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Articoli di jetto

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Nuovo anno, nuovo sito

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“Werckmeister harmóniák” di Béla Tarr

Per la consueta rubrica di cinema, voglio parlare di un regista a mio avviso imprenscindibile nel panorama europeo contemporaneo, poco noto ai più, ma molto amato tra critici e cinéphiles.
Béla Tarr, classe 1955, ungherese di Pécs, da anni persegue l’ideale di un cinema alternativo ai prodotti di largo consumo.

E lo fa scardinando tutte le regole base di ciò che il mercato oggi per lo più propone, e cioè:

  • evitando le trame semplici e prevedibili  od eccessivamente bizzarre ed arzigogolate di molte supposte “pellicole originali”;
  • evitando l’utilizzo di dialoghi e linguaggi eccessivamente banali ed elementari (talora anzi si dilunga in citazioni poetiche);
  • evitando di ingaggiare attori famosi o presunti tali, la cui capacità di recitazione è spesso  inversamente proporzionale all’aspetto fisico; e anzi privilegiando gli sguardi duri, brutti ma espressivi di intepreti sconosciuti ai più;
  • evitando l’utilizzo smodato di effetti speciali per inebriare lo spettatore,  se non se ne sente l’esigenza;
  • utilizzando una fotografia in bianco e nero, fatta più di neri che di luci, più di nascosti che di evidenze, più di naturalezza che di artificiosità;
  • evitando tassativamente quella regia da videoclip per la quale lo spettatore rimane colpito più dalla velocità e sequenzialità delle scene che non dalla cura delle stesse; prendendosi dunque tutto il tempo necessario alla costruzione di riprese estremamente lunghe e complicate.

Stanti tali premesse, l’obiettivo del presente articolo è facilmente desumibile: è possibile trovare (ed è auspicabile cercare) una tipologia di film che abbiano maggiore spessore intellettuale di quelli che vanno per la maggiore.
“Le Armonie di Werckmeister” terza opera del succitato Béla Tarr, è sicuramente una delle possibilità da prendere in considerazione.
In questo lavoro si concentra infatti tutta la poetica precedente del regista (che, ricordiamolo, è autore anche di “Satantango”, dell’epica durata di 7 ore e mezza), e si esplicita attraverso 39 -bellissimi- piani sequenza per una durata complessiva di 145 minuti.
All’interno di questi “long-takes” la macchina da presa si distingue per eccellenza e maestria, riprendendo  avvenimenti complessi e frastorna(n)ti con un’abilità tecnica ed una consapevolezza che ha pochi eguali nella storia del cinema (vedi alle voci “Orson Welles”, “Stanley Kubrick” o “Alfred Hitchcock”).
La trama in breve: in una piccola città di provincia ungherese giunge un piccolo circo che ha due uniche attrazioni: un’enorme balena imbalsamata e un misterioso nano chiamato “il Principe”.
Nella solitudine del suo studio György Eszter studia una teoria musicale che vuole sovvertire l’ordine armonico stabilito nel ‘700 da Andreas Werckmeister.
János Valuska, il ragazzo che consegna i giornali, fa la spola tra lo studio del musicista e la piazza del mercato dove il Principe incita i frustrati e poveri abitanti alla distruzione di tutto.
Una notte la furia divampa e qualcuno ne approfitta per prendere il potere.
Detta così, e di fronte all’universalità anche politica di una trama che tange sia i percorsi esistenziali che le emozioni più profonde dell’uomo, ci si ritrova a condividere con il regista sia la tematica del progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali che l’inevitabile consapevolezza, come cittadini, della propria “riduzione in schiavitù”: temi quanto mai portanti dei nostri  tempi (ed il film è del 2000).
L’autore non lesina nel rappresentare l'”hobbesiana” sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ma la violenza che ne scaturisce è quasi catartica: non a caso una delle scene madri della pellicola è costruita come una sequenza a la “Metropolis” di Fritz Lang.
Ed è direttamente a noi spettatori che egli si rivolge quando tocca punte di lirismo visivo che letteralmente spiazzano,  costringendoci a riflettere sull’insensatezza delle nostre azioni. Non è un’opera a tesi, ma è impossibile non cogliervi un riferimento universalistico.

Un decennio cinematografico che produce un capolavoro come questo è un decennio che merita di essere vissuto.

P.S. Consiglio ai (potenziali) spettatori: se la sequenza iniziale non vi cattura sospendete senza remore la visione, non vi si confa.

