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Comunicato del Direttivo de “La Ruota”

COMUNICATO DEL 06/05/2019

Apprendiamo che siamo stati citati nel programma della “Lista civica per Gruaro” come associazione con cui intensificare i rapporti e la collaborazione; noi ringraziamo per la stima espressa e per il riconoscimento del paziente ed oscuro lavoro svolto in questi anni (15 per la precisione), ribadendo altresì che non siamo organici alla lista succitata, che siamo gelosi ed orgogliosi della nostra autonomia, per cui   rassicuriamo i nostri  soci che continueremo senza tentennamenti sulla linea tracciata dal nostro statuto, pur aperti alla collaborazione con altre associazioni ed istituzioni.

Gruaro, 6 maggio 2019

Il Direttivo de “LA RUOTA”

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Relazione decennale

Oggi per noi è giorno di festa, ma anche di bilancio di un’attività lunga 10 anni. Siamo nati infatti il 23 settembre 2004 per iniziativa di un gruppo di persone animate da entusiasmo, da voglia di fare, da ottimismo, dalla convinzione sincera di poter arricchire il panorama di esperienze della nostra comunità, già copioso peraltro di iniziative di tipo sportivo e di intrattenimento. Non avevamo la pretesa di essere unici, superiori o migliori di altri, ci sembrava semplicemente importante cogliere l’opportunità di inserirci in uno spazio, lasciato libero dalle altre associazioni, con le quali ci proponevamo di collaborare, o non adeguatamente sfruttato ed esplorato e che a noi sembrava particolarmente importante per la crescita consapevole di una comunità, come la nostra, geograficamente ed istituzionalmente periferica, ma non per questo destinata alla subalternità e passività.

Ecco quindi delinearsi subito l’identità de “La Ruota”, che come recita l’atto costitutivo, si presentava come “associazione di promozione sociale della cultura”. Nel corso degli anni siamo sempre rimasti fedeli a questo principio fondante e, vista la realtà che ci circonda, abbiamo deciso di non essere monotematici, ma di offrire tanti spunti, diversissimi tra di loro, che andavano dalla letteratura, alla scienza, all’economia, alla storia, all’arte, all’etica ecc., sperando che fossero capaci di suscitare interessi, smuovere interrogativi, saziare curiosità o provocarne di nuove. Questa pluralità di proposte è ben testimoniata dalle locandine che abbiamo voluto riunire assieme ed esporre, su progetto della dott.ssa Alice Artico, perché da sole valgono più di tante parole di spiegazione delle nostre intenzioni.

E i risultati? È tempo di bilancio, abbiamo detto, oltre che di festa. E allora vediamo: è certamente positivo il fatto che siamo arrivati qui, ma non possiamo negare che il nostro è stato un viaggio difficoltoso, a tratti faticoso, disseminato a volte da incomprensioni esterne ed interne, che ha dovuto prosaicamente fare i conti con le poche risorse finanziarie derivanti peraltro esclusivamente dalle quote associative, ma, e rivendichiamo questo con orgoglio, ce l’abbiamo fatta, con le nostre sole forze, senza scorciatoie, senza protezioni di alcun tipo, restando liberi nelle nostre scelte. Certo ci hanno sorretto l’appoggio incondizionato di parecchi amici fidati, assiduamente presenti alle varie iniziative e la risposta positiva, generosa e disinteressata di moltissimi relatori che hanno animato le nostre serate, senza pretendere nulla, o molto poco in cambio. Non voglio soffermarmi qui a citarli tutti, lo meriterebbero, noti e meno noti, ma per questo ci sono sempre le locandine a testimonianza, mi limiterò a menzionare e a ringraziare, come rappresentanti di tutti gli altri, quelli presenti in sala: la professoressa Lucia Crovato, il dottor Bruno Anastasia, il dottor Sergio Barizza, il professore Daniele Dazzan. Grazie.

(segue a pag. 2)

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Per amore di verità

Sabato 10 maggio 2014, Gruaro ha ricordato e rivissuto con intensità ed emozione un momento tragico della sua storia con la presentazione del libro di Dario Bigattin “La maledetta puntura del 1933”, Comune di Gruaro editore, che rievoca attraverso testimonianze dirette ed indirette, la morte di 28 bambini, avvenuta nell’anno succitato, in seguito a vaccinazione antidifterica.

La vicenda è stata ampiamente illustrata nel nostro sito, a cui rimando per i particolari.

