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Com’è morto Stefano Cucchi?

“Ho avuto modo di vedere le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata. È inconfutabile che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi – come testimoniato dai genitori – è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi  nella regione palpebralebilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni. È inconfutabile che, una volta giunto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto – anche solo sotto il profilo deontologico – di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. È inconfutabile che l’esame autoptico abbia rivelato la presenza di sangue nello stomaco e nell’uretra. È inconfutabile, infine, che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture statuali (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere, senza che una sola delle moltissime circostanze oscure o controverse di questo percorso che lo ha portato alla morte sia stata ancora chiarita.”

Luigi Manconi

Quando mi è stato chiesto di scrivere  per la Ruota, mi si è posto un problema: cosa scegliere fra i problemi della cultura sottoposta a faziosità politica, della  politica concentrata sul sesso e sulla sua richiesta di disuguaglianza istituzionale, dell’affondamento della democrazia e della libertà di espressione, dei drammi idro-geologici in quanto cronache di morti annunciate o della bella ripresa di potere della mafia che continua a “trattare” con i Governi eletti da decenni.

Tuttavia, osservando l’elenco appena steso, mi sono reso conto che  la morte di Stefano Cucchi poteva rappresentare la quintessenza, la somma di quanto citato prima: l’inesistenza dello STATO DI DIRITTO.
Cucchi era un ragazzo senza potere, senza soldi, senza amici alto locati, senza amici mafiosi. Esattamente come la stragrande maggioranza di noi. Entrato in una caserma per un reato minore  sulle proprie gambe, in buona salute, è uscito poco dopo da un ospedale morte per gravi contusioni e fratture vertebrali non sottoposte ad adeguate cure.

Stefano è morto come tanti altri nelle prigioni di Pinochet, come nella famigerata Lubjanka del KGB, trattato come i prigionieri di Guantanamo o i fellagha della guerra d’Algeria. Ma dove siamo? A Guantanamo?
No, siamo in Italia, dove un’altra morte  di prigioniero non dovrebbe essere messa a tacere come quella del povero vigile trasportato d’urgenza dalla Sardegna, per una scazzottata, con tanto di elicottero militare, caduto in mare prima del suo arrivo in carcere!

Domande:

  1. Ricordando lo scandalo  provocato dalle manette messe ad un parlamentare ai (bei) tempi di Mani Pulite, come posso accettare che un cittadino non solo venga ammanettato, ma anche ucciso da chi lo ha fermato?
  2. Il ragazzo è stato duramente picchiato: da chi? Ma la domanda altrettanto importante è: che non ci sia nemmeno un solo testimone che abbia tentato di impedirlo, di salvarlo? Insomma una giustizia di “branco”?
  3. Chi ha colpito rappresenta lo Stato, che dovrebbe essere il mio garante?
  4. Portato in ospedale, non è stato sottoposto a cure e lasciato morire. I medici cosa o chi stanno coprendo?
  5. Il ragazzo non ha nemmeno potuto contattare la famiglia. Una famiglia che affida il suo ragazzo allo Stato e lo recupera sfigurato e con sangue nello stomaco e nell’uretra (calci nella pancia e sicuramente nel basso ventre) Ma che razza di medico lavora in quelle Istituzioni!!!? Per fortuna che il detenuto era ricoverato nella struttura sanitaria del Fatebenefratelli!!! Hanno fatto bene le cose, certo!

La lettura delle varie domande non lascia spazio a dubbi: siamo in uno Stato che non riconosce l’uguaglianza dei cittadini: c’è chi  è rispettato e chi non lo è.

Quali sono i parametri di rispettabilità in Italia?
Siamo in uno Stato che è rappresentato in da persone indegne, persone che dovrebbero loro essere dietro le sbarre. Che ci finiscano.
Siamo quasi certi che mai la luce completa sarà fatta. Solo uno Stato forte ammette le proprie colpe. Qui abbiamo solo uomini forti che usano uno Stato debole.
Che sia un dramma annunciato? Quando si sa che la mafia  tratta con i Governi per gestire le carceri e la disciplina interna, mi sembra ovvio.
L’evento sarà rapidamente insabbiato sotto una crosta di scandali politici a base di soubrette, di partite di calcio,  di gare di auto ed eventi porno mondani, ciò che proverà non solo il controllo politico della Giustizia, ma anche la scarsa libertà di espressione, confermata dalla nostra 77esima posizione in materia nella graduatoria internazionale.

In teoria, la speranza dovrebbe nascere da una presa di posizione chiara, forte,  inderogabile di una Chiesa che si dice  protettrice dei deboli. Purtroppo nemmeno da questa parte sento parole dure e richieste di indagini immediate.