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gennaio 2010

  • 29 gennaio 2010: per il Giorno della memoria 2010: spettacolo di teatro danza “La casa delle bambole”.
  • 5 febbraio 2010: incontro con il dott. Massimo Venaruzzo su “La fisica ogni giorno della nostra vita”.

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“Antichrist” di Lars Von Trìer

Impossibile prescindere dal regista per parlare di questo film.
Lars Von Trier: cosa dire su quest’uomo che non sia già stato detto? Provocatore, genio, venduto al mercato, fallito, arrogante, pervertito…
Personaggio quantomai controverso, fuori dagli schemi del sistema filmico, ma contemporaneamente così addentro al sistema filmico da capire perfettamente quali leve toccare per promuovere i suoi lavori. Le sue poliedricità ed irriverenza, la sua ossessione per le regole, la sue fobie, ne fanno un artista che spicca per meriti (ha contribuito a risollevare l’asfittico cinema danese degli anni ’90 e posto le basi per un certo tipo di cinema europeo, vedi i fratelli Dardenne), ma che nel contempo lo rende insopportabilmente autoreferenziale ed arrogante.
Von Trier è un dandy moderno, nel senso più ampio del termine, ma anche un’artista fondamentale e non trascurabile del panorama cinematografico europeo, che ad ogni opera innova e rinnova il proprio stile, non lesinando di chiedere uno sforzo allo spettatore che si avvicini alle sue produzioni.
Tutto ciò è quantomai valido per l’ultimo suo film: “Antichrist”, presentato alla 62esima edizione del Festival di  Cannes (2009) e che pur suscitando ilarità in parte del pubblico, rappresenta fuor di dubbio una summa del cinema e della psicologia del “personaggio” Lars Von Trier, indubbiamente mai così a nudo.
Non a caso il film è stato presentato anche come il racconto catartico del periodo di depressione del regista.
Ed infatti quello che viene messo in scena in “Antichrist” è un vero e proprio percorso psicanalitico, sia per la presenza del personaggio “lui” (psicoanalista che tenta di curare la moglie), sia perché carico di figure dell’onirico e dell’inconscio, di simbologie biblico-cristiane, di superstizione medievale (forse l’elemento più debole, in verità), e finanche per la precisa divisione della pellicola in momenti distinti e conseguenti: prologo, quattro capitoli (dolore, pena, disperazione, i tre mendicanti), epilogo.
Partendo dal canovaccio di una coppia che perde un neonato a causa della propria sventatezza e dal dolore provocato da questa perdita e dal tentativo di superarlo affrontandolo quanto più possibile in maniera razionale, Von Trier affronta i temi tipici del suo cinema, ma lo fa in una maniera più “candida” del solito: il dolore, la violenza, la giustapposizione tra i generi maschile e femminile, l’ipocrisia della coppia, il viaggio come ricerca inevasa di pace, sono qui rappresentati come una sorta di “fenomenologia dello spirito” inversa, tramite la quale perdono via via di senso concetti come “umanità” e “speranza”.
Infatti i protagonisti, diventati simboli di questa diarchia tra l’uomo e la donna, ma anche tra l’utopia che la razionalità possa vincere sull’animalità dell’essere umano, perdono via via l’uno nell’altra la compiutezza della propria esistenza, svelando finalmente l’ipocrisia che mina la loro vera natura.
Se quindi il tema principale dovrebbe essere quello dell’elaborazione di un lutto, Von Trier in realtà mette in scena l’essere umano, ed in particolare le seguenti tematiche: il rapporto controverso con e per le donne, l’ossessione disturbante del sesso, la trivialità e violenza intrinseche nella psicologia umana, l’angoscia per l’inevitabile divenire, la spinta alla mutilazione genitale ed all’autolesionismo come riscatto dalla debolezza delle carni.
In questo senso il film è disperatamente violento, un colpo allo stomaco, ma non per la presenza delle pur abbondanti scene di violenza, orrore o sesso (nelle quali peraltro non viene risparmiato nulla), quanto per il progressivo ed inarrestabile disvelamento della natura umana che viene messo in atto: a precipitare nella follia dei “tre mendicanti” (dolore, pena, disperazione, per l’appunto) non sono solo i protagonisti, ma siamo noi in quanto “umanità”.
In tale ambito vengono altresì inseriti: il rapporto conflittuale casa/natura, l’eterno contrasto tra pulsione, desiderio ed i costrutti razionali dell’individuo, il rifiuto del proprio corpo e del corpo di donna in particolare, la visione della maternità come dannazione, insomma in questo film ci sono tanti e tali spunti di riflessione che l’elenco potrebbe essere lunghissimo e l’analisi sconsideratamente prolissa.
Infine almeno un cenno è necessario fare al contrasto tra la sublime fotografia curata da Anthony Dod Mantle e le scene più crude, all’uso del rallenty a sottolineare i momenti più liricamente elevati, allo splendido bianco nero che caratterizza il prologo e l’epilogo, all’azzecatissimo uso dell’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel; sta di fatto che Antichrist è il film tecnicamente meglio realizzato e diretto dal regista danese. Il punto però è che il livello di impegno richiesto per la visione è tale che è facile indurre lo spettatore al rifiuto dell’opera. La normale “sospensione dell’incredulità” non è infatti qui necessaria, perché da subito il “patto artista-pubblico” è: o mi segui per tutto il tempo, fino in fondo, o prendi tutto come un’immane, grottesca scemenza ed allora è meglio che non prosegui oltre. Una sorta di “patto di fede”, anche se ciò che ne segue è veramente l’anticristo: siamo soli, non c’è salvezza, non c’è speranza.
Ancora una volta Von Trier spiazza tutti e costruisce un film profondo, impermeabile alle critiche. Film dell’anno 2009.

