14 miliardi di euro di debiti, 100mila risparmiatori truffati.
Basterebbero queste crude cifre a spiegare la necessità di un film sul crac Parmalat (il più grande mai avvenuto in Europa).
Un film di denuncia, secondo una tradizione di cinema civile come tanti maestri del passato (penso a Rosi, Petri, Montaldo…), non un film d’inchiesta, ma che risponde al fondamentale bisogno di documentazione storica dei nostri tempi, ed in particolare di cosa abbia rappresentato, in certi frangenti, il capitalismo nostrano.
In questo senso, il regista Andrea Molaioli, alla sua seconda opera dopo il già apprezzato “La ragazza del lago”, non si fa scrupoli ad affrontare un tema così caldo ed attuale(1) come quello del crac finanziario del gruppo di Collecchio, fondato e capitanato dal ragionier (ed ex-cavaliere del lavoro, ed ex-laureato honoris causa) Calisto Tanzi e dal suo fidato braccio destro Fausto Tonna, direttore finanziario.
Ovviamente tutti i nomi sono fittizi e puntualmente cambiati rispetto agli originali (tutela doverosa, essendo la vicenda giudiziaria ancora aperta e l’azienda in corso di risanamento(2)), da quello dell’azienda “LEDA”, a quello del proprietario Amanzio Rastelli (Calisto Tanzi) e del ragionier Ernesto Botta (Fausto Tonna), ma i riferimenti sono chiari e precisi.
Tralasciando in questa sede tutta la cronistoria e vicenda del caso finanziario di Parmalat, ciò che mi interessa mettere in luce è la riuscita o meno di un lavoro che sin dalle sue premesse, e per la delicatezza del tema, si presta anche ad una critica politica, oltre che artistica.
Distinguerei dunque da subito i due ambiti.
Il primo è quello prettamente cinematografico.
Il film da questo punto di vista funziona alla perfezione, perchè da quasi tutti i punti di vista è curatissimo: ben girato, ben fotografato, ottimamente montato.
Le musiche in particolare colpiscono e si sposano perfettamente allo sviluppo della vicenda: nella loro fantastica eterogeneità accarezzano i momenti più tragici ed esaltano quelli di maggior pathos. Veramente lodevole il lavoro del pordenonese Teho Teardo.
Gli interpreti sono tutti di altissimo spessore: Toni Servillo (nei panni del contabile Botta) non ha bisogno nè di presentazioni nè di gratificazioni critiche, la sua popolarità è al massimo ed è meritata. Credo che al momento sia l’attore italiano maggiormente preparato, anche se lo attendo in ruoli un po’ più “fisici”, per esprimermi definitivamente.
Remo Girone (nei panni del presidente Rastelli) tiene testa più che degnamente a Servillo, e rende gratificante notare il misto di megalomania e modestia che riesce a tratteggiare nel proprietario dell’azienda (sua è la grottesca definizione “LEDA è un gioiellino”, che da il titolo al film).
Sarah Felberbaum, che interpreta Laura Aliprandi (e cioè Paola Visconti, nipote del proprietario e con la quale Botta-Servillo instaura una desolante relazione sessuale) è un forse po’ troppo bella per il ruolo, e quella sua aria un po’ civettuola e saccente induce eccessivamente alla clemenza con il personaggio che interpreta.
La sceneggiatura è precisa e puntuale, i riferimenti alla storia reale si colgono, ma si possono anche non cogliere, le parti romanzate servono solamente a rendere più scorrevole la trama e dopo un po’ di tempo si può smettere di cercare nella vita reale i personaggi che via via scorrono o si citano sullo schermo (De Mita, Geronzi, Berlusconi, Ciarrapico, etc…). Se una critica si può muovere, è la spiegazione un po’ troppo sbrigativa degli strumenti finanziari utilizzati per nascondere o rinviare i debiti che via via si moltiplicavano nell’azienda, dando allo spettatore non preparato un senso di smarrimento, sia per la velocità dell’indebitamento stesso, che per l’apparente semplicità nell’offrire soluzioni da parte del ragionier Botta.
In questo senso l’unico dialogo veramente chiaro è quello riportato dal sottotitolo del film:
“se i soldi non ci sono, inventiamoceli”, formula che spiega semplicemente a cosa possa condurre il reato di falso in bilancio (praticamente depenalizzato da Berlusconi).