Cucchi è morto. Speriamo che non si  “accerti” che è caduto dalle scale o che si è suicidato.
La prima ricostruzione assolverebbe lo Stato e la seconda chi fa più politica che applicazione del Vangelo.

il blog di Ilaria Cucchi

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Il Muro (di Berlino…) 1989-2009

Attenti, perché a quel muro tutti noi eravamo aggrappati. Con questo ammonimento Giulio Andreotti smorzò il giustificato entusiasmo che contagiò il mondo occidentale nei giorni che seguirono la caduta del muro di Berlino. Il coro dei media, dei politici, degli intellettuali non perdevano l’occasione per cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo ora liberato dall’incubo rappresentato dal comunismo. Fine della tensione internazionale, della minaccia nucleare, la pace duratura come orizzonte, apertura dei mercati, opportunità di ricchezza e occupazione per tutti, insomma: un futuro più roseo di ogni ottimistica previsione sino ad allora propagandata.

Ma quel muro materializzava l’equilibrio precario del mondo. Ad esso erano aggrappati la Casa Bianca e il Cremlino, la CIA e il KGB, i paesi satelliti aggregati nel Patto Atlantico e nel Patto di Varsavia, israeliani e palestinesi, gli sceicchi arabi, i dittatori sudamericani, i guerriglieri, i paesi non allineati. Le tensioni fra questi soggetti restavano in qualche modo confinate in territori limitati. Appena tentavano di sconfinare si alzava il sipario della liturgia costituita da immagini terrorizzanti quali missili nucleari pronti al lancio, sommergibili e cacciatorpedinieri in movimento, aerei con ordigni nucleari pronti al decollo. Sullo sfondo conflitti terribili ma locali dove le superpotenze si misuravano, a vicenda, dalle opposte fazioni: Vietnam, Afghanistan, Cuba, Medio Oriente. Nel frattempo, in Estremo Oriente crescevano le tigri finanziarie e tecnologiche pronte ad occupare, nel giro di qualche anno, il vuoto lasciato dal muro. L’Africa, come al solito, interessava, e interessa, solo come lucroso mercato delle armi necessarie alle guerre tribali o come contenitore di materie prime.

Sbriciolato il muro, l’equilibrio subì la medesima sorte e come prevedibile si stratificò in livelli. Per quelli determinati dal denaro, l’equilibrio si ristabilì in tempi ragionevoli dato l’esiguo numero dei soggetti coinvolti e perlopiù appartenenti alle oligarchie preesistenti la caduta del muro. Per quelli, più numerosi, determinati dalla domanda di indipendenza di popolazioni sino ad allora prevaricate anche nella sfera privata, l’equilibrio non si ristabilì. La circostanza offrì alla politica l’occasione per mostrare il suo volto peggiore. Avventurieri dei primi anni novanta cavalcarono con criminale superficialità i destrieri dell’autonomia e del rancore materializzando, a livello sociale, i fantasmi mai sopiti della paura del diverso oltre a presunti torti “storici” subiti da etnie fino ad allora pacificamente conviventi.

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L’acqua resti pubblica!

Il 19 novembre 2009, il governo ha ottenuto la fiducia sul controverso decreto Ronchi, che prevede la privatizzazione dell’erogazione dell’acqua. Questo provvedimento pone dei problemi fondamentali di tipo etico, sociale, giuridico (l’acqua è un diritto di tutti e deve essere fruibile  da tutti e a tutti garantita ad un prezzo equo). Ora secondo le associazioni dei consumatori, questa scelta, la privatizzazione appunto, farà crescere in media del 30-40% le bollette nel giro di tre anni, vanificando i principi inderogabili esposti sopra. Per richiamare l’attenzione su tutto ciò, il gruppo di minoranza, Cittadini di Gruaro, ha presentato in data 28-12-2009, al Consiglio comunale, la seguente mozione che è passata in Commissione regolamento, dove il testo verrà esaminato ed elaborato in collaborazione con la maggioranza.

Oggetto: RICONOSCIMENTO DELL’ACQUA COME BENE COMUNE E DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO COME SERVIZIO PRIVO DI RILEVANZA ECONOMICA

IL CONSIGLIO COMUNALE

premesso che:

  • L’acqua rappresenta fonte di vita insostituibile per gli ecosistemi, dalla cui disponibilità dipende il futuro degli esseri viventi.
  • L’acqua costituisce un bene comune dell’umanità, un bene comune universale, un bene comune pubblico, quindi indisponibile, che appartiene a tutti.
  • Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: l’acqua non può essere proprietà di nessuno; l’accesso all’acqua deve essere garantito a tutti come un servizio pubblico.