P.S. Magnifici (e coraggiosi) gli attori: il premio a Cannes per la migliore intepretazione femminile a Charlotte Gainsbourg è ultra-meritato!

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“Che” di Steven Soderbergh

 

“Un vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d’amore: amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità”.
Ernesto Guevara

Film fortemente voluto dall’attore Benicio Del Toro (che ne è anche co-produttore assieme a Laura Beckford), peraltro giustamente premiato per la sua interpretazione al 61esimo festival di Cannes (2008), ispirato direttamente ai diari del compagno Guevara (Diario della rivoluzione cubana e Diario in Bolivia), scritto dal fidato Peter Buchman, il penultimo lavoro dell’eclettico Steven Soderbergh (regista che con assoluta naturalezza passa da film indipendenti a mega produzioni hollywoodiane), è di dificile valutazione critica.

Di sicuro è magistralmente curato, e per le tecniche di ripresa adottate (soprattutto nella prima parte, con quei salti da un bianco e nero sgranatissimo dell’uomo pubblico ai sparatissimi colori digitali del “barbudo” che arranca nella Sierra Maestra), e per il montaggio (ad opera dello stesso Soderbergh), e per la curatissima fotografia e per la colonna sonora, molto presente e mai inopportuna.

Ma di sicuro è anche magistralmente audace, sia per la scelta di girarlo interamente in lingua spagnola, sia per la durata di 4 ore e mezza (inconcepibile per un certo modo di intendere il cinema, e anche ahimè per i distributori, che han pensato di tagliare il film in due parti e farlo uscire separatamente) ma soprattutto per l’inevitabile rischio in cui si incorre nel rappresentare una vita così breve ma così densa come quella del Comandante Ernesto “Che” Guevara: o di risultare eccessivamente celebrativi o al contrario noiosamente pedanti. “Il parto” dell’opera in questo senso è emblematico (frutto di una gestazione di oltre 10 anni), ed è evidente anche l’estrema difficoltà in cui il regista incorre nel cercare continuamente una via che si ponga in posizione intermedia rispetto a questi due opposti. La scelta di fondo è dunque quella di focalizzarsi sull’elemento “uomo” di Guevara, e derubricare il mito ad elemento di valutazione da parte dello spettatore.

Quest’ottica è coerente con la scelta di stigmatizzare in bianco e nero gli spezzoni del Guevara “istituzionale”, nel suo discorso all’ONU, in cui il grande idealista e provocatore non lesina a farsi beffe e lanciare accuse ai delegati e diplomatici americani per poi concludere con il famoso “patria o muerte”; oppure ancora con le citazioni tratte dall’intervista trasmessa dalla CBS il 14 dicembre 1964, che ancor maggiormente evidenziano l’obiettivo del regista: non quello di dare lezioni di storia, o tantomeno di celebrare la politica cubana, ma esclusivamente di raccontare una vita vissuta all’interno della Storia. Ciò si evidenzia ancora maggiormente nella seconda parte della pellicola, che aprendosi con la lettura da parte di Fidel della lettera di rinuncia agli incarichi istituzionali da parte del Che rende la sua figura ancor più solitaria e per questo umana.

