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Il paese delle pietre urlanti

Sono stati una passeggiata a Venezia all’isola di San Lazzaro e la lettura del libro “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan a spingerci a vistare il paese delle pietre urlanti, come definisce l’Armenia il poeta russo Osip Mandel’stam.

Siamo partiti dall’aeroporto di Venezia e via Roma siamo arrivati a Yerevan, grande il nostro stupore nello scoprire che l’aereo era piccolissimo, come del resto è piccolissimo questo paese di circa 30.000 chilometri quadrati collocato sotto il Caucaso confinante con la Turchia, la Georgia, la Russia, l’Azerbeigian e  l’Iran. L’Armenia attuale infatti, non è che una minima parte dell’antico regno armeno di Cilicia posto tra i tre laghi di Van, Sevan e Urmia ed esteso per oltre 300.000 chilometri quadrati. Questa posizione geografica ha reso l’Armenia un reale punto di incontro fra oriente e occidente attraverso una fitta rete di relazioni commerciali culturali e religiose.

È’ definito “Il paese delle pietre urlanti” per il triste destino di questo popolo così segnato da una  storia antica e dolorosa,  qui nacque e diventò religione di stato nel 301 d.c. il cristianesimo apostolico 79 anni prima dell’impero romano e qui gli armeni, che vivono nel mondo, un giorno sperano di poter tornare. Sperano di poter tornare in questa piccolissima terra  che per loro non è uno stato ma il paese dell’anima dove placare i dolori di una tragica storia che li vide prima sotto il  periodo ottomano, poi nel 1915 subire la persecuzione, l’uccisione, la  morte per stenti. Un milione e mezzo di armeni morirono e cinque milioni lasciarono il paese per mano dei turchi che per scopi territoriali distrussero e annientarono un popolo e di cui mai ammisero il genocidio.

L’Armenia  odierna è un altopiano, con un’altitudine fra  i 2000 e 3000 metri, con catene di origine vulcanica, tra cui spicca l’Agri dag che in turco significa la montagna del dolore, il biblico monte Ararat che con la sua altezza di 5137 metri coperto di nevi perenni, rappresenta, seppur in territorio turco, la montagna sacra armena dove l’arca d Noè si arenò dopo il diluvio universale. Gli armeni si reputano discendenti diretti di Noè grazie al pronipote Haik,  da cui il nome originario del paese Hayastan, (“la terra di Haik”).

Ai piedi della montagna sacra si trova uno dei monasteri più suggestivi e più fotografati d’Armenia: Khor Virap, posto a 300 mt di distanza dal confine turco dove sentiamo, ironia, il nitido richiamo del muezzin, alla moschea, cristiani  e musulmani, gli uni accanto agli altri, cosi lontani e cosi vicini. La pianura intorno è fertilissima e tutta la coltivazione è dominata da frutteti, soprattutto albicocchi. Il paesaggio e la vista sono particolarmente suggestivi. Il Monastero è un famoso luogo di pellegrinaggio: S.Gregorio “l’illuminatore” il Santo che fece convertire gli armeni fu qui imprigionato per tredici anni, all’interno di un pozzo, scavato nella roccia. Decidiamo di calarci anche noi, il passaggio è strettissimo e una piccola scala di ferro ci permette di scendere giù, in fondo al pozzo c’è un piccolo altare in pietra e due giovani che stanno pregando.

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Caccia, in Italia e nel Veneto

Caccia, magico termine generalmente applicato a uomini che “cacciano” altri uomini (cacciatori di criminali, cacciatori di terroristi, cacciatori di evasori fiscali – questi ultimi assai più rari e meno di moda). Non esiste o non dovrebbe più esistere la “caccia agli animali”: per una ragione molto semplice, ovvero perché non abbiamo più bisogno di uccidere animali selvatici per nutrirci.
Eppure la caccia continua ad esistere; anzi, è una realtà “viva e vitale”, almeno in Italia e soprattutto politicamente.