SI IMPEGNA

1. a costituzionalizzare il diritto all’acqua, attraverso le seguenti azioni:

  • riconoscere anche nel proprio Statuto Comunale il Diritto Umano all’acqua;
  • confermare il principio della proprietà e gestione pubblica del servizio idrico integrato e che tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da utilizzare secondo criteri di solidarietà;
  • riconoscere anche nel  proprio Statuto Comunale che la gestione del servizio idrico integrato è un servizio pubblico privo di rilevanza economica, in quanto servizio pubblico essenziale per garantire l’accesso all’acqua per tutti e pari dignità a tutti i cittadini, e quindi la cui gestione va attuata attraverso gli artt. 31 e 114 del d.lgs. n. 267/2000;

2. a promuovere nel proprio territorio una Cultura di salvaguardia della risorsa idrica attraverso le seguenti azioni:

  • informazione della cittadinanza sui vari aspetti che riguardano l’acqua sul nostro territorio, sia ambientali che gestionali;
  • promozione dell’uso dell’acqua dell’acquedotto per usi idropotabili, a cominciare dagli uffici, dalle strutture e dalle mense scolastiche;
  • promozione di una campagna di informazione/sensibilizzazione sul risparmio idrico;
  • promozione, attraverso l’informazione, incentivi e la modulazione delle tariffe, della riduzione dei consumi in eccesso;

3. a sottoporre all’Assemblea dell’Ambito Territoriale Ottimale l’approvazione delle proposte e degli impegni sopra richiamati.

IL CONSIGLIO COMUNALE

VISTA la proposta di deliberazione posta all’ordine del giorno;
UDITA la relazione del capogruppo e la conseguente discussione;

DELIBERA

DI DICHIARARE l’acqua:

  • un bene comune, essenziale ed insostituibile per la vita di ogni essere vivente;
  • un diritto inviolabile, universale, inalienabile ed indivisibile dell’uomo, che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’art. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana.

DI DICHIARARE il servizio idrico integrato un servizio pubblico locale privo di rilevanza economica, in quanto servizio pubblico essenziale per garantire l’accesso all’acqua per tutti e pari dignità umana a tutti i cittadini.

DI TRASMETTERE il presente provvedimento all’ATO del Lemene e a tutti i Sindaci del suo ambito.

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Canova, l’ideale classico tra scultura e pittura

Dal 25 gennaio al 21 giugno si svolge a Forlì nei musei di San Domenico una mostra dal titolo “Canova, l’ideale classico tra pittura e scultura”. Questa mostra è sicuramente importante perché è la più completa esposizione sino ad oggi dedicata al maestro veneto. Attraverso una serie di capolavori esemplari, l’esposizione ripercorre l’intera carriera del Canova, ponendo per la prima volta a confronto le sue opere (marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, dipinti e disegni), oltre che con i modelli antichi cui si è ispirato, anche con i dipinti di artisti a lui contemporanei con i quali si è confrontato. La scultura è una costante della vita di quest’artista; infatti egli nacque a Possagno (TV) il 1° novembre 1757 in una famiglia in cui da generazioni  si lavorava e si scolpiva la pietra.

Dopo la morte del padre e il secondo matrimonio della madre viene affidato al nonno che gli insegna il mestiere di scalpellino. Fin da giovanissimo, egli dimostrò una naturale inclinazione alla scultura: eseguiva piccole opere con l’argilla. Si racconta che, all’età di sei o sette anni, durante una cena di nobili veneziani, in una villa di Asolo, abbia eseguito un leone di burro con tale bravura che tutti gli invitati ne rimasero meravigliati; il padrone di casa, il Senatore Giovanni Falier, intuì la capacità artistica di Antonio Canova e lo volle avviare allo studio e alla formazione professionale. Grazie a Falier infatti ottiene a Venezia le prime commissioni che gli permettono poi di compiere nel 1779 il decisivo viaggio a Roma, città in cui si stabilì definitivamente nel 1793.

A Venezia e Roma cresce la passione di Canova per l’arte antica a cui si ispirerà nelle sue opere, in piena conformità con il pensiero del Neoclassicismo diffuso in quel periodo. Altra cosa importante da sottolineare è il luogo dove si svolge la mostra: non in molti sanno che Forlì è stato uno dei luoghi fondamentali per Canova e, in generale, per il neoclassico in pittura e scultura, e per la città l’artista creò tre capolavori.

Tra questi in mostra c’è una versione di Ebe, realizzata tra il 1816 e il 1817, per la contessa Veronica Guarini, che sarà messa a confronto con l’altra versione appartenuta all’imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone, dove Ebe è rappresentata su una nuvola.