In questo senso il viaggio in Bolivia per esportare la rivoluzione si caratterizza da subito come una “via crucis laica”, in cui un sottile presentimento di disfacimento e caduta è continuamente sottolineato da un’efficace ripresa con camera a mano, dal progressivo rallentamento del ritmo e dalla sempre più preponderante visione in soggettiva da parte del protagonista. Tale visione in soggettiva trova il suo culmine nel finale: la morte è vista attraverso gli occhi del Che, viene ad essa negata una piena rappresentazione. Semplificando, la prima parte si può definire “il film della vita” (nel senso più ampio del termine) e la seconda “il film della morte” (nel senso più strettamente “personale”).

Non si versano lacrime durante la visione, non c’è pathos né celebrazione, non ci sono misteri da svelare né trame intricate, ma c’è la fierezza di un uomo, e di un gruppo di compagni, che hanno creduto negli ideali di uguaglianza e di liberazione dei popoli oppressi, un sentimento quantomai moderno ed attuale nelle esperienze politiche dell’America Latina odierna.

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“Entre les murs” di Laurent Cantet

Periferia parigina, una scuola media, una classe, un professore di francese.
Così si potrebbe riassumere l’intera vicenda del film di Laurent Cantet, Palma d’oro a sorpresa all’ultimo festival di Cannes (2008).
“La classe”, o il più appropriato titolo originale “Entre les murs”, si basa sul romanzo-diario di François Bégaudeau, giovane professore della scuola “Françoise Dolto” del XXème arrondissement di Parigi, nel quale racconta la propria esperienza di insegnante alle prese con una classe multietnica, percorsa da inquietudini, difficoltà linguistiche, disparità sociali e conflitti nemmeno troppo latenti.
Bégaudeau, oltre che autore del romanzo, collabora alla sceneggiatura ed è l’interprete principale del film, pur mascherato dietro lo pseudonimo “François Martin”.
Gli studenti, gli altri insegnanti ed i genitori fanno invece parte di un gruppo di volontari, selezionati dal regista durante il periodo di preparazione della pellicola, durato un intero anno scolastico.
Tutto ciò, unito alla scelta di adottare uno stile quasi documentaristico, conduce inevitabilmente all’assoluta indistinguibilità della finzione -raccontata sullo schermo- dalla realtà -vissuta da Bégaudeau-.
Ed è proprio questa indistinguibilità che -per assurdo- funge da punto di forza e “di traino” del film: la scelta del regista di astenersi dalla formulazione di espliciti giudizi, la struttura del film “episodica”, la claustrofobica ambientazione (non si esce praticamente mai dall’aula, raramente dall’edificio scolastico), finanche l’assenza di musica, catturano in maniera inestricabile lo spettatore, per tutte le due ore e più di durata della pellicola.
A questo ovviamente contribuiscono il ritmo elevato e le ottime intepretazioni dei ragazzi, in grado veramente di far appassionare alle loro storie, ai loro trascorsi e difficoltà, alle loro fatiche e svogliatezze, almeno quanto appassionano il professor Martin-Bégaudeau.
Il professore, da questo punto di vista, è un “gioiellino”: orgoglioso del proprio ruolo, amante del proprio mestiere, consapevole dei propri limiti e talora succube di un sistema educativo che non condivide, incappa continuamente in successi e fallimenti, in costruzioni e ricostruzioni, e si scontra periodicamente con situazioni che da un’ottima fase di “produttività intellettuale” sfociano nell’accidia più sconfortante. Ma le sue frustrazioni ed i suoi tentativi sono umanamente comprensibili, e lo rendono agli occhi dello spettatore molto più “normale” di quanto non vorrebbe -e potrebbe- essere: il senso della sua “missione” non è quello di trasformare situazioni (sociali, culturali, economiche) evidentemente al di fuori dei suoi ambiti, quanto quello di instillare nelle menti dei suoi discepoli e negli occhi dei loro genitori un comune senso di appartenza allo Stato.
In tale ottica, vedendo lavori come quelli di Cantet, si realizza che quando a proposito di scuola si sente parlare di “classi separate”, “corsi di lingua per stranieri”, “competenze specifiche” s’intenda in realtà “discriminazione”, “minimo formativo”, “meno insegnanti”.
L’integrazione passa attraverso la formazione, non è detto che sia un successo, ma il tentativo è l’unica strada percorribile. Visione consigliata a tutti coloro che amano il mestiere formativo, astenersi insegnanti demotiva(n)ti.

