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Marcello e i “The Professionals”

Anche la storia di Marcello C., come quelle ospitate precedentemente in questa pagina, è la storia di una passione, iniziata lontano nel tempo, quando il nostro protagonista aveva 8 anni, a Catania, e condivisa con il fratello e poi con altre persone, (la nostra sarà sempre infatti una storia al plurale) che ha avuto ed ha tuttora come oggetto la musica, non tanto e solo ascoltata, ma praticata, suonata assieme ad altri.

Marcello racconta che a 8 anni appunto, di nascosto, lui e suo fratello si erano comperati una chitarra, mettendo insieme faticosamente le 6000£ necessarie; tutto all’insaputa dei genitori e in particolare della mamma che, da buona insegnante, considerava la musica una possibile fonte di distrazione. Il segreto rimane tale solo per 2 giorni, e quando la chitarra viene scoperta, viene loro intimato di riportarla indietro, ma per fortuna il negoziante non ne vuole sapere di riprendersela, per cui è giocoforza per la madre accettare la situazione. Incomincia così lo studio, suo e di suo fratello, da autodidatti, dello strumento, mentre all’educazione del loro gusto musicale contribuiscono i fratelli più grandi, che ascoltavano i Platters e poi i Beatles, per citarne solo due.

A 11 anni Marcello e Roberto, il fratello, danno vita, con alcuni coetanei, al loro primo complessino e passano i pomeriggi a provare nel garage di un amico, in un condominio in quel di Catania. Finalmente, per il loro tredicesimo compleanno, il debutto davanti a tutta la famiglia e da quel momento non hanno più smesso, anche se ci sono state delle pause involontarie nell’attività del gruppo, dovute ai trasferimenti della famiglia e a motivi di studio, ma la passione è rimasta, sempre alimentata, coccolata e si è andata definendo meglio finchè nel 1991 è nata la band “The Professionals”, attiva ancora oggi, sostanzialmente sempre con gli stessi componenti, o quasi.

“Profondamente legati alla musica nera degli anni ‘50 e ‘60, e in particolare al blues e al Rhythm’n’Blues, The Professionals riescono ad accattivarsi il pubblico grazie alla riproposta di questo genere musicale trascinante e coinvolgente…” così è scritto nella home page del loro sito ed io sottoscrivo in pieno questo giudizio, perché ho avuto l’opportunità di ascoltarli e li ho trovati capaci e divertenti, ma proporrei all’estensore della presentazione di sostituire accattivare con conquistare che rende maggior giustizia al loro talento esecutivo.

Di Marcello poi, Drum, sempre nel sito ufficiale della band si legge questo breve ritratto “(è) il personaggio più misterioso del gruppo. Grande cultura musicale unita ad una tonica destrezza gli permettono di cimentarsi contemporaneamente alla batteria e alle tastiere. Semplicemente incredibile”. (Dettaglio singolare e simpatico: lo stesso ritratto è utilizzato specularmente anche per il fratello gemello, quasi a sottolineare la loro intercambiabilità). Misterioso Marcello un po’ lo è: lui, normalmemte cordiale ed estroverso nella vita di relazione, diventa più riservato, quasi restio a raccontarsi come musicista, non so se per modestia, o per gelosa custodia di questa sua passione che ritiene più giusto vivere e condividere fattivamente con amici e fans piuttosto che affidarla alle parole. Parla invece con piacere, sottolineandone le qualità professionali, di quanti suonano con lui nella band, come il suo sosia e gli “amici fraterni” Umberto Baggiani, Neck Collini e “Al” Caicco, e di quanti hanno hanno suonato e cantato nel gruppo, come Gigi Todesca, Davide Drusian, Ice Casaro, Monica Roncolato e Valentina Roman, l’ultima cantante in ordine di tempo. In passato ricorda, rispondendo ad una mia domanda, di aver accompagnato, in occasione di “feste di piazza” vari interpreti e suonato con strumentisti noti in Italia e fuori: tra gli altri Juni Russo (quando si chiamava ancora Giusi Romeo), Ninni Rosso, Donatella Moretti, Mino Reitano e Mario Merola.