Cosa c’entri poi la caccia con la politica dovrebbero spiegarcelo i nostri parlamentari (nazionali e regionali) di ambedue gli schieramenti. In fin dei conti i cacciatori sono in via d’estinzione e, a livello nazionale stanno scendendo (fortunatamente) di numero anno dopo anno. Al punto che, tra non molto, dovranno essere proprio i protezionisti ad occuparsi di loro.

Nonostante tutto questo (e dunque, nonostante la loro condizione di esigua minoranza) accade tuttavia che una commissione parlamentare ha licenziato, proprio in questi giorni, una proposta di legge che prevede l’allungamento della stagione venatoria fino a 10 giorni oltre il termine previsto del 31 gennaio. E inoltre che, nella Regione Veneto, in concomitanza con l’annuale pubblicazione del calendario venatorio, vengono regolarmente inserite specie che non sono cacciabili a livello europeo. Piccoli uccelli, che non pesano il piombo della cartuccia impiegata per abbatterli; insettivori come la pispola o granivori come il fringuello, colpevoli soltanto di avere lo stesso sapore nel fatidico piatto dell’identità veneta, noto con il nome di “Poenta e osei”.

Tutto questo per dire che il calendario epocale del mondo venatorio (ma anche della società e della cultura popolare italiana) sta marciando all’indietro: verso gli anni ’50-’60 del Novecento.
E non mi si dica che i cacciatori ci stanno salvando dalle volpi e dalle gazze o dalle nutrie, dai cormorani o dagli altri fantasmi che la loro stessa cultura distorta ha creato e agitato.
A salvarci dagli invasori alieni basterebbe una politica dell’ambiente seria, che si avvalesse degli strumenti tecnici di cui dovrebbero essere dotate le pubbliche amministrazioni.

Peccato che i guardia-caccia provinciali di Venezia siano poi impegnati nella “caccia al venditore extracomunitario” sulle spiagge del Veneto Orientale.

Ancora una volta “uomini che cacciano altri uomini”.

Michele Zanetti, naturalista

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“Werckmeister harmóniák” di Béla Tarr

Per la consueta rubrica di cinema, voglio parlare di un regista a mio avviso imprenscindibile nel panorama europeo contemporaneo, poco noto ai più, ma molto amato tra critici e cinéphiles.
Béla Tarr, classe 1955, ungherese di Pécs, da anni persegue l’ideale di un cinema alternativo ai prodotti di largo consumo.

E lo fa scardinando tutte le regole base di ciò che il mercato oggi per lo più propone, e cioè:

  • evitando le trame semplici e prevedibili  od eccessivamente bizzarre ed arzigogolate di molte supposte “pellicole originali”;
  • evitando l’utilizzo di dialoghi e linguaggi eccessivamente banali ed elementari (talora anzi si dilunga in citazioni poetiche);
  • evitando di ingaggiare attori famosi o presunti tali, la cui capacità di recitazione è spesso  inversamente proporzionale all’aspetto fisico; e anzi privilegiando gli sguardi duri, brutti ma espressivi di intepreti sconosciuti ai più;
  • evitando l’utilizzo smodato di effetti speciali per inebriare lo spettatore,  se non se ne sente l’esigenza;
  • utilizzando una fotografia in bianco e nero, fatta più di neri che di luci, più di nascosti che di evidenze, più di naturalezza che di artificiosità;
  • evitando tassativamente quella regia da videoclip per la quale lo spettatore rimane colpito più dalla velocità e sequenzialità delle scene che non dalla cura delle stesse; prendendosi dunque tutto il tempo necessario alla costruzione di riprese estremamente lunghe e complicate.