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“No Country For Old Men” di Joel e Ethan Coen

La cosa più curiosa del pluripremiato “No country for old men” (in italiano “Non è un paese per vecchi”), l’ultimo film dei fratelli Coen che ha vinto ben 4 Academy Awards, tra cui migliore film, migliore regia e migliore sceneggiatura non originale, oltre al miglior attore non protagonista Javier Bardem, è che forse è il film meno “coeniano” della loro carriera. Quantomeno per la sceneggiatura, non originale, tratta dall’omonimo romanzo di Cornan McCarthy, o per la scarsezza di quegli elementi tipici dei loro film (lo humour nero, le paranoie, le situazioni surreali e le battute al fulmicotone), ma soprattutto per la mise en scène di questo noir / road movie: asciutta, dura, nerissima e spietata, che non lascia letteralmente alcuna tregua allo spettatore.

La storia, ambientata in Texas negli anni ‘80, s’intreccia su più livelli narrativi: si parte dalla vicenda di un reduce dal Vietman, Llewelyn Moss (Josh Brolin), casualmente ritrovatosi sul luogo di un regolamento di conti, senza superstiti, tra narcotrafficanti. Nell’occasione s’impossessa di una valigetta contenente due milioni di dollari, dando così il via a quella che potrebbe apparentemente sembrare una classica “caccia all’uomo”. Il tenace ed inquietante killer Anton Chigurh (uno strepitoso Javier Bardem) viene infatti incaricato di rintracciare Moss ed il maltolto. La storia, per come la conosciamo, ci è narrata attraverso gli occhi del protagonista “facente funzioni”: lo sceriffo Ed Tom Bell (interpretato da Tommy Lee Jones), che si trova ad indagare sulla carneficina iniziale e di conseguenza, suo malgrado,  a mettersi sulle tracce sia del ladro che dell’inseguitore.

I personaggi (e gli interpreti) sono straordinari: Chigurh è alto, lento, con un ridicolo taglio di capelli e una propensione ad innescare dialoghi altrettanto divertenti, ma è il male assoluto, l’assassino folle, che decide il destino delle vittime tirando una monetina. Moss è un novello cowboy, lanciato in un’avventura sproporzionata rispetto al suo status di solitario cacciatore, consapevole del rischio che sta correndo e quasi rassegnato all’inevitabile; lo sceriffo Bell, infine, è il tipico poliziotto ad un passo dalla pensione, dai pensieri e dalle azioni contrastanti, che insegue impotente e sempre più demotivato.

Questi i personaggi, il tema principale è l’ineluttabilità del male. Il mondo rappresentato è un posto malvagio, governato dal caso, dove solo i malvagi o gli sconfitti possono avere dei principi. Di qua un mare magnum di inettitudine, bigottismo e sconforto, dove qualunque azione che tenti di arrestare il flusso dell’orrore risulta assolutamente ed inevitabilmente inefficace.

E dunque il film è sporco, violento (si perde il conto dei cadaveri), amaro e senza speranza, finanche privo di musiche (tranne per un piccolo complessino che suona in una situazione stramba) e le scene si rincorrono in un susseguirsi continuo di tensione e “pugni allo stomaco”. Non c’è scampo, non ci sono vie d’uscita, “There are no clean getaways”, recita appropriatamente il sottotitolo originale), il vinto non gode di alcun riscatto, nemmeno in punto di morte.
Eppure, in un quadro così sconsolante, in uno svolgimento così cupo, il finale riesce ad essere di rara poesia, una bellezza legata ancora ad una volta al sogno, una chiosa sul personaggio dello sceriffo, ormai in pensione, che lascia nel contempo sorpresi e soddisfatti.

Curioso come l’Academy abbia premiato un film così lontano dagli stilemi classici del cinema hollywoodiano, così destabilizzante di un certo modo di pensare il proprio mondo, negli Stati Uniti d’America, e che di certo esplica splendidamente quell’inquietudine di fondo dell’uomo occidentale moderno, sempre più stretto tra l’individualismo sfrenato e l’inevitabile necessità di riflettere sul proprio assetto sociale.
Va dato pertanto merito ai fratelli Coen di aver realizzato un lavoro tutt’altro che ruffiano o di facile consumo, e altrettanto all’Academy per il coraggio mostrato nel darne il giusto risalto.

Che sia proprio qui la ripartenza dell’asfittico cinema americano?