In questa scultura, come era solito fare, Canova adopera il marmo bianco che riesce a rendere armonioso, modellandolo con plasticità e grazia, finezza e leggerezza. La figura sembra quasi avere un proprio movimento, vivere nella sua  immobilità. Fondamentale è il tocco “dell’ultima mano”, dove l’artista apporta le decisive modifiche. Una caratteristica particolare del suo talento è la levigatura delle opere, sempre raffinata al massimo, grazie alla quale i suoi lavori hanno uno speciale effetto di lucentezza che ne accentua la naturale e splendida bellezza; inoltre aveva l’abitudine di spalmare sull’intera superficie epidermica una speciale patina. Il composto doveva essere formato da una mistura di pietra pomice, da una tintura giallognola o, fuliggine o “pura cera e acqua elaborata dallo speziale” o “acqua di rota” (cioè acqua sporca dall’arrotamento di strumenti metallici). Lo scopo era quello di anticipare gli effetti del tempo “il quale sovente dà alle opere quell’accordo e quell’armonia che l’arte può difficilmente imitare”. Osservando le opere di questo artista non possiamo che ripetere che incarna perfettamente l’ideale che Winckelmann riconosceva alla scultura greca: “la nobile semplicità e la serena grandezza”.

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Umiliate e offese

Perché tanta violenza sulle donne? Come mai si ripetono con tanta frequenza gli stupri? Forse che noi donne siamo diventate le prede su cui sfogare l’aggressività primordiale da parte dei maschi?

Sono passati invano gli anni della rivoluzione sessuale e dell’emancipazione femminile! Non si parla dei soli uomini “datati”, ma delle nuove generazioni che sembrano affette da un “male incurabile”: la sottocultura emotivo-affettiva.

Dagli anni ’80 in poi si è registrata una latitanza, un vuoto educativo in famiglia e nella società tutta, attente soprattutto alla  tensione lavorativa e alla legittima ricerca del benessere.
Probabilmente le conquiste femminili hanno dato per scontato l’aspetto educativo nella falsa illusione che la legislazione potesse in qualche modo sostituire “naturalmente” il ruolo della famiglia.
Inconsapevolmente questo compito spesso è stato delegato ad altri sostituti, prima fra tutti, la Tv che come stiamo verificando quotidianamente, ci dà, della donna, un’immagine pessima, vista solo come oggetto di “consumo”.

Purtroppo la maturazione culturale e la responsabilità personale non si evolvono con gli stessi tempi dell’evoluzione sociale e dello sviluppo tecnologico. L’individuo ha percorsi più lunghi e complessi per poter sperare che si autoeduchi.
Si sente spesso parlare di valori da parte di tutti: psicologi, sociologi, religiosi, politici, ma in realtà ciò che viene trasmesso e recepito dai più è il degrado che parte dall’alto: la politica stessa chedovrebbe fungere da motore nel promuovere linguaggi, comportamenti e legislazioni rispettosi della dignità di tutte le categorie sociali, si presenta ipocritamente guidata da sole mire di potere o con battute tipo:- Dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle donne in Italia!

C’è da stupirsi anche della modesta reazione da parte dei movimenti femminili e soprattutto delle giovani generazioni delle quali si vuol far passare solo l’inseguimento del facile successo su modelli veicolati dai “mass-media”; non esenti quest’ultimi dal riportare  pure fatti violenti con una certa morbosità.
La riflessione sui valori riporta anche al ruolo del cosiddetto branco, poiché frequentemente la violenza sulla donna e sul debole, è frutto di “bravate” di gruppo proprio perché in questo modo viene a mancare la responsabilità individuale. Quest’ultima infatti costa in quanto comporta il porsi delle domande, il dover valutare e scegliere, perciò risulta più facile delegare e scaricare su altri la responsabilità.

Non  possiamo continuare ad attribuire alla sola società tutti i mali che ci affliggono, non dobbiamo rifugiarci nel nostro piccolo mondo sperando che a noi le cose vadano sempre bene poiché ciascuno di noi è società e ciò che accade all’altro sempre prima o poi ci coinvolgerà.

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L’orto di fronte al mare: Sant’Erasmo

La cosiddetta “Venezia minore” possiede un fascino che, specialmente per chi conosce più in profondità la storia della “Serenissima Repubblica”, spesso supera quello assaporato da immagini forse troppo note e ripetutamente osservate in testi, quadri, guide turistiche. Pur riconoscendo che l’impatto reale con una piazza San Marco o una Punta della Dogana, come d’altronde con un’opera pittorica prima solo veduta stampata in un libro, crea un’emozione indimenticabile, sono più semplici, pure ed incontaminate le sensazioni che si provano nel visitare luoghi meno noti al turismo, ma palpitanti di antiche memorie, circondati da specchi d’acqua dove pare che il tempo si sia fermato. Qui l’angolazione da cui si osservano sulla linea dell’orizzonte i profili di palazzi, guglie e campanili veneziani rappresenta una novità assoluta per gli amanti della fotografia e per percepire in prospettiva diversa il respiro profondo dei secoli della storia.