Stanti tali premesse, l’obiettivo del presente articolo è facilmente desumibile: è possibile trovare (ed è auspicabile cercare) una tipologia di film che abbiano maggiore spessore intellettuale di quelli che vanno per la maggiore.
“Le Armonie di Werckmeister” terza opera del succitato Béla Tarr, è sicuramente una delle possibilità da prendere in considerazione.
In questo lavoro si concentra infatti tutta la poetica precedente del regista (che, ricordiamolo, è autore anche di “Satantango”, dell’epica durata di 7 ore e mezza), e si esplicita attraverso 39 -bellissimi- piani sequenza per una durata complessiva di 145 minuti.
All’interno di questi “long-takes” la macchina da presa si distingue per eccellenza e maestria, riprendendo  avvenimenti complessi e frastorna(n)ti con un’abilità tecnica ed una consapevolezza che ha pochi eguali nella storia del cinema (vedi alle voci “Orson Welles”, “Stanley Kubrick” o “Alfred Hitchcock”).
La trama in breve: in una piccola città di provincia ungherese giunge un piccolo circo che ha due uniche attrazioni: un’enorme balena imbalsamata e un misterioso nano chiamato “il Principe”.
Nella solitudine del suo studio György Eszter studia una teoria musicale che vuole sovvertire l’ordine armonico stabilito nel ‘700 da Andreas Werckmeister.
János Valuska, il ragazzo che consegna i giornali, fa la spola tra lo studio del musicista e la piazza del mercato dove il Principe incita i frustrati e poveri abitanti alla distruzione di tutto.
Una notte la furia divampa e qualcuno ne approfitta per prendere il potere.
Detta così, e di fronte all’universalità anche politica di una trama che tange sia i percorsi esistenziali che le emozioni più profonde dell’uomo, ci si ritrova a condividere con il regista sia la tematica del progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali che l’inevitabile consapevolezza, come cittadini, della propria “riduzione in schiavitù”: temi quanto mai portanti dei nostri  tempi (ed il film è del 2000).
L’autore non lesina nel rappresentare l'”hobbesiana” sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ma la violenza che ne scaturisce è quasi catartica: non a caso una delle scene madri della pellicola è costruita come una sequenza a la “Metropolis” di Fritz Lang.
Ed è direttamente a noi spettatori che egli si rivolge quando tocca punte di lirismo visivo che letteralmente spiazzano,  costringendoci a riflettere sull’insensatezza delle nostre azioni. Non è un’opera a tesi, ma è impossibile non cogliervi un riferimento universalistico.

Un decennio cinematografico che produce un capolavoro come questo è un decennio che merita di essere vissuto.

P.S. Consiglio ai (potenziali) spettatori: se la sequenza iniziale non vi cattura sospendete senza remore la visione, non vi si confa.

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Tempo di sagra

Che momento stupendo la sagra, specialmente se hai 9 anni. Siamo nel 1957, io ero, come già detto, una bambina e ricordo che la sagra a Bagnara incominciava con la processione del patrono, San Liberale e cadeva sempre la prima domenica di luglio ed era chiamata: La sagra dei giambars.

Quanta gente c’era a seguire la processione in quei pomeriggi caldi, d’estate. C’era il paese intero e tutti, tra una preghiera ed una litania, ammiravano le ragazze; anch’io non riuscivo a distogliere gli occhi da quelle fanciulle che conoscevo bene, e che in quel giorno di festa si trasformavano e sfoggiavano degli abiti stupendi ai miei occhi, alla moda, che in realtà non avevano niente di straordinario: corpetto aderente, colletto bianco, gonna larga, a ruota intera, cintura in tinta stretta in vita. Erano confezionati con la stoffa in voga a quel tempo, il nailon, ed erano perlopiù a fiori. La stoffa era leggerissima e trasparente e per mimetizzare quella trasparenza, sotto si metteva una sottogonna, bianca, con tanti volants di sangallo, inamidata che rimaneva rigida  che dava volume al vestito che, così sostenuto, si allargava a corolla con un effetto di grande grazia ed armonia. Le scarpe poi, anzi i sandali, erano di solito bianchi, con i tacchi a spillo, alti almeno 10, 12 cm. L’abbigliamento era completato da una borsetta anch’essa bianca e da guanti in pizzo, bianchi. Non mancava un golfino fatto a ferri, per coprire le spalle, visto che in chiesa non si entrava con le braccia scoperte.
Alle volte un nastro adornava la cascata di capelli, lunghi, ricci, castani, biondi, neri, naturali, non tinti. Erano così le ragazze di quel tempo, belle, femminili ed eleganti.