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“Paranoid Park” di Gus Van Sant

E’ difficile parlare dell’ultima (dodicesima) fatica di Gus Van Sant, regista parecchio controverso, tra sonanti detrattori e sconfinati ammiratori, senza inquadrare in qualche maniera la carriera dell’autore.
Noto al grande pubblico per film quali: “Will Hunting genio ribelle” (1997) e “Scoprendo Forrester” (2000), il regista americano ha operato una vera e propria svolta stilistica a partire da quel “Gerry” che nel 2002 diede avvio ad un’ideale “trilogia della morte” e che lo fece apprezzare dai cinefili più navigati, per lo smaccato allontanamento dai precedenti lavori, più commercialmente orientati.

“Gerry” è una storia minimalista, di evidente ispirazione “belatarriana” (campi lunghi, primissimi piani, silenzi infiniti e tempi dilatatissimi) e racconta di due amici, i “Gerry” del titolo, che durante una gita hanno la sventura di perdersi in un deserto: l’esperienza proverà la loro amicizia.
A “Gerry” fecero seguito il successo di “Elephant”, ispirato alla strage della Columbine High School e girato con attori non professionisti, che nel 2003 vinse la Palma d’oro ed il premio per la miglior regia al Festival di Cannes; e “Last Days”, ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, con l’impiego di interessanti soluzioni filmiche, ma con grossi limiti a livello di trama.

Infine, questo “Paranoid Park”.
Sgombriamo subito il campo: il film NON è, come furbescamente recita la locandina italiana: “il capolavoro di Gus Van Sant”, anche se non tutto è da buttare.
Tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, richiama in più punti i precedenti lavori del regista: ambientato interamente nella nativa città di Portland, nord-ovest degli Stati Uniti, interpretato da attori non professionisti (ragazzi del luogo, scelti su MySpace!), girato impiegando differenti tecniche (super-8 e 35 mm, riprese ardite e fuori fuoco “strategici”), grazie alla preziosa collaborazione di un’autorità della fotografia quale Christopher Doyle, presenta tutte le tematiche care al regista: la spersonalizzazione dell’individuo, la solitudine e la mancanza di riferimenti dell’adolescente, la depressione e l’inettitudine degli adulti, il disadattamento nei confronti di un mondo che non si riconosce come proprio. Ma in aggiunta a tutto ciò, il film si concentra in maniera particolare ed essenziale sul concetto del senso di colpa.

La storia è presto detta: Alex è un sedicenne di Portland con la passione per lo skateboard. Con l’amico Jared comincia a frequentare Paranoid Park, un posto conosciuto da tutti gli skater della città, ove incontra altri skater che una sera gli propongono per gioco di saltare sui treni merci in transito nella vicina stazione. Per mera casualità, una mossa avventata di Alex provocherà la morte di una guardia di sicurezza accorsa per dar il fatto suo ai sprovveduti. Da qui diparte l’incubo del protagonista, che influenzerà i rapporti con chi gli sta attorno; lascia la sua ragazza Jennifer e inizia ad uscire con Macy, alla quale confessa che è accaduto qualcosa di brutto. Macy gli consiglia, per liberarsi del peso, di scrivere quello che è successo in una lettera per un amico, magari per lei. Alex scrive i fatti ed è seguendo la sua scrittura che pian piano si viene a conoscenza degli avvenimenti.
La vicenda pertanto è lentamente sviscerata nel corso del racconto di Alex, al quale Van Sant, non bastasse l’estrema dilatazione della storia e l’onnipresente uso del racconto in prima persona, dedica infiniti primi piani apatici e monoespressivi.

Ed è forse proprio nella pretesa non professionalità dei protagonisti, nelle scarse indicazioni che il regista ha fornito agli attori, che il film soffre maggiormente. Se da un lato l’”autenticità” degli interpreti (realmente sedicenni, realmente skater, realmente del luogo) garantisce quell’aura di realismo ai loro comportamenti e modi, d’altro canto rende particolarmente artificiosa l’angoscia del protagonista dal quale non traspare mai più che un conclamato senso di indifferenza.

A ciò la pellicola compensa con le scene “documentali” degli skater, girate in Super-8, su sottofondo musicale del convincente Ethan Rose, veramente coinvolgenti, e con la scena della doccia di Alex dopo l’incidente, nella quale regia e musica sposano perfettamente l’animo del personaggio.