Il repertorio di The Professionals comprende canzoni quali Midnight hour, Knock on vood, 6345-789, Shot gun blues, Proud Mary, Sweet Chicago, Soul man, tutti brani resi immortali dai grandi del R&B, da Wilson Pickett a Otis Reding, a Sam & Dave e via elencando, eseguiti, dicono gli intenditori “con ottima tecnica strumentale e la più totale padronanza del repertorio”.

La band ha suonato in numerosi locali di tutto il Triveneto, e Marcello cita con particolare piacere, e in questo caso sì con una punta d’orgoglio, il locale “Al vapore” di Mestre, location  prestigiosa dal punto di vista musicale; e qui la loro esibizione è stata accompagnata, ancora una volta, da giudizi positivi e lusinghieri, per i quali vi rimando al sito (www.theprofessionals-band.it).
Nel loro curriculum figurano anche 2 cd ed un dvd.

Le notizie raccolte hanno solleticato ulteriormente la mia e, anche spero, la curiosità dei lettori, per cui non ci resta che auspicare di poter assistere al più presto ad una esibizione de’ “The Professionals” a Gruaro per apprezzare dal vivo quanto letto.

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Referendum elettorale del 21 giugno 2009

    • Quesito 1: Premiata la lista con più voti alla Camera
      Il premio di maggioranza va alla lista più votata alla Camera dei deputati e si innalza la soglia di sbarramento. Attualmente la legge prevede un sistema proporzionale con premio di maggioranza, attribuito su base nazionale alla Camera e su base regionale al Senato. Viene attribuito alla “singola lista” o alla “coalizione di liste” che ottiene più voti.
      • Quesito 2: Premio di maggioranza al Senato
        Anche al Senato, come alla Camera, il premio di maggioranza va alla lista più votata. Di fatto, il referendum, abrogando la norma sulle coalizioni, innalzerebbe le soglie di sbarramento. Le liste minori, per ottenere una rappresentanza dovrebbero superare lo sbarramento. Resterebbero in vigore le norme sull’indicazione del premier e del programma elettorale.
        • Quesito 3: Abrogazione delle candidature multiple
          Il quesito prevede l’abrogazione della norma sulle candidature multiple e la cooptazione oligarchica della classe politica. Oggi ci sono candidati che si presentano in più circoscrizioni, creando un bacino di “primi non eletti” che subentrando nella circoscrizione dove il pluricandidato rinuncia. Oggi 1/3 dei parlamentari sono stati scelti dopo le elezioni.

          fonte: l’Unità

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          Sottovoce…

          Adesso che l’ondata emotiva, suscitata dal caso Englaro, è passata o almeno si è un po’ attenuata, vorremmo anche noi dare un piccolo contributo alla discussione che è nata sul fine vita, ma vorremmo farlo pacatamente, sottovoce appunto, senza quei toni urlati, esasperati, irrispettosi a volte dei sentimenti più profondi delle persone coinvolte, che l’hanno caratterizzata. Per farlo vogliamo partire dall’articolo 32 della Costituzione, la madre di tutte le leggi, che recita “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

          In questo articolo il legislatore ha previsto tutto: diritti dei cittadini riguardo alla tutela della propria salute, doveri e limiti dello Stato; ecco allora il Servizio sanitario pubblico e il consenso informato, si tratta ora di completare i dettami della legge con il testamento biologico, riguardante le modalità del fine vita in situazioni irreversibili. La materia è certamente delicata e va a toccare sensibilità e convinzioni diverse e profonde, tutte ugualmente degne di rispetto, ma diventa tutto più semplice, a nostro avviso, lasciando la libertà di scelta al singolo individuo, perché, come dice Rita Levi Montalcini “morire con dignità è un diritto individuale e il testamento biologico va scritto esclusivamente per noi stessi. Non si può mai decidere per gli altri”. In questa ottica di esercizio dell’autodeterminazione è chiaro che chi crede che la vita sia un dono di Dio, sul quale la persona non ha alcun diritto di disporre, non si avvarrà di questa possibilità di decidere e continuerà ad essere assistito e tenuto in vita comunque.