Le isole minori della laguna di Venezia ci offrono tutte queste emozioni. Alcune purtroppo lasciate  all’incuria e alla distruzione del tempo, altre recuperate e fatte rivivere anche con caratteristiche totalmente diverse da quelle originali, altre intatte e con al loro interno inestimabili valori storici ed artistici. E’ splendido immaginare come queste isole che fanno da contorno alla Regina dell’Adriatico un tempo fossero tutte popolate e brulicanti di vita e di barche, cariche di storia e tradizioni.

Cominciamo allora a conoscere meglio quelle meno note ed iniziamo con l’isola di Sant’Erasmo.

Quest’isola si trova nel tratto di laguna a nord di Venezia, al centro di un ideale triangolo formato dalle isole di Murano e Burano e dal litorale di Punta Sabbioni. E’ interessante rilevare il fatto che, anticamente, l’isola si affacciava direttamente sul Mare Adriatico e che, solo con la costruzione della diga nord del Lido di Venezia, si ritrovò in acque interamente lagunari. Fu popolata inizialmente dai fuggiaschi dell’entroterra, specialmente dagli abitanti di Altino. Una leggenda racconta che, durante la costruzione della chiesa, sarebbe stata miracolosamente rinvenuta una grande quantità d’oro. Quando era doge Paoluccio Anafesto era chiamata Pineta Maggiore, in riferimento alle selve citate in un documento del 1455 che decretava aspre sanzioni contro chi le avesse danneggiate. Nel 792 vi fu fondata una chiesa (consacrata ai SS. Martiri Erme ed Erasmo) sul sito di un preesistente luogo di eremitaggio, chiesa che venne restaurata nel XII secolo. L’isola geologicamente si ampliò quando il livello del mare, che si abbassava da decenni progressivamente, unì i vari affioramenti di modesta estensione che componevano il primo litorale. Verso la metà del XIII secolo la formazione dell’isola doveva essere oramai completata.

Durante la guerra di Chioggia fu occupata per breve tempo dai Genovesi e nello stesso periodo fu usata come cimitero per i morti della peste del 1348.
In seguito ebbe un periodo di fiorente sviluppo (gli archivi ricordano la presenza di alcuni mulini a vento), ma nel XVI secolo l’isola, in parte abbandonata in seguito ad un’epidemia, aveva oramai un connotato decisamente agricolo.

Nel 1820 venne intrapresa una politica di ripopolamento che portò Sant’Erasmo alle attuali condizioni. Sempre nell’Ottocento furono potenziate le già esistenti fortificazioni con la costruzione del Forte di Sant’Erasmo e dell’annessa Torre Massimiliana, massiccia fortificazione asburgica iniziata dai francesi e rifugio dell’imperatore Massimiliano durante le insurrezioni del 1848. Ora è stata completamente recuperata e risanata dal Magistrato alle Acque di Venezia.
L’attuale chiesa, fu costruita nel 1929 sui precedenti fondazioni.

Il Carciofo di Sant’Erasmo:

In provincia di Venezia sono coltivate due varietà di carciofo: il “Violetto di Chioggia” e il “Violetto di Sant’Erasmo”.
Da secoli ormai, in laguna di Venezia in particolare a Sant’Erasmo, Vignole, Lio Piccolo, Malamocco, Mazzorbo, si producono carciofi di grande qualità, frutto del lavoro e della tenacia di agricoltori, che a dispetto delle mode del mercato globale, riescono a conservare antichi sapori.
Questa tradizione permane soprattutto a Sant’Erasmo, i cui terreni, consentono la coltivazione di verdure saporite tra le quali il carciofo violetto cha ha preso il nome proprio da quest’isola.
Tenero, carnoso, poco spinoso e di forma allungata, il carciofo di Sant’Erasmo ha le brattee color violetto cupo, che racchiudono un cuore dal gusto inconfondibile.
A Sant’Erasmo i primi carciofi vengono raccolti verso inizio di aprile. Questi carciofi, che vedono letteralmente impazzire i veri intenditori, sono le “castraure”, cioè il frutto apicale della pianta di carciofo che viene tagliato per primo in modo da permettere lo sviluppo di altri 18-20 carciofi laterali (botoli) altrettanto teneri e gustosi. Le castraure sono famose per il loro gusto unico e particolare, un carciofo tenerissimo che è un insieme di sapori, dal leggero sapore amarognolo, che ne esaltano l’inestimabile valore organolettico.