Fin qui tutto bene: lodevole l’impegno del Comune nel celebrare l’accaduto, apprezzabile la fatica storico-letteraria del signor Bigattin che ha fatto riemergere dall’oblio fatti e persone, straordinaria la partecipazione dei cittadini, accettabile nella sua essenzialità la regia dell’evento, ma… c’è un grosso ma: nessuno, né il Sindaco, né l’autore, (a cui peraltro concedo il beneficio del dubbio, perché poteva non conoscere tutti i risvolti della vicenda) ha citato e ringraziato il signor Adamo Gasparotto, uno dei sopravvissuti, che a questo evento ha dato l’impulso iniziale, lo ha “provocato” con le sue tenaci, puntuali e documentate richieste, ed ha riproposto all’attenzione collettiva ed istituzionale una questione etica e di giustizia, la ricerca della verità.

(Ancora una volta, a supporto di quanto detto, rimando al nostro sito che ha pubblicato le lettere inviate dal signor Adamo al sindaco e all’associazione La Ruota).

Grandi sono stati la mia sorpresa ed il mio sconcerto di fronte a questo silenzio, perché il riconoscimento mi sembrava un atto dovuto, che nulla avrebbe tolto ai meriti degli altri, anzi sarebbe stato un atto di correttezza e di onestà intellettuale che avrebbe fatto onore a chi l’avesse fatto.
Ma così non è stato: per una svista -per un mal interpretato senso di uguaglianza- per una ricerca esclusiva di consenso da parte dell’amministrazione comunale? A voi l’ardua sentenza.

E allora un grazie riconoscente, anche se non ha certo la stessa valenza, lo rivolgiamo noi de La Ruota al signor Adamo Gasparotto e per il suo impegno disinteressato e per la sua lezione di profondo civismo.

Grazie.

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Riflessioni sul “Giorno della memoria”

Quest’anno “La Ruota”, dopo nove anni, non celebrerà con una sua iniziativa, la “Giornata della Memoria” e non per un improvviso attacco di negazionismo, ma perché sente forte il bisogno di una pausa di riflessione alla ricerca di forme nuove e significative di comunicazione sul tema della Shoah. Il nostro timore infatti è quello di cadere nel cliché del rito che si ripete, anno dopo anno, sempre uguale a se stesso. “Oggi  Auschwitz è un simbolo, una metafora del male assoluto. E come tutte le metafore rischia di perdere la sua fisicità, diventa una figura stilizzata, estetizzante, oggetto di opere d’arte e pellegrinaggi” (WLODEK GOLDKORN – l’Espresso n. 4, 31 gennaio 2013, pag. 74-76).

Nel tentativo di sfuggire a questo pericolo, noi della Ruota, negli ultimi due anni, abbiamo cercato di contestualizzare la celebrazione, raccontando storie di internati locali; ma sentiamo che questo non basta, rimane il problema di cosa raccontare e come raccontare l’indicibile ai più giovani soprattutto, non perché manchino le testimonianze dirette o indirette, ma perché c’è la responsabilità di scegliere per essere efficaci e non retorici, per far riflettere e non solo commuovere e perché si capisce, grazie a Primo Levi, che il vero racconto su Auschwitz è impossibile perché l’avrebbero potuto fare solo coloro che non ci sono più: “i sommersi”.

“Ma il tempo passa -dice Goldkorn- …ed elaborare le parole dei testimoni scomparsi e in via di estinzione, significa guardare al futuro e non al passato. L’unico possibile insegnamento che si possa trarre da una vicenda indicibile, inenarrabile, inimmaginabile è questo. Ognuno è responsabile per ogni suo gesto. Si deve scegliere. La memoria significa azione.” E ancora Goldkorn, esplicita ulteriormente il suo pensiero e si chiede che differenza ci sia tra gli stupri di Bosnia e quelli perpetrati dagli ucraini sulle ragazze in Polonia. E come si sia potuto non intervenire con tutti i mezzi in Ruanda. O come si possano non trovare analogie tra la vicenda dei desaparecidos e la Shoah. “Non tradire la memoria di Auschwitz è in fondo semplice. Basta stare con i fatti, non con le parole, dalla parte degli oppressi, delle vittime, di coloro che hanno sete di giustizia” in tal modo la memoria si rivitalizza, si attualizza e rende possibile la speranza.

Ed è da questo invito ad andare avanti, includendo in questo percorso la memoria, che noi vorremmo ripartire.

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Ancora sulla guerra di Libia…

Dopo lo sfogo, un commento un po’ più ponderato.