Finita la processione arrivava Ceci, mitico, il gelataio; arrivava da Sesto al Reghena con quella strana bicicletta, corredata di carrettino. Lui, con dieci lire o un uovo, ti dava un cono di gelato, buonissimo, fresco, che profumava di vaniglia e cioccolato e ci aggiungeva anche la palettina in legno che noi ragazzi conservavamo gelosamente, per giocare, per il resto dell’estate. Finita la processione ed il rito del gelato, la piazza si svuotava, perché tutti andavano a cena, ma ancor prima che il sole tramontasse, essa si riempiva di nuovo perché incominciava il ballo su “vasta piattaforma” o meglio ancora, “piantaforma” come dicevamo noi.

Naturalmente eravamo noi bambini a collaudarla anche se regolarmente venivamo mandati via con un: “Nu si puol! Deit via. No vedeo che vin pena butat par tiara la cera?”. Noi ubbidivamo a malincuore, ma avevamo avuto la nostra piccola soddisfazione di essere stati i primi. A volte capitava che io chiudessi gli occhi e fingessi di danzare come le ballerine. In quel momento mi giungevano al naso, mescolati insieme, i più svariati odori: quello di rose, di cera, di sapone, di brillantina (perché non c’era uomo o ragazzo che non se la mettesse a quei tempi sui capelli che poi ravviava con un pettinino estratto dal taschino) e anche di stalla, visto che era estate e che le corti di letame erano in fermento e che ogni casa aveva la sua.
A seconda di come tirasse il vento le zaffate di letame variavano di intensità… ma era tutto assolutamente normale e naturale.

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Mail Art Project a Portogruaro

L’ 8 Maggio 2010, l’arte postale è giunta a Portogruaro, o meglio, si è mostrata: in circa sei mesi sono arrivate dai quattro angoli del mondo 475 opere, per un totale di 335 partecipanti. Tutti i lavori pervenuti sono la risposta ad un invito, Mail Art Call Portogruaro 2010: Limite, Scambio, Segno. Tre parole chiave che intendono racchiudere la storia e l’anima stessa di Portogruaro, in quello che è un omaggio alla città. Il titolo nasce da una riflessione sulle particolari caratteristiche del luogo, fondato sulle rive del fiume Lemene, limite geografico, fonte di scambi commerciali, segno distintivo del territorio. Questi concetti, certamente legati a questa terra, hanno lasciato libero spazio di indagine alle più diverse interpretazioni artistiche.

Attraverso l’invio di centinaia di e-mail ad altrettanti artisti di tutto il mondo con l’invito a partecipare al progetto (in gergo “call”), l’Associazione culturale Rizoo ha raccolto quasi 500 opere d’arte (dipinti, fotografie, disegni, grafiche,…) dedicate a Portogruaro e inviate una ad una per posta ordinaria, riuscendo, in un certo senso, a generare una sintesi tra le due forme (elettronica e fisica) di servizio postale.

Per capire meglio la natura di questo progetto è bene conoscere alcuni cenni storici sulla Mail Art: è uno dei più longevi movimenti artistici della storia, che affonda le sue radici nel movimento Fluxus (e sull’idea di “multipli”, ovvero opere d’arte prodotte in serie), oltre che nell’opera dei futuristi (i “collaggi” postali di Ivo Pannaggi, 1920). Una rete eterogenea e non gerarchica di Mail artisti, composta da migliaia di partecipanti provenienti da oltre cinquanta paesi, si è evoluta dagli anni ’50 agli anni ’90 a partire dall’opera di Ray Johnson. Proprio dal gruppo Fluxus proviene l’americano Johnson, che nel 1962 realizzò il primo esperimento di Mail Art, Add to and return to, inviando per posta i suoi lavori in tutto il mondo. Johnson fondò la New York Corrispondance School of Art (Scuola d’arte “per corrispondenza”) nella quale non solo gli elaborati spediti, ma buste, francobolli e timbri finirono per confluire nell’operazione artistica.