          Inoltre accettando il principio della libertà di scelta si applicherà, finalmente, completamente un altro dettame costituzionale, quello dell’uguaglianza di tutti i cittadini “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3). Forse la nostra può apparire una semplificazione estrema, un ragionamento da “il re è nudo”, ma può essere a nostro avviso, e lo ripetiamo sottovoce ma fermamente, un punto di partenza su cui poi innestare e sviluppare altre argomentazioni e problematiche, prima fra tutte su chi far decidere sul fine vita per chi ha perso le proprie facoltà mentali, sul ruolo dello Stato in questa materia così delicata, su cosa sia trattamento medico o di sopravvivenza.

          Il dibattito è aperto, ma noi diamo il nostro contributo scegliendo di esercitare il diritto di decidere di morire con dignità, senza essere obbligati a rimanere attaccati ad una macchina per un tempo indefinito, senza pensare con questo di imporre ad altri, che la pensano diversamente, la nostra scelta.

          Allo stato attuale, la legge in discussione in Parlamento di fatto stabilisce l’indisponibilità, per ogni persona, di decidere sul proprio fine vita, ledendo così il principio sancito esplicitamente dalla Costituzione e correndo il rischio quindi, secondo l’opinione di molti giuristi, di incostituzionalità. Una legge truffa poi questa, secondo Stefano Rodotà, proprio perché per introdurre nel nostro sistema il testamento biologico, in concreto raggiunge l’obiettivo “di cancellare ogni rilevanza della volontà delle persone”.

          C’è materia su cui riflettere, facciamolo dunque…

          La Redazione

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          Il Big Bang sul palmo della mano: l’esperimento ALICE all’acceleratore LHC del CERN

          “Cosa fate voi fisici?”. Ecco una domanda che mi sono sentito rivolgere molto spesso in questi anni.

          Rispondere ad essa è molto meno facile di quanto non si pensi e descrivere “all’uomo della strada” che tipo di attività svolga un fisico sperimentale è tutt’altro che immediato. Nell’immaginario comune, nel migliore dei casi, alla parola “fisico” si associa l’immagine dell’immortale Albert Einstein, ma nel caso peggiore veniamo pensati chiusi in laboratori segreti a progettare e realizzare nuove e terribili tecnologie di distruzione di massa.
          Inutile dire che la realtà, come nella stragrande maggioranza dei casi, è totalmente diversa e non collima con il cosiddetto “sentimento popolare”.
          Proprio per darvi un’idea del lavoro di chi, giorno per giorno, si dedica a piccole e grandi ricerche, colgo questa ulteriore occasione per parlare di quale sia la realtà quotidiana per uno studente di dottorato come me.

          La mia attività di ricerca si svolge all’interno di un esperimento di fisica nucleare delle alte energie, noto con il nome di ALICE (acronimo di A Large Ion Collider Experiment). ALICE è uno dei quattro maggiori esperimenti in allestimento presso LHC (Large Hadron Collider), la nuova macchina acceleratrice costruita presso il CERN di Ginevra.
          LHC, la cui costruzione ha richiesto quindici anni di lavoro e la profusione di notevoli sforzi finanziari ed umani, consentirà di accelerare fasci protoni e nuclei di elementi pesanti, come il piombo, ad energie fino ad oggi mai raggiunte sulla Terra e disponibili solamente nelle profondità del cosmo.
          ALICE utilizzerà le particelle che così accelerate saranno fatte collidere le une contro le altre per andare a studiare le caratteristiche della materia che ci circonda in condizioni di temperatura e densità elevatissime che si ritiene fossero presenti nei primi istanti di vita dell’universo, all’incirca un milionesimo di secondo dopo il Big Bang, nome con il quale in fisica è chiamato l’istante in cui tutto ha avuto inizio.

          A tutti gli effetti, quindi, ALICE aprirà una finestra su un passato remotissimo, un passato che in questo modo ci apparirà meno oscuro e spingerà ancora più in là la nostra conoscenza sulle origini del cosmo.
          Sfortunatamente, le condizioni che in ALICE cercheremo di riprodurre sopravviveranno per un tempo brevissimo, 10 milionesimi di miliardesimo di miliardesimo di secondo, un tempo troppo breve per poter essere valutato direttamente. Per questo, ALICE è stato progettato e costruito per poter osservare e studiare non il momento della collisione ma tutto ciò che uscirà dal punto in cui le particelle si scontreranno. In parole povere, è come studiare la composizione e il funzionamento di un orologio mandandolo in mille pezzi e analizzandone i frammenti prodotti. Questo approccio, per quanto incredibile e paradossale, da 50 anni a questa parte ha consentito progressi inimmaginabili nello studio dell’immensamente piccolo e, al tempo stesso, dell’immensamente grande.

