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Ricordi di scuola…

“Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”

A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.

L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.

La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”

La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).

Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.

Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.

C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.

Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.

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Boldara

  • BOLDARA: località del comune; varie sono le ipotesi sull’origine del nome:
    La prima lo fa derivare  da voltara, con riferimento alle anse del fiume Lemene.
    La seconda lo fa risalire al tedesco wald cioè bosco, che richiama un territorio ricoperto da foreste.
    La terza lo fa derivare da volpara, cioè luogo delle volpi, cambiato successivamente in Boldara.
  • Via Crosara: il toponimo, di recente formazione, si riferisce a vie o strade caratterizzate dalla presenza di un incrocio.
  • Strada Ronci: si tratta di un nome molto diffuso in tutto il Friuli. Dal latino, roncare, sarchiare, depilare, ma anche mietere. I terreni così denominati, erano in origine luoghi boschivi, disboscati per lasciare posto alla coltivazione o ai pascoli.
  • Slargo Borghetto: a Boldara indica un gruppo di abitazioni lungo una strada secondaria, poco lontana dalle vie di comunicazioni più importanti.

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Il cercatore di alberi… genealogici

Il sogno di molte persone, me compreso, è quello di scoprire le origini della propria famiglia e del proprio cognome.
Una volta la genealogia era tenuta in grande considerazione e veniva usata anche per scopi pratici, come verificare eventuali eredità, combinare i matrimoni più opportuni tra famiglie di pari condizione sociale, reali, nobili, benestanti; ma le ricerche genealogiche si possono fare su tutte le famiglie, aristocratiche e no, perché tutti noi abbiamo una storia e tutti, indistintamente, abbiamo degli ascendenti. È bene infatti tener presente che ognuno di noi ha 2 genitori, 4 nonni, 8 bisnonni, 16 trisavoli e così via; con questa progressione dopo 12 generazioni i nostri avi sarebbero 4096, (questa è la “ricerca per quarti”, la più completa); bisogna ricordare poi che, più si va indietro nel tempo, per l’incrociarsi dei rami genealogici, ognuno dei componenti l’albero è molte volte nostro avo.

La mia passione per le ricerche genealogiche è nata grazie a mia madre che, con i suoi racconti sulle vicende della nostra famiglia, ci ricordava chi eravamo e da dove venivamo. Ma non bastava: ho ancora viva nella mia mente l’immagine di me bambino che, andando con lei a Giai in bicicletta, (lei era di lì) la subissava di domande sui proprietari dei campi che si estendevano ai lati della strada e lei allora mi raccontava, con dovizia di particolari, la storia di quelle persone, ed io ascoltavo incantato e, senza saperlo, immagazzinavo informazioni e mi creavo un mio piccolo archivio.

Una volta cresciuto, la curiosità mi ha spinto a verificare sui documenti l’attendibilità dei racconti ascoltati a partire dall’infanzia ed ho sentito il bisogno di approfondire ulteriormente le mie conoscenze sui miei antenati e, cammin facendo, ho fatto ulteriori scoperte.
Concretamente le mie ricerche sono iniziate nel 1994 quando in famiglia abbiamo avuto bisogno di risalire alla data di nascita del bisnonno e nessuno la ricordava, neanche mia zia Nina, altra fonte inesauribile, dopo mia madre, di notizie.