“La cosa strana nell’assurdità della storia è che ci sia una spiegazione a tutto”
Cees Nooteboom, Voorbijie passages

Ancora una “guerra umanitaria”, ancora bombardamenti su un paese straniero per “lavare” la nostra coscienza di sedicenti democratici.
Questa volta tocca alla Libia del corteggiatissimo (in passato) Mu’ammar Gheddafi, ben consapevoli di quanto possa essere controproducente per gli equilibri interni di quel popolo un intervento militare occidentale.

E’ particolarmente fastidiosa l’ipocrisia di noi europei, che fingiamo di stupirci se un dittatore si comporta da dittatore, lo ignoriamo per anni quando massacra i migranti che tentano di giungere sulle nostre coste o reprime nel sangue la rivolta di Bengasi del 2006, ma siamo ben lieti di accettare i suoi investimenti nelle nostre banche, imprese, società di calcio.
Poi, quando ci accorgiamo che il suo potere rischia di sgretolarsi di fronte ad una Rivoluzione che non controlliamo e che potrebbe andare in una direzione che non ci piace, decidiamo di bombardarlo.

Senza alcuna credibilità e senza alcuna legittimazione, se non quella di essere stato 4 anni ministro della Giustizia del regime di Gheddafi, il segretario del Consiglio Nazionale ad interim di Transizione della Libia (CNT), Mustafa Abdul Jalil, tra i principali fautori dei bombardamenti occidentali, rassicura pervicacemente i paesi europei che ad un cambio di regime nulla cambierà, nei rapporti internazionali, nè per quanto concerne le forniture energetiche, nè per il “controllo” sull’immigrazione (tanto caro a noi italiani).

Il CNT libico, composto da 31 membri, quelli noti quasi tutti di Bengasi, con un solo rappresentante dei giovani (l’avvocato Fathi Tirbil) che tanto si stanno spendendo nella Rivoluzione libica, è un organo riconosciuto internazionalmente solo da Francia, Qatar ed Italia, ha un sito internet che sembra fatto su misura per noi occidentali (recita tronfiamente: “Freedom, Justice, Democracy”), un manifesto politico quanto di più generico e vago possibile (*).

La verità è che con questi bombardamenti nessuno, nemmeno gli insorti, sembra sapere in che direzione possa andare la Rivoluzione, né quanto possano essere forti ed influenti questi personaggi e pressioni filo-occidentali sul CNT.

Un autentico cambio di regime in Libia è tutto da verificare, la Storia anche recente (penso alla Rivoluzione dei Cedri in Libano, nel 2005) insegna quanto sia breve il passo da una vittoria della guerra civile ad una sconfitta della Rivoluzione.

Per questo sono contro la guerra degli Occidentali: sto con gli shebab, sto con la Rivoluzione libica e credo che nessun governo arabo libero possa mai costituirsi con l’interferenza occidentale.

(*) valga per tutti il punto 7b, ove in tema di economia recita: “lo sviluppo di una genuina partnership economica tra un forte e produttivo settore pubblico, un libero settore privato ed un’efficace società civile che eviti corruzione e sprechi”.

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La legge è uguale per tutti, compresi i preti

Il 25 giugno 2010 la polizia belga ha fatto irruzione nei locali dell’arcivescovado  di Malines, Belgio, bloccando i vescovi  presenti  e sequestrando  telefonini, documenti e agende.  Un’azione qualificata dai prelati vaticani di “peggiore di quelle  perpetrate dai comunisti”, di “triste momento” secondo il Papa, insinuando che i preti erano rimasti senza bere ne mangiare per nove ore.

La costituzione belga è molto chiara: secondo l’articolo 268 del Codice Penale, i ministri del Culto non possono attaccare qualunque atto dell’Autorità pubblica. Un articolo che, se dovesse esistere ed essere applicato in Italia, porterebbe nelle aule di Giustizia un giorno sì e un altro ancora i rappresentanti  vaticani che, da sempre non solo giudicano e criticano leggi e azioni del Governo della Repubblica, ma danno addirittura  indicazioni di voto durante la messa.

La stampa ha pertanto schernito l’intervento delle Autorità Giudiziarie belghe facendo finta di dimenticare l’emergere da anni del problema della pedofilia ad ogni livello ecclesiasti ma anche senza dare la specifica dell’argomento da trattare da parte dei vescovi durante quella riunione: i vescovi belgi si preparavano  a discutere il punto 5 dell’ordine del giorno approntato dal vescovo di Liegi Mgr. Alois Jousten, intitolato: “della necessità di trasmettere le cartelle dedicate ai preti pedofili alla Commissione Andriaenssens”.