Infine, ma non da ultimo, la scelta di raccontare la crisi di Parmalat dall’interno, permette al regista di coinvolgere maggiormente lo spettatore nelle biografie di questi personaggi da operetta, provinciali e limitati, ma a loro modo geniali nelle truffaldinerie contabili che utilizzano.
(segue)
Emma Marrone ad Annozero
Ebbene sì. Ammetto la mia ignoranza. Prima di ieri sera ed Annozero, non ero consapevole dell’esistenza (e fama) di una giovane cantautrice rispondente all’appellativo di Emma Marrone.
La puntata di ieri sera della trasmissione di Michele Santoro parte infatti spumeggiante, con una ballata dedicata a Sacco e Vanzetti, da ella cantata.
Sono entusiasta, e non solo per le nostalgiche attrazioni bakuniane di gioventù, “Wow, una giovine anarchica all’interno dello showbiz!”, mi sono detto. Visto poi lo scarso seguito che da sempre le “eretiche” idee anarcoidi hanno avuto nella storia e vista la rappresentazione che oggi se ne fa (anarchico = black bloc), ho ammirato dentro me la scelta di ospitare una rappresentante di un mondo così distante da quello “consuetudinario”.
Purtroppo i primi dubbi di aver frainteso qualcosa li ho avuti poco dopo, quando, a precisa domanda di Giulia Innocenzi se fosse anarchica, la signorina ha risposto: “l’unica cosa in cui credo da qualche tempo è Dio, che è l’unica cosa certa”… e lì qualche sospetto m’è venuto.
Però ero ancora emozionato dalla rievocata (almeno da me) vicenda di Sacco e Vanzetti, quindi ho concluso che se dopotutto adesso ci si può definire “comunisti e cattolici” (Vendola dixit), magari si potrà pure dirsi “anarchici e credenti”. Massì, mi sono detto: ci sono tanti preti “anarchici”, pensa a Don Gallo, Padre Zanotelli, Don Ciotti, insomma l’importante è ciò che fai, non ciò che senti.
Inoltre mi piaceva, quel suo parlare terra terra, da “donna del popolo”, di una che non ha potuto studiare molto… (si scusava continuamente della sua scarsa proprietà lessicale) ed ero proprio incuriosito dal sentire cosa avesse da dire.
Poi ho letto che è diplomata al liceo classico, ed un po’ mi son sentito imbarazzato, perchè evidentemente la scuola non trasmette granchè; poi ahimè ho ascoltato cosa avesse da dire, e mi son sentito ancor più imbarazzato, per le seguenti ragioni.
Partendo da un'”arguta” osservazione sui giovani libici, a suo dire arrabbiati perchè cresciuti in famiglie sfinite dal clima di oppressione e dittatura, la signorina Marrone ha analizzato la situazione dei giovani italiani, i quali, sempre a suo dire, sarebbero cresciuti in famiglie dove la sterile e continua contrapposizione tra “destra” e “sinistra” ha impedito loro di ragionare, di parlarsi e di combattere uniti “per un futuro migliore” (diciamo così…).
Tralasciando i classici stereotipi sul vestiario di destra e sinistra, o le poco felici battute: “Alla fine siamo disoccupati di destra e disoccupati di sinistra, ma sempre disoccupati siamo”: la cantautrice suggerisce che “noi” giovani dobbiamo unirci sopra qualsiasi differenza od opinione politico-ideologica (già trovarne, di giovani con idee politiche definite…).
Spietato, Santoro le ha ripetutamente chiesto: “ma uniti per fare che? Per ottenere cosa?”… e la risposta è stata: “la libertà di dire una cosa senza essere etichettati”… cioè il problema dei giovani sarebbe quello di essere definiti via via “fascisti” o “comunisti”…
Conclude infine il proprio intervento con un’altra geniale proposta: “facciamo un partito unico e cerchiamo di salvare l’Italia”. Cioè una bella dittatura e via!
Scusate, ma veramente: che pena… potrei capire se fosse una ragazzina, ma da quel che leggo è donna fatta e matura.
Quando sento discorsi come questo mi viene sempre in mente Nanni Moretti in Ecce Bombo: “te lo meriti Alberto Sordi, te lo meriti!”.
L’intervento di Emma Marrone ad Annozero, 3 marzo 2011
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