Ho dovuto così affrontare, esaurito il filone della tradizione orale, pur supportato da tutta la documentazione (fotografie, dati anagrafici, lettere, atti notarili ecc.) presente in ogni famiglia, il problema delle fonti scritte. Eccomi quindi approdare ai registri parrocchiali, a quelli depositati in Curia, agli atti notarili custoditi negli Archivi di Stato, agli atti di stato civile, reperibili in quelli comunali. A proposito dei primi è opportuno ricordare che, in seguito ad una disposizione della Chiesa, adottata dopo il Concilio di Trento (1563), le Parrocchie furono tenute a registrare tutti i battesimi e matrimoni che si celebravano nel loro territorio; in seguito ai già citati, si affiancarono altri due registri, quello dei morti e quello del cosiddetto “Stato delle anime”, censimento vero e proprio, fatto dal sacerdote, che recandosi nelle famiglie per la benedizione pasquale chiedeva appunto quante “anime”, persone, facessero parte del nucleo familiare. Per inciso, ricordo che quest’ultimo registro non c’è a Gruaro e che i primi atti registrati nell’archivio parrocchiale risalgono al 1602. Nel fare queste consultazioni non mancano certo le difficoltà: gli atti hanno una grafia spesso difficile da decifrare e quindi bisogna fare una minuziosa opera di confronto e di controllo, molte parole poi sono scritte in forma abbreviata (forse per risparmiare inchiostro e carta); ci sono poi i casi di omonimia, per cui per identificare con certezza una persona bisogna rintracciare, accanto all’Atto di battesimo anche quello di matrimonio e di morte per poter fare dei controlli incrociati e per evitare di inserire al posto sbagliato un parente omonimo ma non appartenente al filo genealogico desiderato.

Succede poi che uno stesso individuo appaia nei vari atti con variazioni nel cognome (es: Barbui-Barbuio) e non è possibile servirsi, per dirimere la questione, della firma dello stesso, perché questa è stata introdotta nei nostri territori, dall’Austria, solo nel 1815, quando fu dato l’incarico alla Chiesa di tenere, accanto a quello canonico, anche il registro civile; è molto importante poi non trascurare nessuna parola, lettera o segno riportati negli atti, perché possono essere fondamentali per collocare con precisione nel tempo un soggetto.

Nel fare queste ricerche emergono alcune consuetudini ben radicate nella vita della comunità: la maggior parte dei matrimoni ad es. venivano celebrati a novembre, dopo San Martino, che segnava la fine dell’anno agrario e la conseguente chiusura dei conti; in genere gli sposi appartenevano poi allo stesso paese o a paesi limitrofi; si cercava, con l’intervento di un sensale di matrimoni, moglie /marito fuori paese, quando si restava vedovi; non venivano celebrati matrimoni in Avvento e in Quaresima.

Inevitabilmente il mio lavoro, pur imperniato sulla mia famiglia, per le caratteristiche metodologiche sopra illustrate, ha coinvolto altri nuclei familiari per cui, a poco a poco si è dipanata davanti a me una rete di relazioni in cui, a tratti, faceva capolino come fattore condizionante la storia, che, toccando la vita di individui che andavo riconoscendo, assumeva ai miei occhi una concretezza ed una pregnanza mai avvertite prima e mi traghettava alla comprensione del presente; la genealogia, a mio avviso, può avere anche per altri questa funzione e non deve quindi essere guardata come una bizzarria, ma come un ulteriore strumento di conoscenza.

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Una notte d’inverno una bambina…

Era il 6 gennaio del 1958, ed io stavo dormendo, beata, nella camera che dividevo con mio nonno e mio fratello, nel mio letto, sul mio bel materasso di foglie di mais, quando mia madre venne a svegliarmi, o meglio a buttarmi giù da quel bendidio e, mentre cercavo di capire chi o cosa fosse successo, mi ritrovai a cavallo della bicicletta con in mano la borsa del pranzo di mio padre, mentre mia madre, per la terza volta mi ripeteva di fare presto, di correre alla stazione a portare quella borsa. Finalmente capii: mio padre si era scordato di portarsi il pranzo ed io dovevo andare alla stazione di Cordovado per riparare alla dimenticanza.

Dovevo arrivarci prima che il treno partisse. Avevo 10 anni, arrivavo a malapena ai pedali della bicicletta; quella mattina poi faceva un freddo cane, anche perché addosso avevo solo delle calze di lana di pecora, che mi arrivavano a stento un po’ più su delle ginocchia, tenute ferme lì da due elastici, una misera gonna ed un golf di mia madre, e sì, perché almeno così mi copriva tutta, una sciarpa ed un fazzoletto in testa.