Il giudice belga, al corrente della volontà ecclesiastica di non trasmettere  le cartelle relative a preti pedofili, e altrochè al corrente  che esistono, ha semplicemente  confermato non solo l’indipendenza reale della giustizia  nei confronti del potere politico in Belgio ma altrettanto la sua assoluta  volontà di considerare i rappresentanti del culto cattolico , di qualsiasi livello, come cittadini per niente al di sopra di ogni sospetto, in onore di un detto troppo spesso citato ma non applicato da queste parti ossia: la legge è uguale per tutti.

La libertà, fra cui quella di espressione è un bene molto prezioso che la stampa belga la difende aspramente. Aiuta il piccolo  Paese nordico  a posizionarsi al 3 posto nella graduatoria mondiale sulla libertà di espressione, quando l’Italia è confinata al 74esimo posto a mala pena prima della Corea del Nord. Pertanto, al di sopra di ogni divergenza politica o linguistica l’azione delle Istituzioni nazionali è stata sostenuta grazie ad articoli che davano il polso della reazione popolare.

Marc Metdepenningen, giornalista  francofono ma di certo di origini fiamminghe con un cognome del genere, non ha lesinato sulle parole: “il Vaticano trova verosimile la guarigione di una signora di 95 anni affetta da tumore, da parte di un suo zio, monaco libanese (ovviamente beatificato) ma giudica “inverosimili e gravi” le perquisizioni nella sede episcopale. Risponde a Bertone che qualifica l’intervento  “peggiore di quelli comunisti” chiedendo al prelato di prendere in considerazione le pratiche dei giudici dell’Inquisizione che arrostivano sui falò “streghe e altri Cathari”.  Continua meravigliandosi del disprezzo che ha lo stesso Bertone nei confronti del peccato di menzogna visto che disinforma pubblicamente quando afferma che i preti sono rimasti a digiuno (pure pratica religiosa) per tutta la durata del fermo. In effetti, la polizia ha facilmente provato che i prelati hanno ricevuto pollo, pomodori, eppure vino!

Insomma la stampa belga sorride: “La Chiesa, di nuovo, inciampa nel tappeto” e si fa seria quando scrive: “il papa, come la Chiesa belga se vogliono rimanere credibili e assumere le proprie responsabilità sui scandali pedofili interni hanno una sola scelta: aprire gli archivi, appurare ciò che fu “la legge del silenzio” richiesta da Malines e Roma e lasciare agli inquirenti parlamentari, giudiziari e storici l’onere di spiegare il passato e salvare il presente.

Una azione esemplare e la relativa reazione mediatica che, a parere mio, dovrebbero essere d’esempio in Italia. Un modello che, se applicato, darebbe la prova di una reale libertà di azione delle Istituzioni repubblicane nei confronti dello Stato vaticano e la prova che religione e Stato sono indipendenti. Insomma che se la religione di Stato è cattolica, la Chiesa cattolica non è lo Stato.

Invece, assistiamo  al solito balletto politico, dall’estrema Destra alla Sinistra integralista, delle prese di posizioni onte e succube, tradizionali nel dare un colpo  al ferro e uno alla botte. Un balletto che vede girare, a md’ di offerta, i deretani dei danzatori a caccia di voti  e le facce nauseate di chi ci osserva da oltre confine.

Claude Andreini. Belga

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Elogio della normalità

Scorrendo gli articoli del giornale, mi sono imbattuta per ben due volte nell’aggettivo “epocale”, anche se usato con accezioni e sfumature diverse: una volta in senso letterale, come sinonimo di “periodico”, un’altra in quello di “eccezionale” anche se con un’intensa connotazione ironica, ma tant’è il vocabolo, nella sua pregnanza e nella sua frequenza mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Mi sono resa conto innanzitutto che il termine è molto di moda ed è usato frequentemente nel linguaggio giornalistico e nel politichese per indicare avvenimenti, provvedimenti e riforme presentate come capaci di segnare un’epoca appunto, naturalmente migliorandola.
Ed è proprio questo esclusivo significato positivo, attribuito al succitato aggettivo che suscita un moto di diffidenza e sollecita la mia analisi; continuando quindi nel mio esame della parola da un punto di vista lessicale e connotativo, osservo, ripetendomi che esso può essere correttamente sostituito da “eccezionale”, “straordinario” ed allora la sottolineatura enfatica, celebrativa appare ancora più evidente.