L’Arte Postale è uno straordinario circuito a cui fanno parte artisti di tutto il mondo, i quali utilizzando la posta inviano le loro opere per aderire a progetti internazionali a tema, senza alcun condizionamento di critica e di mercato: ogni opera è un dono. Le tecniche e i mezzi impiegati, sono tra i più vari, cartoline, timbri e francobolli autoprodotti, buste decorate o illustrate, tele, collage, poesie e componimenti. Tutto all’insegna della più totale libertà espressiva e tecnica.
I Mail artisti sono stati tra i primi a percepire e sfruttare le possibilità di diffusione del World Wide Web quando apparse nel 1992 portando la novità della grafica rispetto all’Internet precedente, basato principalmente sul testo. Ma allo stesso tempo, Internet non offriva niente di nuovo a questi artisti (non essendo certo possibile spedire oggetti tramite la rete). I Mail artisti, come i graffitisti, spesso lavorano anonimamente o collettivamente usando pseudonimi.

Al progetto rivolto a Portogruaro hanno partecipato artisti provenienti da 31 Stati con una adesione che rispecchia la diffusione della Mail Art stessa. I Paesi che annoverano più Mail artisti sono l’Italia, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti.
In Italia si possono citare molti artisti che hanno aderito a questa forma d’arte negli anni come Piermario Ciani, Vittorio Baccelli, Enrico Baj, Vittore Baroni, Guglielmo Achille Cavellini, Anna Boschi e Pablo Echaurren. Tra questi, Baroni e Boschi hanno partecipato al progetto su Portogruaro, quest’ultima è una tra le maggiori esperte e studiose dell’argomento; senza dimenticare la partecipazione e la collaborazione di Tiziana Baracchi, nata a Venezia, Mail artista affermata, che partecipa a mostre in Italia ed all’estero, sia in spazi ufficiali che alternativi. Alcune sue opere sono conservate in musei e collezioni private di tutto il mondo ed è stata invitata alla Biennale di Venezia (2003 e 2005) e quella di Londra (2004 e 2006). E’ soprattutto alla sua esperienza pluriennale e alla sua conoscenza personale del circuito internazionale, che questo progetto ha visto la partecipazione di artisti di rilievo provenienti dai posti più lontani del mondo.

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Un poeta: Giancarlo Pauletto

(Portogruaro, 1941)

Batti quietamente
sillabe nel giorno
mite al suo tramonto
e forse lieto della tua impotenza
agiti parole
(ma grida la sua fame
la primigenia cellula
che ingloba e sputa, ingloba e sputa
atrocemente).

Questa luce che si sgrana da altra
luce, riverbera negli occhi una bellezza
che la mente contraddice,
la mente che recide le parole
e in serti le compone
(eppure
è fragile la mente, cede al vino
e al sonno, è una grazia
intermittente, che da sé
muore e risorge).

Si rompono talvolta le parole
come vetri, non la loro
musica ci manca, sì una stella
che le guidi.

Di questo sempre sono in traccia
esse, le sonanti: di una fede
provvisoria che mai stanca
al nulla le contesti.

A cosa si oppone la nostra
parola, veccia, voce di canna:
alle grida di guerra?
alla tortura?
alla morte che latra?

È una dura impotenza, un cruore.

Ma parla, parliamo.

da “Una dura impotenza”, Edizioni Concordia Sette

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La Casa delle Bambole

Spettacolo di teatro-danza nel Giorno della Memoria 2010

Oratorio Giai di Gruaro – 29 gennaio 2010

Immagini, parole e musica. Questi gli ingredienti che, dosati saggiamente e con estremo equilibrio, hanno generato, venerdì 29 gennaio 2010 nella sala dell’oratorio di Giai di Gruaro, una piccola grande opera d’arte.
Nell’ambito delle manifestazioni per i “giorni della memoria”, l’Associazione Culturale “La Ruota” di Gruaro, in collaborazione con Arte Danza Portogruaro, ci ha offerto “LA CASA DELLE BAMBOLE”: uno spettacolo di “teatrodanza” con testi curati da Mariella Collovini, recitati dalle bellissime voci degli attori Filippo Facca e Angela Perissinotto, accompagnati dalle danzatrici-attrici Tiziana Passoni e Michela Silvestrin e dal violino e violoncello di Laura Bortolotto e Leo Morello. Il tutto amalgamato dalla splendida coreografia di Serenella Fonzar.