Consigli utili:

  • Da Portogruaro recarsi a Punta Sabbioni, dopo aver superato Jesolo. Da lì partono i vaporetti della linea ACTV che traghettano verso Sant’Erasmo. E’ molto bello passeggiare per l’isola a piedi o in bicicletta.
  • Percorso: dal pontile ACTV di S.Erasmo-Capannone si prende la carrareccia diretta a sud e la si segue compiendo il periplo costiero dell’isola.
  • Lunghezza: 9 Km
  • Tempo di percorrenza: 3 ore (escluse le soste)
  • Viabilità: il percorso si svolge per circa quattro chilometri su strada asfaltata e per i rimanenti cinque su stradine bianche o sterrate.
  • Punti d’appoggio: sull’isola è presente un solo negozio di alimentari presso il centro abitato. In caso di emergenza ci si può rivolgere alle numerose abitazioni private.
  • Ristorante: Ristorante Vignotto
  • Indirizzo: Isola di Sant’Erasmo, 71 logo, Sant’Erasmo
  • Città, provincia e CAP: Venezia (VE) – 30141
  • Telefono: 041-2444000 – Fax: 041-8109929
  • Periodo consigliato: da aprile a ottobre
  • Abbigliamento: adeguato alla stagione; il clima può essere caldo afoso nei mesi estivi o ventilato nelle stagioni intermedie. Si consigliano buone calzature.
  • Avvertenze: all’arrivo verificare gli orari del vaporetto per ripartire; rispettare le colture e le proprietà private. Nei giorni festivi dell’estate l’isola viene raggiunta da numerosi bagnanti che frequentano la spiaggia.

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Gruaro

  • GRUARO: il toponimo propone varie interpretazioni. C’è chi lo fa risalire al nome della gru, uccello acquatico che si suppone abitasse in queste zone ricche d’acqua, ma si tratterebbe di un caso raro. Altri lo fanno derivare da una forma latinizzata gruarius”, un termine franco che significa “guardiano del bosco. Anche questa definizione non trova conferme documentarie medioevali. Altre supposizioni sono legate alla presenza dell’acqua. Una la fa derivare da grava (ghiaia), visto che il territorio era percorso da fiumi importanti quali il Tagliamento, il Lemene e il Reghena. Altra teoria vede l’origine del nome Gruaro da forme della bassa latinità: Groa, Grua, ossia terra paludosa”, come doveva essere il territorio un  tempo.
  • Via Elsa Morante: scrittrice (Roma 1912 – Roma 1985). Figlia illegittima di una maestra ebrea e di un impiegato delle poste, alla nascita fu riconosciuta da Augusto Morante, sorvegliante in un carcere minorile. La Morante iniziò giovanissima a scrivere filastrocche e fiabe per bambini, racconti brevi che furono pubblicati su varie riviste tra cui “Il Corriere dei piccoli”. Il suo primo libro fu proprio una raccolta di queste storie giovanili: “Il gioco segreto”, “Le straordinarie avventure di Caterina”. Nel 1936 conobbe lo scrittore Alberto Moravia che sposò nel 1941; insieme frequentarono i grandi scrittori e pensatori del tempo, fra cui P.P. Pasolini. Verso la fine della seconda guerra mondiale, Moravia e la moglie si rifugiarono a Fondi, un paesino vicino al mare, luogo che compare frequentemente nelle opere dei due scrittori. Il primo romanzo che la Morante pubblicò fu “Menzogna e sortilegio” che vinse il premio Viareggio. Il successivo, “L’isola di Arturo”, uscì nel 1957 e vinse il premio Strega. Nel 1961 Moravia e Morante si separarono, ma Elsa continuò a scrivere. Lavorò in questi anni a un romanzo “Senza i conforti della religione” che non vide mai la luce e a “La Storia”, vicenda ambientata a Roma durante la seconda  guerra mondiale, che uscì nel 1974 ed ottenne fama internazionale. L’ultimo romanzo fu “Aracoeli”. Ammalatesi in seguito ad una frattura al femore, morì nel 1985 per un infarto dopo un’operazione chirurgica.
  • Via Grazia  Deledda: scrittrice (Nuoro 1871- Roma 1936). Autodidatta, iniziò giovanissima un assiduo lavoro di narratrice che svolse a Roma dove si trasferì e collaborò alla “Nuova Antologia”: Nel 1926 le fu assegnato il premio Nobel. La Sardegna, con la sua società arcaica, le chiuse passioni e l’arido paesaggio, fu la fonte d’ispirazione della prima parte della sua opera: racconti e romanzi, fra cui “Anime oneste”, “Elias Portolu”, “Cenere”, “L’edera”, “Canne al vento”, “Marianna Sirca”, “La madre”; opere che la farebbero situare fra  gli scrittori del verismo italiano se da essi non la distaccasse una più profonda e sfumata indagine psicologica; così come la divide dai decadenti la salda dimensione morale dei personaggi presente soprattutto nelle sue ultime opere: “Il segreto dell’uomo solitario”, “La fuga in Egitto”, “Il paese del vento”. Dopo un grande successo europeo ha subito negli anni un forte declino.
  • Via Matilde Serao: scrittrice e giornalista italiana (Patrasso-Grecia 1856 – Napoli 1927). Iniziò giovanissima una fortunata carriera, prima come redattrice del quotidiano di Napoli, poi a Roma come collaboratrice di vari quotidiani. Sposò nel 1884 Edoardo Scarafoglio e tornata a Napoli vi curò per anni una rubrica mondana sul “Corriere di Napoli”, da lei fondato e diretto col marito. Separatasi da lui nel 1904, fondò “Il Giorno di Napoli” che diresse fino alla morte. Nei racconti e nei romanzi che ritraggono il popolo e la piccola borghesia romana, la Serao lasciò l’impronta della sua vocazione giornalistica: l’abile taglio delle scene d’ambiente, l’introspezione psicologica, la sensibilità sociale e talora anche un facile colore di presa immediata, ma superficiale.