Fuori faceva ancora buio, erano le 5 del mattino. Io abitavo vicino al cimitero e quindi dovevo per forza passare di lì; mi feci forza e, per distogliere lo sguardo da quella direzione, guardai su, in alto, il cielo e, meraviglia, scorsi la luna.
Rimasi senza fiato per quanto era grande e mi parve bellissima; d’improvviso mi resi conto che non l’avevo mai vista così.
Mi sentii rincuorata e, dando un occhio alla strada e uno alla luna, presi a pedalare più forte che mai. Superai Bagnara, arrivai al ponte della Roia e, dentro di me pensai “Chissà cosa diranno di me le donne al lavatoio…!”.

Ma il lavatoio era deserto.
Dove erano finite tutte le sue assidue frequentatrici che, a detta loro, erano già lì alle 4 del mattino, pronte a disputarsi il posto migliore? Sparite! Come mai quella mattina non c’era nessuno? “Sempri fortunada mi!” pensai.

Pedalavo sempre con lena ed arrivai al ponte sul Lemene, ma anche lì, nessuno, nonostante nelle vicinanze ci fosse la “Tisa”, una fabbrica tessile.
Niente non c’era anima viva… c’eravamo sempre solo io e la luna.
Continuai la mia corsa solitaria, ma un po’ di paura mi assalì nuovamente, quando mi trovai di fronte il sottopassaggio della ferrovia, simile ad un buco nero pronto ad inghiottirmi. Ma a rincuorarmi ci pensò il rumore dell’acqua di una piccola roggia lì vicino, ed allora il mio pensiero corse al mulino che sorgeva sulla riva e che mi piaceva tanto. Che meraviglia scoprirlo ora alla luce chiara della luna, con le pale che giravano e facevano cantare l’acqua! Così la paura passò. Ormai ero quasi arrivata.

Ricordo come adesso la volata che feci, quando  mi si presentò davanti lo stradone che portava diritto alla stazione.
Ansimante scesi dalla bicicletta, proprio mentre il treno arrivava; mi precipitai dentro di corsa, ma di botto mi fermai: la sala d’aspetto era piena d’uomini che aspettavano il treno; ebbi un momento di smarrimento, perché tutta quella gente mi impediva di vedere mio padre.

Non so perché, ma ricordo che gridai, forte: “Papà!”.

Tutti si girarono ed io, intimorita da tutti quegli sguardi, mi sentii diventare piccola piccola… mio padre si fece largo tra la folla e, senza parlare, mi si avvicinò e piano, sottovoce, mi disse: “Ciuta, ma se fatu chì?”. Io, senza dire niente, gli porsi la borsa del pranzo, lui la prese e mi disse: “Grasie, va a ciasa, pissula!”.

E mentre lo diceva gli ridevano gli occhi e dalla sua mano spuntò, come per magia, una caramella alla menta. Qualcuno chiamò mio padre e lui, salutandomi con la mano, se ne andò a prendere il treno.

Uscii dalla stazione che mi sentivo come se camminassi a mezz’aria, stringendo quella caramella che, se ben ricordo, mangiai a più riprese, perché non volevo che finisse.
Sulla via di casa, salutai la luna che se ne andava a dormire. Questa volta di gente ne trovai tanta per la strada e tutti volevano sapere cosa facessi lì a quell’ora, da sola.

Quando giunsi al lavatoio poi mi dovetti  perfino fermare per soddisfare la curiosità delle donne che non si capacitavano di vedermi in giro così presto; ma io spiegai tutto, con orgoglio, perché era una prova da grandi quella che avevo affrontato e mi sentii gratificata dai complimenti che mi fecero sentire protetta e parte di una comunità.