La rappresentazione trattava un argomento poco proposto della tragedia nazista: la violenza perpetrata su giovani donne, anche non ebree, che venivano rapite per essere trasportate nei campi di concentramento a svolgere l’umiliante compito di prostitute. “Puttane da campo” venivano chiamate, utilizzate dai soldati delle SS come oggetto di piacere, per dare sfogo alla loro disgustosa aggressività e sottoposte a violenze di ogni sorta. Venivano strappate alla loro vita quotidiana, ai loro affetti più cari e gettate improvvisamente nel buio più nero dell’annullamento della loro persona, del saccheggio del loro corpo, della distruzione della loro dignità di donne; non avevano più nemmeno un nome, ma solo un numero. Usate per brutali esperimenti di farmacologia, chirurgia e genetica, venivano poi spesso uccise, come accade alla fine della rappresentazione alla piccola “bambola” che cerca la fuga dal campo di concentramento, ma viene colpita dal cecchino di turno come fosse una preda di caccia, un colpo di fucile sparato ad un uccellino che cerca la libertà dalla gabbia in cui è stato brutalmente rinchiuso. Abusi sulle donne quindi, argomento purtroppo di attualità se pensiamo a quante donne oggi subiscono violenze gratuite, e con minacce di ogni tipo vengono avviate e costrette al mercato del sesso.