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Sviluppo e tradizione: un fragile equilibrio

Da alcuni anni lavoro per Medici Senza Frontiere, combinando la mia professione col desiderio e il piacere di vivere in paesi ogni volta diversi e la possibilità di osservare e a volte condividere la vita delle comunità che vi abitano. Lavorando in “coordinazione”, il gruppo di persone che coordinano tutti i progetti di un determinato paese, risiedo in capitale ma faccio visite frequenti ai progetti che invece si possono trovare in zone remote.

È un dato di fatto che la diffusione dei beni di consumo in tutte le grosse città in cui ho abitato è capillare e oramai omologata, nel senso che le multinazionali distribuiscono gli stessi prodotti ovunque nel mondo. Mi viene così da pensare che desideriamo tutti le stesse cose, e analizzando i desideri da un punto di vista consumistico, i desideri di un consumatore dei paesi sviluppati non sembrano differire molto da quelli dei paesi in via di sviluppo. Ma in alcune rare occasioni questa idea è stata smentita.

Lo scorso anno mi trovavo in Cambogia, e durante una pausa dal lavoro ho fatto un viaggio nel Ratanakiri, una provincia nord-orientale, poco interessata dal circuito turistico, dove, al confine con Vietnam e Laos, si trovano i villaggi dei Degar (letteralmente “figli delle montagne”). Sotto questo nome si uniscono circa quaranta gruppi etnici tra i quali i Tompuon e i Jarai sono i più noti in Cambogia. I Degar sono gli originali abitanti del sud dell’Indocina che si ritirarono gradualmente nelle zone montagnose del Vietnam, Cambogia e Laos in seguito all’espansione di popolazioni più numerose e forti come i Vietnamiti. I villaggi più vicini a Ban Lung, il capoluogo della provincia del Ratanakiri, hanno una popolazione prevalentemente Khmer, come la maggior parte della Cambogia, ma nelle zone più remote, raggiunte da strade sterrate che divengono impraticabili durante la stagione delle piogge e sono percorse a piedi o da qualche raro motorino durante la stagione secca, si trovano villaggi abitati esclusivamente dai Degar.

Questi villaggi, pur essendo raggiungibili in un giorno di cammino, vengono solo sfiorati dalla modernità. A parte gli abiti, pantaloni gonne e magliette al posto di quelli tradizionali, viene conservato uno stile di vita antico. I Tompuon tramandano ancora le loro conoscenze oralmente, sono sprovvisti di un alfabeto scritto, non hanno libri e non hanno scuole. La sopravvivenza della loro peculiarità è affidata ad una tradizione che privilegia l’isolamento.

Mi sono chiesto che cosa possa desiderare un Degar, se i suoi desideri si limitino alle cose che lo circondano, appartenenti alla sua quotidianità, oppure si estendano ai pochi oggetti che arrivano dalla città. Nei villaggi in cui sono passato o mi sono fermato a pernottare mi è sembrato che l’indifferenza alla fine vincesse sulla curiosità iniziale, ed io con tutti i miei gadgets dopo poche ore non costituivo più un evento che potesse turbare gli abitanti. Un atteggiamento così maturo fa sperare che il giorno in cui l’isolamento verrà rotto da una striscia d’asfalto poggiata su quei sentieri, che percorrono una foresta che già mostra segni evidenti di disboscamento, i Degar saranno pronti a fare i conti con la modernità, e forse riusciranno a non farsi travolgere dallo sviluppo più becero e consumistico e a mantenere viva la loro diversità.