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Bagnara

  • Piazza Aldo Moro: (Maglie, Lecce, 23/09/1916 – Roma, 09/05/1978)
    Politico. Deputato democristiano dal 1948, più volte ministro, segretario della DC (1959/65), presidente del Consiglio (1963/68), formò un governo di centro-sinistra con la partecipazione del PSI. Ministro degli Esteri (1969/74) e di nuovo presidente del Consiglio (1974/76). Dal 1976 presidente della Democrazia cristiana, venne rapito dalle Brigate Rosse il16/03/1979, mentre preparava l’allargamento della maggioranza al PCI. Dopo 55 giorni di sequestro, fu ritrovato ucciso in una vettura parcheggiata nel centro di Roma.
  • Via Volpi di Misurata: (Venezia, 19/11/1877 – Roma, 16/11/1947)
    Volpi Giuseppe. Imprenditore e politico. Fondatore della S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità, 1905), tristemente famosa per aver costruito la diga del VAJONT. A lui si deve anche la C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi).
    Nel 1919 ideò e avviò la costruzione del complesso industriale e portuale di Marghera stabilendo una proficua collaborazione con le strutture del regime fascista. Governatore della Tripolitania, regione della Libia, nel 1921/25, fu in seguito ministro delle Finanze (1925/28). Durante il ventennio fu insignito del titolo nobiliare di Conte della Misurata Abbandonati gli incarichi di governo, estese le sue attività imprenditoriali a diversi settori: fu inoltre presidente della Biennale di Venezia e tra i promotori del festival cinematografico. Dal 1934 presiedette la Confederazione fascista degli industriali. Arrestato dai Tedeschi dopo la caduta del regime fascista (1943), venne rilasciato dopo alcuni mesi di detenzione e si rifugiò in Svizzera dove svolse una certa attività antifascista che gli valse la simpatia degli U.S.A. e la conseguente riabilitazione politica. Il nome dell’industriale veneziano entrò a far parte dell’onomastica stradale del comune quando questa fu rinnovata nell’agosto del 1968 (Delibera del 28 agosto 1968), portando la motivazione di rendere la numerazione civica “più rispondente alle esigenze di oggigiorno”!
  • Via Vincenzo Monti: (Alfonsine, Ravenna 1754 – Milano 1828)
    Poeta e letterato. Frequentò l’università di Ferrara, ma fu a Roma, dove era segretario di Luigi Braschi, che la sua cultura assimilò le varie tendenze letterarie dell’epoca. Le capacità di verseggiatore appaiono già in luce nel poemetto “La bellezza dell’universo” nelle odi “La prosopopea di Pericle” e “Al signor di Mongolfier”.
    Alla discesa di Napoleone si trasferì a Bologna e poi a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Fuggito a Parigi, divenne aperto sostenitore di Napoleone per cui scrisse numerose opere cortigiane: “Il bardo della Selva Nera”, “La Mascheroniana”, “Il Prometeo”.
    Caduto in disgrazia al ritorno degli Austriaci, nonostante alcune opere di carattere encomiastico, come “Mistico omaggio”, vide ridimensionata la sua fama. La facilità con cui Monti passò da uno all’altro genere da un tema all’altro e la superficialità con cui si offrì alle forze, di volta in volta dominanti in Italia, caratterizzano la sua fisionomia umana e letteraria. Poeta di ispirazione neoclassica, compose versi di armoniosa musicalità e limpidezza cristallina, ma raggiunse i suoi esiti migliori come traduttore dell’Iliade.
  • Via Ugo Foscolo: (Zante, isola greca, 1778 – Turnham Green, Londra, 1827)
    Poeta. Compiuti i primi studi a Spalato, dopo la morte del padre medico, si trasferì a Venezia (1792). Entrato in contatto con la parte culturalmente più progressista della società veneziana, maturò ideali libertari e giacobini; per la sua opposizione al governo cittadino dovette fuggire a Bologna dove pubblicò l’ode “A Bonaparte liberatore”. Tornato a Venezia alla caduta della Serenissima, con l’incarico di segretario del nuovo governo, rimase profondamente deluso dalla firma del trattato di Campoformido, che consegnava la città agli Austriaci.
    Costretto a fuggire a Milano dove conobbe V. Monti e G. Parini, cominciò a collaborare con giornali e riviste. Passato a Bologna continuò l’attività di pubblicista e scrisse il romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, romanzo largamente autobiografico, espressione di una profonda crisi esistenziale e filosofica. Successivamente ritornò a Milano dove pubblicò le odi “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e “All’amica risanata” e 12 sonetti, tra i quali “Alla musa”, “Alla sera”, “A Zacinto”, “In morte del fratello Giovanni”; in essi le inquietudini della sua personalità si fondono in un rigoroso equilibrio formale e poetico. A Milano compose (1804-06) anche il carme “Dei sepolcri” in seguito all’editto napoleonico che proibiva la sepoltura nei centri abitati. Il poeta presenta una serie di considerazioni sul tema della morte e soprattutto su quello dell’immortalità legata al ricordo nei posteri del valore e della virtù, come testimoniano le tombe dei grandi Italiani sepolti a S. Croce a Firenze. Persa completamente la fiducia in Napoleone e cresciuti i dissidi con l’ambiente letterario milanese, si trasferì a Firenze dove avviò la stesura del poemetto “Alle Grazie”.
    Dopo la definitiva caduta di Napoleone, rifiutò l’offerta del governo austriaco di dirigere la rivista letteraria “Biblioteca italiana” e se ne andò esule volontario a Londra. Qui si dedicò soprattutto agli studi di critica letteraria che ne fanno uno dei maggiori critici ottocenteschi.

