, ci aggiunse un secchio d’acqua ed uno di mais. Tutto era pronto.
Lo zio si inginocchiò e mi disse di passargli l’oca. Io gliela porsi, esitante e lui se la strinse tra le gambe. Io preoccupata esclamai dentro di me “Uddiu me la sclissa!”.
L’oca si dibatteva, ma lui le afferrò la testa e gliela tenne ferma, le aprì il becco a forza e le infilò lo strano imbuto in gola; con la mano libera raccolse un pugno di mais, lo mise nell’imbuto e cominciò a girare velocemente la manovella finché il mais non fu sceso tutto, completò l’operazione facendole ingoiare un mestolo d’acqua.
Gli feci osservare che il mais si era fermato tutto in un solo punto del collo del volatile. “Sta tenta coma ca si fa!”.
Lo zio allora con la mano libera e con la grazia infinita delle sue dita grosse come salsicce, manipolò con destrezza il collo fino a far arrivare il mais nel gozzo della povera oca. Poi, senza tanti complimenti, si alzò e con un cenno perentorio mi indicò il suo posto dicendomi: “Vidin se che ti à capìt”.
Io, non so perché, ma mi sentii sollevata nel vedere che la mia oca non era più sotto quella montagna d’uomo e che adesso toccava a me: sarei stata senz’altro meno violenta… e mi venne, dalla gioia persino voglia di cantare e così feci, mi misi a cantare. La mia oca, secondo me, fu felice di quel cambio, perché mi mostrai all’altezza e in un baleno e con grande dolcezza portai a termine quella tortura.
Naturalmente l’operazione si ripeté anche nelle sere successive fino a che le oche non furono ritenute pronte, belle e grasse, per la mattanza.
Forse oggi tutto questo può sembrare crudele, ma erano comportamenti dettati dalla necessità: il grasso d’oca era pregiatissimo e veniva usato al posto del burro; il fegato poi, un boccone da re, e la carne, a cui veniva data una mezza cottura, era riposta in orci di pietra, ricoperta del suo grasso e messa sotto un metro di terra. Una vera risorsa prelibata per l’inverno e la primavera, per le famiglie numerose.
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