Un film che prescinde dagli interpreti, dunque, e che per certi versi accontenta tutti: i detrattori vi rileveranno tutte le mancanze tipiche  del regista (trama dilatata ed inconcludente, un certo narcisismo stilistico, disinteresse per la linearità degli eventi), gli ammiratori godranno delle arguzie tecniche e del “purismo neorealistico” della rappresentazione.
Ad ogni modo un coerente prosieguo della filmografia più sperimentale di un autore non prescindibile, nel panorama attuale.

scheda del film su IMDb

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L’altra faccia dello sviluppo cinese… “Still Life” di Jia Zhang-Ke

Vincitore del Leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia, il film “a sorpresa” della sezione in concorso, Still Life del 37enne Jia Zhang-Ke non è un film facile, e come altre opere di cineasti cinesi indipendenti, non ha avuto vita facile, in patria (pur avendo ottenuto l’approvazione della State Administration of Radio, Film and Television).
Non è un film facile per il pubblico occidentale, perchè in alcun modo cerca di “strizzare l’occhio” allo spettatore, né da un punto di vista meramente emotivo, nè da un punto di vista “epico” (alla Zhang Yimou, per intendersi). Non è un film di denuncia (anche se affronta tematiche sociali), o almeno non lo è in senso stretto, né tantomeno sottende particolari metafore o giudizi. Non propone soluzioni alle situazioni che rappresenta, né critica direttamente le politiche di “sviluppo” del Partito Comunista Cinese (tema sottilmente centrale del film, e per questo soprende l’approvazione dei censori), si astiene dall’indirizzare troppo profondamente l’idea che può formarsi lo spettatore alle vicende che narra.

Still Life è, come dice il titolo, la ripresa di uno spaccato di vita, a Fengjie nei pressi della diga delle 3 gole sul fiume Yangtze, opera colossale già sognata da Mao, e nella fattispecie dei lavoratori addetti alla costruzione del nuovo quartiere della città. Nonostante ciò, Still Life non è nemmeno un documentario.
Ambientate tra la vecchia città (già allagata) ed il nuovo quartiere in costruzione, s’intrecciano due storie di ricerca, distanti per estrazione sociale dei protagonisti, ma per certi versi similari: quella di Han Sanming, minatore, in cerca della moglie “comprata” (e scappata) 16 anni prima, che troverà temporaneamente lavoro come demolitore; e quella di Shen Hong, infermiera trascurata dal marito imprenditore edile, che si reca nella medesima città sulle sue tracce, dopo che per due anni non è rientrato a casa. I due personaggi non s’incontrano mai (frequentano anche ambienti diversi), le loro storie procedono parallele ed entrambi porteranno a termine i propri fini, anche se le soluzioni alle loro vicende non sono certo esaustive. Non c’è compassione per gli accadimenti, è quasi come se fossero dei meri “comprimari”, sui quali cala temporaneamente l’interesse del regista, che li usa come “uni tra tanti”.

Ciò che colpisce prima di tutto è la dinamicità di questa “nuova” Cina, così lontana sia da quei stereotipi classici che ancora si amavano nei cineasti della quinta generazione (Yimou e Kaige tra tutti) sia dalla frenetica modernità delle città maggiori viste in altri opere (“Le biciclette di Pechino”, “Suzhou River”, ad esempio). Colpisce come tutti (o molti) possiedano un telefono cellulare, come la televisione influisca sulle menti dei più giovani, come l’anacronistico apprezzamento di un concerto rock possa alleviare le fatiche del giorno. Ancora ciò che colpisce è lo spirito di questi operai cinesi, che ai nostri occhi potrebbero superficialmente sembrare dei poveracci, quasi dei reietti sociali, ma che di fatto costituiscono quel “corpus” pulsante e operoso, fondamento dello “sviluppo” cinese; fieri, giovani, dediti al lavoro e pazientemente speranzosi nel futuro, carichi ancora di una forte componente sociale le (vivono, mangiano, discutono insieme), non suscitano nè mostrano alcun pietismo: la povertà come condizione comune è accettata, il benessere di pochi è visto come una meta per il quale impegnarsi.

Pur non mancano moltissimi riferimenti alle condizioni di lavoro in cui si trovano gli operai: l’assoluta scarsezza di mezzi (emblematica la scena dello smantellamento A MANO di una fabbrica), gli infortuni non retribuiti, le paghe basse, lo sfruttamento, la burocrazia pressochè onnipresente, l’assurdità e disumanità degli espropri e lo scarso valore in genere per la vita umana (che porta a delle vere e proprie faide tra poveri).

Un film sicuramente poco comune e -ahimè- finanche poco visibile, ma che consiglio caldamente a tutti gli interessati di Cina (se qualcuno può ancora permettersi di non esserlo…).