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Giovanni Daneluzzi

Anche in un paese piccolo come il nostro, si possono fare, inaspettatamente, incontri interessanti ed emozionanti, che lasciano sbalorditi, piacevolmente sorpresi; è quanto è accaduto con Giovanni Daneluzzi, classe 1904, nato a Giai, dove visse fino al 1978, noto a tutti con il soprannome di “Stucchi”, in chiaro riferimento alla sua attività di decoratore.

Naturalmente la mia, visto l’anno di nascita del nostro, non è stata una conoscenza diretta, ma mediata dal ricordo delle figlie, dal loro tributo d’affetto che le ha spinte a conservare, nella restaurata casa paterna, le testimonianze tangibili della sua passione di pittore autodidatta e di freschista ancora visibile in alcune stanze. La sua realizzazione più notevole, sotto questo punto di vista, è lo studio che è stato completamente affrescato, pareti e soffitto, con un effetto particolarmente suggestivo e straniante, perché inserito in una struttura peraltro moderna. Le pareti sono suddivise da cornici e da finte paraste in riquadri, decorati con effetto marmo; il soffitto poi ha un grande rosone centrale che racchiude in una struttura architettonica classicheggiante, la figura mitologica di Aracne, tutto intorno elementi decorativi vegetali che terminano in 4 medaglioni, uno dei quali contiene l’autoritratto del pittore, mentre i rimanenti, destinati ai ritratti degli altri componenti della famiglia, sono rimasti vuoti. L’opera risale al 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla luna.

Altri affreschi sono visibili sul soffitto di un bagno (qui la visione, non senza una punta d’ironia, a mio avviso, è celestiale) e di una stanza da letto.
Due suoi affreschi, rappresentanti Santa Dorotea e Agnese, si trovano poi nella cappella di Villa Ronzani a Giai. Alle pareti inoltre, moltissimi quadri dipinti nel corso della sua vita, tra cui spicca un autoritratto del 1930.
La pittura e la lettura furono le sue grandi passioni, coltivate sempre, ma con maggiore assiduità quando, con l’età, il suo lavoro di decoratore prima e di imbianchino poi (i tempi ed i gusti erano cambiati dopo la guerra!) non lo impegnava più; ma anche quando era ancora attivo, approfittava dei periodi di riposo forzato, dovuto all’inclemenza del tempo, per dipingere.

Iniziò a lavorare molto giovane in quel di Trieste e Venezia e fu impegnato nel restauro di palazzi, in cui venne a contatto con modelli decorativi e pittorici che poi riprodusse nella sua abitazione.
Coltivava le amicizie e spesso invitava a casa i compagni delle partite a carte domenicali ai quali mostrava orgogliosamente i suoi quadri, che amava a tal punto da non volerne vendere alcuno; al massimo li prestava.