Ad “epocale” poi io associo istintivamente il sostantivo “evento” che mi porta, dritto dritto, al mondo dello spettacolo, di cui è diventato, nel linguaggio comune, sinonimo, ed allora il cerchio è chiuso.
Considerando che il linguaggio è lo specchio di una determinata società in un determinato momento storico, non riesco a sottrarmi al pensiero di una spettacolarizzazione della vita pubblica, sociale e politica con tutte le implicazioni negative o discutibili che questo comporta ed allora ho l’impressione di trovarmi immersa in una comunità separata, in cui ci sono da una parte cittadini-spettatori e dall’altra politici-attori.

A questo punto penso che mi piacerebbe tanto che l’aggettivo in questione venisse usato con meno enfasi compiacente, o venisse sottaciuto, o meglio sostituito, anche implicitamente, da “normale”, termine meno ridondante certo, dal significato forse non del tutto univoco, ma più aperto a valutazioni ed interpretazioni e che fa pensare ad una società in cui leggi e riforme rispondono a bisogni reali dei cittadini che non sentono la necessità di essere stupiti con “effetti speciali”.

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Che Paese, l’Italia!

Ma in che Paese viviamo? L’Italia sta andando alla deriva?

Si sta registrando un degrado etico-sociale mai avvertito prima; la nostra Costituzione continuamente calpestata se non violata nei suoi principi fondamentali, democrazia, libertà, uguaglianza che si fondano sulla dignità della persona, di qualunque persona.
Razzismo, omofobia, violenza, bullismo, non rispetto delle regole e dell’ambiente, sembrano aver sostituito  senso civico e solidarietà, smentendo la tradizionale accoglienza dimostrata dagli Italiani nel corso della propria storia.

Come mai? Non basta cercare le cause nella crisi economica e neppure dire che è colpa della TV e della stampa. (Certa stampa comunque, non è priva di responsabilità, se pensiamo alle campagne diffamatorie a carico di personaggi più o meno noti!)
Si è parlato tanto dell’esclusione del Crocefisso dagli edifici pubblici e nel contempo la nostra classe politica pare fare un uso spregiudicato di una sottocultura qualunquista e demagogica che sdogana le peggiori istanze di una minoranza razzista, omofoba, xenofoba e violenta.
Giovani dotati, senza prospettive,  devono abbandonare l’Italia per potersi costruire un futuro, poiché nel proprio Paese valgono più la raccomandazione, le conoscenze, il nepotismo piuttosto che il talento. Altro che Meritocrazia!

Basta assistere a qualunque “dibattito” politico per capire, anzi non capire in che Paese viviamo! La verità non è mai stata così contraddittoria; tutti sembrano aver ragione e nel contempo avere torto. Eppure la classe politica che ci governa sostiene di agire nell’interesse e nel nome del popolo italiano da cui pare abbia avuto una delega “in bianco”.

Un radicale ricambio dei nostri rappresentanti politici, più lontani dalle ideologie, dai propri interessi e privilegi personali e più vicini agli interessi veri della collettività, forse porterà maggiore fiducia nelle Istituzioni e quindi maggiore partecipazione e consapevolezza della gente al vivere comune.

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Il Muro (di Berlino…) 1989-2009

Attenti, perché a quel muro tutti noi eravamo aggrappati. Con questo ammonimento Giulio Andreotti smorzò il giustificato entusiasmo che contagiò il mondo occidentale nei giorni che seguirono la caduta del muro di Berlino. Il coro dei media, dei politici, degli intellettuali non perdevano l’occasione per cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo ora liberato dall’incubo rappresentato dal comunismo. Fine della tensione internazionale, della minaccia nucleare, la pace duratura come orizzonte, apertura dei mercati, opportunità di ricchezza e occupazione per tutti, insomma: un futuro più roseo di ogni ottimistica previsione sino ad allora propagandata.

Ma quel muro materializzava l’equilibrio precario del mondo. Ad esso erano aggrappati la Casa Bianca e il Cremlino, la CIA e il KGB, i paesi satelliti aggregati nel Patto Atlantico e nel Patto di Varsavia, israeliani e palestinesi, gli sceicchi arabi, i dittatori sudamericani, i guerriglieri, i paesi non allineati. Le tensioni fra questi soggetti restavano in qualche modo confinate in territori limitati. Appena tentavano di sconfinare si alzava il sipario della liturgia costituita da immagini terrorizzanti quali missili nucleari pronti al lancio, sommergibili e cacciatorpedinieri in movimento, aerei con ordigni nucleari pronti al decollo. Sullo sfondo conflitti terribili ma locali dove le superpotenze si misuravano, a vicenda, dalle opposte fazioni: Vietnam, Afghanistan, Cuba, Medio Oriente. Nel frattempo, in Estremo Oriente crescevano le tigri finanziarie e tecnologiche pronte ad occupare, nel giro di qualche anno, il vuoto lasciato dal muro. L’Africa, come al solito, interessava, e interessa, solo come lucroso mercato delle armi necessarie alle guerre tribali o come contenitore di materie prime.