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L’età di Courbet e Monet

A Villa Manin si sta svolgendo una mostra, a mio parere, molto interessante.
Essa ha un preciso obiettivo: mettere a confronto dipinti francesi con quelli di vari paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est, evidenziandone legami ed influenze.
Per sviluppare meglio quest’intento la mostra non è stata divisa per nazionalità degli artisti ma per tematiche: 1) boschi e campagne, 2) città e villaggi, 3) acque, 4) nevi, 5) ritratti e figure.
Realismo e Naturalismo prima e l’Impressionismo poi, sono il punto di partenza dell’esposizione, che sottolinea gli spunti che questi movimenti artistici portarono nelle grandi capitali europee come Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Monaco, Zurigo, Vienna, Mosca, San Pietroburgo, Varsavia, Praga, Budapest e Bucarest. Queste suggestioni arrivavano in Europa centrale e orientale attraverso viaggi di pittori a Parigi, mostre che portavano nelle città le opere degli artisti francesi, o quadri che venivano realizzati come testimonianza da chi a Parigi c’era stato e voleva trasmettere ciò che aveva visto.
Questo però non significa assolutamente che i pittori francesi siano stati  semplicemente copiati, ci fu invece un vero e proprio dialogo che permise anche alle particolari e affascinanti caratteristiche nazionali di emergere.
L’esposizione, ha, a mio parere, il pregio di rendere affascinante questo viaggio nella pittura europea della seconda metà dell’Ottocento, poiché rende un percorso abbastanza noto, come può essere quello che parte dal Realismo e dal Naturalismo e arriva all’Impressionismo, originale e non scontato. E lo fa esponendo opere di artisti sicuramente poco conosciuti alla maggior parte dei visitatori, che però hanno dato un grande contributo alla pittura, come nel caso di Ensor.
La mostra in sostanza indica quali furono le basi che servirono allo sviluppo dell’Impressionismo.
Esaminiamo le tappe di questo percorso.
Il Realismo parte dal fatto che, a metà dell’800, l’incontrollato processo d’espansione industriale appunta l’attenzione verso nuove tematiche come la natura e la vita quotidiana. Courbet, Daumier e Millet, i maggiori esponenti del Realismo, fanno diventare protagonisti dei loro quadri le classi più umili, cercano di far riflettere sulle conseguenze dello sviluppo industriale e sottolineano che esso non aveva solo aspetti positivi, come si voleva far credere, richiamando l’attenzione ad esempio sulle campagne, che in quel periodo si stavano spopolando.
Il Naturalismo invece parte dal presupposto che il paesaggio elaborato in studio non bastava più. I pittori a poco a poco presero a volere un contatto diretto con la natura, rinnovando la tecnica pittorica per catturare impressioni sempre più passeggere. La scuola di Barbizon ne è l’esempio per eccellenza. Questa iniziò nel 1830 quando in un villaggio, Barbizon appunto, poco fuori da Parigi, vicino alla foresta di Fointainbleau, alcuni artisti cominciarono a dipingere dal vero la natura incontaminata di quei luoghi, seppur ovviamente continuando a perfezionare le loro opere in studio.
Presto la scuola di Barbizon divenne sinonimo di idillio con la natura, dove l’uomo e gli animali vivevano insieme e le persone non erano  contaminate dalla vita della città moderna. Corot, Daubigny, Troyon, Dupré e Rousseau, i maggiori esponenti di questa scuola esprimono nei loro quadri l’intensità delle emozioni che si possono provare davanti a un paesaggio.
Lo sviluppo naturale di questi due movimenti fu l’Impressionismo. Questo movimento continua le ricerche e le sperimentazioni dei primi due arrivando a una pittura completamente nuova, immediata e veloce. Dipingendo “en plein air”, cioè all’aria aperta, i pittori impressionisti capiscono che l’occhio percepisce un insieme di colori che varia con il mutare della luce. Questo portò alla comprensione delle infinite possibilità di dipingere lo stesso soggetto, in base alla diversità di luce e di impressione. La pittura di questi artisti infatti proprio per rendere la complessità di visione che si presentava davanti ai loro occhi, avevano bisogno di alcune tecniche particolari, come l’uso dei colori complementari, l’abolizione dei toni grigi, del disegno e del chiaroscuro. Per questo  motivo i dipinti di Manet, Monet, Degas, Rousseau e di tutti gli esponenti dell’Impressionismo non furono mai accettati dagli esponenti della pittura tradizionale rappresentata dal Salon, ma anzi essi furono derisi quando gli impressionisti organizzarono la loro prima mostra nel 1886 nello studio di Nadar; ed è proprio da un articolo di un critico che nasce il termine “Impressionismo” usato con connotazione dispregiativa.
Qui si conclude il nostro viaggio di introduzione alla mostra, che consiglio caldamente di visitare.

Per ulteriori informazioni: www.villamanin-eventi.it

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Capo Nord

Capo Nord: avrei desiderato arrivarci 30 anni fa in moto: un sogno. Parto per questo viaggio perché ancora oggi mi incuriosisce e mi emoziona l’idea di passare dei giorni senza mai vedere la notte. Sarà un viaggio prettamente naturalistico che si distingue dai miei ultimi viaggi, volti alla conoscenza di popoli e culture.

Il viaggio Venezia-Oslo con scalo a Copenhagen dura circa quattro ore: arrivo ad Oslo alle venti. La temperatura è stranamente di 28 gradi, e alle undici di sera nella capitale norvegese non è ancora buio. Una considerazione arrivando ad Oslo: sono soltanto a metà strada dal punto di arrivo. Oslo è la capitale più antica del Nord Europa. Quasi completamente distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale, oggi è una città con 570.000 abitanti sita in fondo ad uno dei fiordi più belli, circondata da isolette e colline ricche di boschi. Ad Oslo si assegna il Nobel per la pace, l’unico Nobel a non venire assegnato a Stoccolma. Visito il parco più importante, il Frogner Park, noto per le sculture di Vigeland; anche se la tappa  più interessante, per uno come me non molto attento all’arte, è la visita al museo dove sono esposte molte tele di importanti pittori. Il più emozionante è senza dubbio “L’URLO” di Munch che da solo può valere il viaggio.