Amico del  pittore Gigi Duz, da cui è stato ritratto (il quadro è ancora alla parete), era perfezionista e metodico nel disegno e traeva ispirazione soprattutto dalla realtà, ma anche dalle opere dei grandi pittori, come attestano i suoi affrschi e dalle numerose e varie letture a cui si dedicava. A questo proposito, soleva ripetere alle figlie “Con la fantasia e la lettura si va dovunque!”.

I tanti libri che riempiono gli scaffali dello studio sono ancora quelli che egli abitualmente comprava al mercato di Portogruaro ed attestano la sua curiosità e il suo  desiderio di conoscere; giocava agli scacchi e si impegnava con tenacia a risolverne i rebus. Le figlie completano il suo ritratto con una simpatica nota di colore, sottolineando la cura quasi maniacale che il padre riservava al suo abbigliamento che risultava così elegante e ricercato e che comprendeva sempre gilè, ghette e gemelli ai polsi, ribadendo in tal modo l’originalità e unicità del personaggio nell’ambito paesano.

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La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

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Orietta Celant

Celant Orietta, via Bagnarola 13, Bagnara, pittrice; queste le scarne informazioni a mia disposizione, attinte dal depliant della mostra d’arte tenutasi a settembre a Gruaro, quando ho chiesto di incontrarla per questa nostra rubrica. E’ stato un po’ un appuntamento al buio il nostro, ma non sono certo rimasta delusa. Orietta si è raccontata con grande trasporto e sincerità, parlandomi di sé, del suo percorso artistico, dei suoi progetti ed aspirazioni.

Mi ha ricordato di come la sua passione per la pittura risalisse ai tempi della scuola media, frequentata a Cinto Caomaggiore, di cui è originaria, di come avrebbe voluto intraprendere studi di tipo artistico, ma di come questo, per una serie di circostanze, non fosse stato possibile, e di come molti la esortassero a tenere i piedi per terra, per cui lei, sia pure a malincuore, aveva dovuto cedere e aveva ripiegato su un’altra passione, quella di riserva, lo stilismo. Ecco quindi la scuola professionale per stilista di moda, accompagnata dallo studio della tecnica sartoriale, proprio per dare concretezza alla sua formazione.

Conseguita la maturità professionale, le prime esperienze di lavoro, una in particolare, nel campo dell’alta moda, che, a suo dire, le ha insegnato molto, le ha aperto la mente e le ha dato la possibilità di affinare il suo gusto e l’ha spinta a proseguire gli studi a Treviso, dove ha conseguito il diploma di stilista.
E’ un periodo questo che Orietta ricorda con piacere e che l’ha avvicinata al suo sogno di sempre: frequentare l’Accademia delle Belle Arti, sogno accarezzato ancora oggi e che prima o poi, vista la determinazione, lei si è impegnata a realizzare. “Non mollo…” ripete a questo proposito. Apre poi una sua sartoria che le dà molte soddisfazioni… “ma -dice Orietta- avevo sempre voglia di pittura che alimentavo, visitando tutte le mostre che potevo, anche se il desiderio di fare precedeva e superava l’esigenza di conoscere e di capire.”

Il matrimonio e la nascita dei figli segnano una pausa nel suo impegno lavorativo, ma la convincono al tempo stesso che dipingere per lei è vitale e cerca quindi, nei ritagli di tempo (“ancora adesso- dice- dipingo soprattutto di notte”) di “rinfrescare” il suo senso del colore, frequenta così alcuni corsi di pittura, come quelli tenuti dai maestri Mario Pauletto e Igea Lenci Sartorelli e partecipa a varie mostre, a livello amatoriale, che le danno la carica perché trova “stimolanti queste occasioni in cui c’è qualcuno che parla di te, cerca di entrare nella tua opera, di capire”.