Sbriciolato il muro, l’equilibrio subì la medesima sorte e come prevedibile si stratificò in livelli. Per quelli determinati dal denaro, l’equilibrio si ristabilì in tempi ragionevoli dato l’esiguo numero dei soggetti coinvolti e perlopiù appartenenti alle oligarchie preesistenti la caduta del muro. Per quelli, più numerosi, determinati dalla domanda di indipendenza di popolazioni sino ad allora prevaricate anche nella sfera privata, l’equilibrio non si ristabilì. La circostanza offrì alla politica l’occasione per mostrare il suo volto peggiore. Avventurieri dei primi anni novanta cavalcarono con criminale superficialità i destrieri dell’autonomia e del rancore materializzando, a livello sociale, i fantasmi mai sopiti della paura del diverso oltre a presunti torti “storici” subiti da etnie fino ad allora pacificamente conviventi.

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Sottovoce…

Adesso che l’ondata emotiva, suscitata dal caso Englaro, è passata o almeno si è un po’ attenuata, vorremmo anche noi dare un piccolo contributo alla discussione che è nata sul fine vita, ma vorremmo farlo pacatamente, sottovoce appunto, senza quei toni urlati, esasperati, irrispettosi a volte dei sentimenti più profondi delle persone coinvolte, che l’hanno caratterizzata. Per farlo vogliamo partire dall’articolo 32 della Costituzione, la madre di tutte le leggi, che recita “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

In questo articolo il legislatore ha previsto tutto: diritti dei cittadini riguardo alla tutela della propria salute, doveri e limiti dello Stato; ecco allora il Servizio sanitario pubblico e il consenso informato, si tratta ora di completare i dettami della legge con il testamento biologico, riguardante le modalità del fine vita in situazioni irreversibili. La materia è certamente delicata e va a toccare sensibilità e convinzioni diverse e profonde, tutte ugualmente degne di rispetto, ma diventa tutto più semplice, a nostro avviso, lasciando la libertà di scelta al singolo individuo, perché, come dice Rita Levi Montalcini “morire con dignità è un diritto individuale e il testamento biologico va scritto esclusivamente per noi stessi. Non si può mai decidere per gli altri”. In questa ottica di esercizio dell’autodeterminazione è chiaro che chi crede che la vita sia un dono di Dio, sul quale la persona non ha alcun diritto di disporre, non si avvarrà di questa possibilità di decidere e continuerà ad essere assistito e tenuto in vita comunque.

Inoltre accettando il principio della libertà di scelta si applicherà, finalmente, completamente un altro dettame costituzionale, quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Forse la nostra può apparire una semplificazione estrema, un ragionamento da “il re è nudo”, ma può essere a nostro avviso, e lo ripetiamo sottovoce ma fermamente, un punto di partenza su cui poi innestare e sviluppare altre argomentazioni e problematiche, prima fra tutte su chi far decidere sul fine vita per chi ha perso le proprie facoltà mentali, sul ruolo dello Stato in questa materia così delicata, su cosa sia trattamento medico o di sopravvivenza.

Il dibattito è aperto, ma noi diamo il nostro contributo scegliendo di esercitare il diritto di decidere di morire con dignità, senza essere obbligati a rimanere attaccati ad una macchina per un tempo indefinito, senza pensare con questo di imporre ad altri, che la pensano diversamente, la nostra scelta.

Allo stato attuale, la legge in discussione in Parlamento di fatto stabilisce l’indisponibilità, per ogni persona, di decidere sul proprio fine vita, ledendo così il principio sancito esplicitamente dalla Costituzione e correndo il rischio quindi, secondo l’opinione di molti giuristi, di incostituzionalità. Una legge truffa poi questa, secondo Stefano Rodotà, proprio perché per introdurre nel nostro sistema il testamento biologico, in concreto raggiunge l’obiettivo “di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone”.

C’è materia su cui riflettere, facciamolo dunque…

La Redazione

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