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“Babel” di Alejandro González Iñárritu

Babel è la 3a prova del virtuoso Alejandro González Iñàrritu, giovane regista messicano, già autore di “Amores Perros” e del fortunato “21 grammi”. Il film, presentato quest’anno a Cannes ha vinto il premio per la miglior regia, sfiorando la Palma d’Oro (almeno così dicono le cronache, mentre la palma più ambita è andata a Ken Loach).
Contrariamente al precedente “21 grammi”, Babel convince di più: è sempre un film corale e “ossessivamente” girato (ricchi cambi di macchina, campi lunghi ed impietosi primi piani), che mantiene una cura direi quasi maniacale per la fotografia e l’ormai solito “gioco ad incastri” della sceneggiatura, caratteristica, questa, tipica del regista e del fido sceneggiatore Guillermo Arriaga; qui ancor più accentuata dal meccanismo delle “4 storie parallele”.
Babel è un film internazionale “tout court”, sia nelle location (è ambientato in Messico-Marocco-USA-Giappone), sia nella caratterizzazione dei personaggi (tutti tratteggiati con enorme attenzione e rispetto, privi di qualsiasi immagine stereotipata), sia nell’uso stesso della lingua originale (e qui, per una volta, ho apprezzato la scelta del doppiaggio, limitato esclusivamente agli americani), sia propriamente nelle scelte stilistiche con il quale va a raccontare le 4 storie; ma Babel è soprattutto un film che in questo senso tenta di “gettare un ponte” tra le varie culture e umanità di cui narra, o quantomeno invita a riflettervi, anche se per quanto riguarda la trama specifica non lascia molte speranze.

Le vicende si possono riassumere come segue:
Storia 1: due giovani fratelli marocchini, provando il fucile del padre, feriscono accidentalmente una turista americana e vengono ricercati dalla polizia. Il padre tenta di trarli in salvo.
Storia 2: la turista ferita e il marito vanno in cerca d’aiuto in un villaggio, ma vengono abbandonati dai propri compagni di viaggio dove attendono l’arrivo dei soccorsi (e intanto la questione del ferimento si fa
segue a pag. 9
fa diplomatica, tra paranoie terroristiche ed esagerazioni giornalistiche).
Storia 3: in America, intanto, una tata messicana, cui sono affidati i figli della coppia americana, si deve recare al matrimonio del figlio e non sapendo a chi lasciare i bambini, decide di portarli con sé. Purtroppo al rientro dal Messico vengono fermati dalla polizia di confine e finiscono col darsi alla fuga nel deserto californiano, con tutti i rischi annessi e connessi.
Storia 4: in Giappone un uomo, che durante una battuta di caccia in Marocco regalò il fucile ad una guida (che poi lo vendette al padre dei due ragazzini della storia 1, ammetto che sia un collegamento un po’ forzato), si ritrova a gestire la difficile situazione della figlia adolescente e sordomuta, orfana di madre suicida, la quale, ossessionata dall’idea di essere un mostro, cerca disperatamente un rapporto sessuale.

Il minimo comun denominatore di tutte le storie è il dolore cui sono sottoposti i personaggi e la ricerca, proprio attraverso lo stesso, di una comunanza d’intenti e vicinanza d’affetti che, fino a quel momento non erano tenuti in grande considerazione.
derazione. Peccato che tale comunanza non venga condivisa e che quindi l’occasione d’incontro venga irrimediabilmente sprecata o incompresa.

Uno dei meriti principali di Iñàrritu (oltre a quello di imbruttire Brad Pitt e dargli una parvenza di credibilità) è proprio la modalità con cui sviscera l’umanità dei personaggi e la profondità del dolore; l’abilità con cui passa da situazioni apparentemente lievi ad eccezioni particolarmente forti; la compassione non pietistica con la quale guarda e ci coinvolge nelle disavventure dei suoi uomini / donne / bambini sullo schermo; e la profonda commistione di emozioni contraddittorie che è in grado di evidenziare nei suoi personaggi e suscitare nel pubblico.
Iñàrritu non dà giudizi politici precisi, ma è quasi manicheo nel delineare l’equazione: poveri=felici, ricchi=tristi. Emblematiche in questo senso sono le vicende messicana e marocchina, dove la vicinanza e sincera solidarietà dei primi, in qualche maniera, “punisce” sul piano morale l’egoismo poco verecondo dei secondi.

Ed in questo senso Babel è un film quasi ostinato e “pilotato” nella sua tesi: in un mondo globale l’individualismo non paga.

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