Nel frattempo matura una sua scelta, per quanto riguarda il soggetto da rappresentare  nei suoi quadri: il suo interesse è tutto per la figura umana, in particolare quella femminile, perché, secondo lei, più complessa, con mille sfaccettature e possibilità interpretative, un mix di forza e di debolezza insieme. Riassume tutto questo, in una sorta di manifesto personale della sua poetica, in uno dei primi quadri “Il tramonto”, ispirato alla figura della madre e ad alcune tappe della vita di lei, sintetizzate con amore e sofferenza. Se le si chiede quale sia la tecnica preferita, lei, premesso che nella tessitura di un quadro considera fondamentale il disegno, i cui tratti rimangono spesso visibili nei suoi quadri, risponde che naturalmente, accanto alla matita, c’è l’olio, che dice di adorare.

Quanto al modo di procedere, aggiunge che a volte dipinge di getto, altre volte più meditatamente, a seconda degli stati d’animo e sottolinea che è essenziale per lei esprimersi con modalità diverse.
Ancora una volta, al momento di congedarci, ribadisce che la pittura è un punto fermo della sua vita, che essa ha avuto una funzione consolatoria in tanti momenti difficili e che rimane un obiettivo non certo raggiunto, ma da perseguire con tenacia e da cui si sente attratta istintivamente con forza.

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Bagnara

  • BAGNARA: frazione del comune; il nome deriva dal latino “balnearia – bagni, luoghi paludosi”. Esso caratterizzava un territorio paludoso attraversato da numerosi corsi d’acqua ben più consistenti di quelli attuali.
    La struttura geomorfologia del terreno conferma la presenza di affioramenti ghiaiosi oltre ad avvallamenti di chiara origine fluviale. Un’ulteriore conferma, che interessa il nome Bagnara, è la presenza a poca distanza del paese, di Bagnarola. Recenti ipotesi hanno infatti correlato le due località classificandole tra le numerose coppie toponimiche presenti nelle vicinanze.
  • Via Alessandro Manzoni: scrittore italiano (Milano, 1785 – 1873). Figlio del conte Pietro e di Giulia Beccaria.
    Per dissidi fra genitori, il Manzoni fu educato in vari istituti religiosi. L’influenza delle tradizioni familiari e le tristi esperienze scolastiche lo avvicinarono alle idee della Rivoluzione francese. Il periodo tra il 1805 e il 1810 trascorso a Parigi presso la madre, fu molto importante per la sua formazione anche spirituale. Il matrimonio con Enrichetta Blondel, giansenista, lo porterà successivamente, alla conversione al  cattolicesimo.
    La produzione cristiana inizia con gli “Inni sacri” con cui il poeta voleva esaltare le maggiori festività della Chiesa. Seguirono le tragedie “Il conte di Carmagnola” e “L’Adelchi” in cui, di fronte all’ingiustizia terrena, l’uomo si deve affidare alla volontà misericordiosa di Dio. A questo tipo di riflessione appartiene anche l’ode “Il cinque maggio” scritta per la morte di Napoleone.
    “I Promessi sposi” rappresentano il compimento di tutto il suo percorso interiore e letterario.
    La loro complessa struttura narrativa può considerarsi il risultato di quella esigenza di verità e di sentimento religioso che  caratterizza l’uomo e che permea tutta l’opera. L’ultima stesura del romanzo fu pubblicata a dispense fra il 1840 e il 1842. Successivamente il Manzoni si occupò soprattutto di questioni linguistiche in cui cercò di difendere e imporre anche nella pubblica istruzione il modello fiorentino che considerava più adatto all’unificazione italiana.
    La sua vita privata non fu molto felice, rattristata dalla morte in giovane età, della moglie Enrichetta e da gravi problemi familiari. Si risposò nel 1837 con Teresa Borri. Nominato senatore del regno partecipò al voto con il quale si trasferiva la capitale da Torino a Firenze: era sempre stato contrario al potere temporale dei papi. Incontrò Cavour, Garibaldi, Verdi, Vittorio Emanuele e Margherita di Savoia; da tutti era stimato per la sua integrità morale e il suo moderatismo. Morì a Milano il 22 maggio 1873.
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Luca Bidoli

Luca Bidoli è nato a Gorizia nel 1967, ma risiede a Gruaro da alcuni anni, anche se sono pochi quelli che lo conoscono; anche la mia conoscenza è recente e so poco della sua storia personale, ma ci sono i suoi quadri a parlare di lui, del suo mondo che ruota attorno a persone, animali e cose a lui vicini e cari: la moglie Jacqueline, i suoi cani, la sua casa, gli amici.