All’indomani, dopo un volo di circa un’ora arrivo a Bodo ed è da qui che la luce avrà la meglio sulle tenebre fino al termine del viaggio. La cosa che più mi colpisce è che nelle ore per noi “notturne” naturalmente non c’è nessuno in giro e sembra di vivere in una città fantasma. Da Bodo prendo il traghetto che mi porta dopo tre ore di navigazione verso l’arcipelago delle isole Lofoten. Il paesaggio durante la navigazione è spettacolare con costiere mozzafiato e picchi incredibili. Sbarco e proseguo per Å un paese con il nome più corto al mondo e il più piccolo delle Lofoten. Un villaggio di pescatori veramente pittoresco con le coloratissime casette in legno color giallo ocra o rosso. C’è una luce particolare, dovuta alla posizione geografica: le Lofoten sono ad una latitudine di 67° nord sopra il circolo polare artico, come l’Alaska e la Siberia ma l’influenza della corrente del golfo ne mitiga notevolmente il clima.

Le Lofoten oltre ad essere delle meravigliose isole sono celebri per la pesca del merluzzo, che qui arriva in banchi dal Mare di Barents per riprodursi e deporre le uova.
Da metà gennaio a fine marzo centinaia di pescherecci ne pescano a milioni. Dopo le catture il pesce viene pulito e decapitato. Poi a terra i merluzzi vengono legati a due a due e quindi appesi alle rastrelliere di legno per far sì che vento, sole e pioggia completino il lavoro di essiccazione che trasforma, dopo circa tre mesi, il merluzzo in stoccafisso.
L’Italia è il principale acquirente, e il 90% dello stoccafisso che arriva da noi viene proprio dalle Lofoten.

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Un poeta: Romano Pascutto

(San Stino di Livenza, 1909 – Treviso, 1982)

INSOGNO AZURO

Ancùo son contento, vorìa far ‘na poesia
liziera come l’è ‘sto primo sol de istà
che’l s’ha levà bonora e de bona voia
come ‘na massera che spalanca i veri
a l’aria pura. Ma la pena resta ferma,
el folio bianco, la volontà se nina
fra el far e no far,pian,pianpianìn,
in un insogno azuro. Anca mi ancùo
me sinte drento come ‘na massera
che slarga i brassi e la se senta
dopo che l’ha netà tuta la casa.

CO POCHE PAROE

Co poche paroe far poesia granda
come’l sass co s’cioca su l’acqua
e po’ conta le onde che’l manda.
No far ciasso e gnanca pianzere
come l’è le robe de ‘ sto mondo
che manco le ziga pi’ le è vere.

TEMPO DE BRUMESTEGHE

Me alze co’l scrinzèt.
Come lu me sinte picinin,
ma manco de lu contento
in ‘sto mondo cussì grando.
Lu sora ‘na rama el canta,
mi tase rampegà co fadiga
su ‘sto scaràzz de la vita
che sbrega braghe e cuor.
L’è tempo de brumesteghe,
de costioe roste de porçel
e de vin novo che speta
el Nadal par farse ciaro,
de caivi fissi che sconde
i monti e lustra i copi.
El sol riva a tera tamisà
sul formento morto de fredo.
L’è ora de pensar al caivo
Grando, co i oci se sera
Par sempre e la brumestega
Se ferma là sora ‘na piera.

I DISE

I dise che son un omo tranquilo
e ghe someie al most che boie
ne le brente, a la scorza de vida
che se spaca sora l’ocio primariol,
a la zopa de tera rosa de butoe
taiade a metà, che fùmega al sol.
Son mi busier o’st’ altri mone?
Cossa conta? L’importante l’è viver
Senza tradir el zorno che se nasse,
come vermeti che i metarà le ae.

SERA DE ISTÁ

I pra’ no basta a tegner tute l sol
che’l se ingruma al de qua de i monti
e fraca le palade, impignisse i fossi,
pica recini de oro su le foie de vida.
Un tochèt de specio roto fa ‘ na casera
E po’, vanti che vegna scuro patòch,
l’è un momento che’l mondo se slarga
e el cuor se strenze parchè ghe stemo
drento orbi e senza ae come i notoi.