Ma un pericolo più subdolo della modernizzazione mina l’integrità delle tradizioni di queste popolazioni, il rischio di un’omologazione culturale che equivarrebbe all’estinzione. Pur essendo il buddismo il credo prevalente in Cambogia e nei paesi confinanti, i Degar per tradizione sono animisti, credono cioè che tutte le cose sono animate da spiriti, benefici o maligni, superiori all’uomo, e ogni gruppo etnico ha dei rituali che lo contraddistinguono. Quelli funebri dei Tompuon sono alquanto originali. Ogni villaggio Tompuon ha un cimitero nascosto nella foresta, a volte molto distante. I morti vengono sepolti e sopra la sepoltura viene costruito un manufatto in legno con una o più sculture sempre in legno. Le sculture generalmente raffigurano il defunto, ma possono anche rappresentare un entità in cui reincarnarsi.

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maggio 2009

  • 30 gennaio 2009: Lettura scenica per “La giornata della memoria”.
  • 27 marzo 2009: “Acqua da bere”, relazione di Francesca Battiston, biologa.
  • 8 maggio 2009: “Facciamo la spesa in modo intelligente”, relazione della Dott.ssa Grazia Gabbini, tecnologo alimentare.
  • 19 giugno 2009: Gherardo Colombo ospite de La Ruota!

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Acqua… che fare?

Dal 16 al 22 marzo, si è tenuto ad Istanbul il quinto Forum mondiale dell’acqua, un summit importante, anche se da più parti criticato, al quale è approdata anche la battaglia dei gruppi che combattono per il riconoscimento dell’acqua come diritto umano universale e contro la privatizzazione della gestione idrica. I lavori del Forum si sono conclusi però con un nulla di fatto e con il riconoscimento generico, senza alcun peso legale, che l’acqua è un “bisogno” di tutti, non un diritto.

È stata bocciata anche la proposta di Sarah Ahmad, presidente della Gender and Water Alliance, secondo la quale “il ruolo dei governi è proteggere la propria gente, proteggere i più deboli, i più vulnerabili, i poveri e chi non riesce a pagarsi i servizi minimi per avere acqua potabile, ad es. fornendo gratuitamente una quantità minima garantita cadauno”. È stato quindi disatteso il principio che “l’acqua -come dice Emilio Molinari presidente del Comitato italiano per il contratto mondiale dell’acqua- è di tutti e va con tutti condivisa e gestita e non si può agire solo a livello nazionale”. Del resto lo stesso ONU, ha rinviato il riconoscimento del diritto all’acqua al 2011, ricorda sempre Molinari “lanciando un brutto segnale proprio nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.

Partecipando, a fine novembre, ad un convegno su questi temi a Milano Molinari ha ricordato come “in Italia una legge obbligherà le amministrazioni locali a privatizzare i servizi idrici” mentre nel mondo le cose vanno diversamente. In America Latina, per esempio, le lotte contro la privatizzazione e per il diritto all’accesso dell’acqua sono state il motore di cambiamenti sociali e politici epocali (Uruguay, Bolivia, Venezuela, Ecuador hanno rescisso i contratti con le grandi multinazioni e inserito nelle proprie costituzioni l’acqua come principio umano universale e la gestione partecipativa e comunitaria al servizio servizio idrico); in Francia, il Comune di Parigi ha deciso che entro il 2010 solo il pubblico garantirà tutto il ciclo dell’acqua, dalla produzione alla distribuzione, togliendola a Suez e Veolia, i due più importanti operatori mondiali privati del settore.

Nel nostro Paese è stato messo sotto accusa l’articolo 23 bis della legge 133 che rende sempre più difficile per i Comuni evitare la privatizzazione delle loro reti entro il 2010. Una legge duramente contestata dalle decine di comitati per l’acqua nati in tutta Italia e che hanno raccolto 440mila firme, depositate nel luglio 2007, per presentare una proposta di legge che favorisca “la definizione di un governo pubblico e partecipativo del ciclo integrato dell’acqua, in grado di garantirne un uso sostenibile e solidale” (Art.1, comma 2).

E mentre gli esperti discutono delle soluzioni da trovare per una gestione intelligente delle acque a livello locale, si moltiplicano le proteste: in Lombardia, per esempio, 144 Comuni hanno chiesto un referendum per cancellare una legge della giunta Formigoni del 2006 che anticipava il 23 bis e separava l’erogazione e gestione del servizio; ad Aprilia 7000 famiglie continuano a pagare le bollette al Comune, mantenendo la tariffa pubblica e respingendo quella di Acqualatina (la S.p.A. mista controllata dalla multinazionale Veolia) che comporta aumenti del 300%.