Il suo percorso come pittore è molto personale, lontano da scuole ed accademie, imperniato essenzialmente sulla ricerca e scoperta; inizialmente, lui dice di non aver avuto dei riferimenti culturali precisi, dei modelli; non era supportato neanche dal tipo di studi fatti, essenzialmente tecnici; gli piaceva dipingere, stop; poi di pari passo con l’estrinsecarsi della passione è venuta la sua voglia di informarsi, di conoscere, e tra i pittori che ha scoperto ed ama in modo particolare ci sono Burri ed Afro, quest’ultimo soprattutto per la potenza del segno. Egli aggiunge inoltre di non aver mai provato grande interesse per la tecnica, “anche se -dice Luca- certamente c’è stata una evoluzione nel mio modo di dipingere; inizialmente stilizzavo tutto, adesso invece amo di più il realismo, pur usando colori acidi, non reali”. Ecco, il colore, è questo uno dei segni peculiari e più originali della pittura di Luca Bidoli.

Guardando i suoi quadri si è colpiti appunto da essi, i colori, che sono quelli primari (blu, rosso, giallo), usati puri, senza sfumature, contornati spesso di nero, considerati a volte contrastanti; ma dice Luca “per me non è così, in questo modo si ha una comunicazione immediata, diretta e diventa intrigante, coinvolgente trovare un equilibrio; è un po’ la metafora della vita”.
A far da contraltare a tanta “temerarietà” coloristica ci sono però i temi rappresentati, che egli attinge dalla sua vita quotidiana e familiare e che rappresenta  in modo realistico e figurativo.
Ecco allora i suoi amati levrieri, coprotagonisti, con la moglie Jacqueline, di tanti quadri, a cui sono accostati, soprattutto nelle ultime opere, elementi vegetali a sottolineare che “l’uomo è inserito nella natura, anche se le si contrappone… nelle mie opere -ribadisce- pongo semplicemente in relazione l’uomo con la natura, evitando qualsiasi giudizio ed interpretazione”.

Egli inizia a dipingere, soprattutto per sé, nel 1988, ma lo fa sporadicamente; la voglia gli viene, a suo dire, con il trasferimento nella nuova casa, a Bagnara, in via Bosco, proprio perché gli offre un contatto continuo ed immediato con quella natura, che lui sente tanto, e che abbraccia uomini, animali e vegetali, che nei suoi quadri, a volte, si fondono assieme in una nuova creatura ibrida.

Le prime collettive risalgono al 2005, poi l’incontro nel 2006 con il gallerista Gianni Boato che ha per lui parole lusinghiere: “mi colpirono soprattutto i colori, così forti e primitivi, con tagli netti nelle suddivisioni delle immagini. C’era qualcosa che mi attraeva in questi lavori…” e gli organizza la prima personale, alla quale sono seguite molte altre a Jesolo e a San Donà. Le più recenti sono quelle realizzate a Portogruaro, presso lo studio d’architettura “Arkema”, poi al bar “La Lanterna”, e l’ultima alla galleria Degani, inaugurata il 31 marzo e rimasta aperta fino al 30 aprile.

Certo, per concludere, la sua non è una pittura accattivante, facile, ma superato lo stupore e la sorpresa iniziali, ne subisci la fascinazione e ti incanti dinanzi a tanta intensità comunicativa perché “Luca ha la capacità di tradurre in poche e semplici pennellate, un perfetto ritratto psicologico di ciò che ritrae, ed è sorprendente come riesca a dare un’anima ai suoi cani”. (Gianni Boato).

Sito ufficiale

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