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          “Che” di Steven Soderbergh

           

          “Un vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d’amore: amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità”.
          Ernesto Guevara

          Film fortemente voluto dall’attore Benicio Del Toro (che ne è anche co-produttore assieme a Laura Beckford), peraltro giustamente premiato per la sua interpretazione al 61esimo festival di Cannes (2008), ispirato direttamente ai diari del compagno Guevara (Diario della rivoluzione cubana e Diario in Bolivia), scritto dal fidato Peter Buchman, il penultimo lavoro dell’eclettico Steven Soderbergh (regista che con assoluta naturalezza passa da film indipendenti a mega produzioni hollywoodiane), è di dificile valutazione critica.

          Di sicuro è magistralmente curato, e per le tecniche di ripresa adottate (soprattutto nella prima parte, con quei salti da un bianco e nero sgranatissimo dell’uomo pubblico ai sparatissimi colori digitali del “barbudo” che arranca nella Sierra Maestra), e per il montaggio (ad opera dello stesso Soderbergh), e per la curatissima fotografia e per la colonna sonora, molto presente e mai inopportuna.

          Ma di sicuro è anche magistralmente audace, sia per la scelta di girarlo interamente in lingua spagnola, sia per la durata di 4 ore e mezza (inconcepibile per un certo modo di intendere il cinema, e anche ahimè per i distributori, che han pensato di tagliare il film in due parti e farlo uscire separatamente) ma soprattutto per l’inevitabile rischio in cui si incorre nel rappresentare una vita così breve ma così densa come quella del Comandante Ernesto “Che” Guevara: o di risultare eccessivamente celebrativi o al contrario noiosamente pedanti. “Il parto” dell’opera in questo senso è emblematico (frutto di una gestazione di oltre 10 anni), ed è evidente anche l’estrema difficoltà in cui il regista incorre nel cercare continuamente una via che si ponga in posizione intermedia rispetto a questi due opposti. La scelta di fondo è dunque quella di focalizzarsi sull’elemento “uomo” di Guevara, e derubricare il mito ad elemento di valutazione da parte dello spettatore.

          Quest’ottica è coerente con la scelta di stigmatizzare in bianco e nero gli spezzoni del Guevara “istituzionale”, nel suo discorso all’ONU, in cui il grande idealista e provocatore non lesina a farsi beffe e lanciare accuse ai delegati e diplomatici americani per poi concludere con il famoso “patria o muerte”; oppure ancora con le citazioni tratte dall’intervista trasmessa dalla CBS il 14 dicembre 1964, che ancor maggiormente evidenziano l’obiettivo del regista: non quello di dare lezioni di storia, o tantomeno di celebrare la politica cubana, ma esclusivamente di raccontare una vita vissuta all’interno della Storia. Ciò si evidenzia ancora maggiormente nella seconda parte della pellicola, che aprendosi con la lettura da parte di Fidel della lettera di rinuncia agli incarichi istituzionali da parte del Che rende la sua figura ancor più solitaria e per questo umana.

          In questo senso il viaggio in Bolivia per esportare la rivoluzione si caratterizza da subito come una “via crucis laica”, in cui un sottile presentimento di disfacimento e caduta è continuamente sottolineato da un’efficace ripresa con camera a mano, dal progressivo rallentamento del ritmo e dalla sempre più preponderante visione in soggettiva da parte del protagonista. Tale visione in soggettiva trova il suo culmine nel finale: la morte è vista attraverso gli occhi del Che, viene ad essa negata una piena rappresentazione. Semplificando, la prima parte si può definire “il film della vita” (nel senso più ampio del termine) e la seconda “il film della morte” (nel senso più strettamente “personale”).

          Non si versano lacrime durante la visione, non c’è pathos né celebrazione, non ci sono misteri da svelare né trame intricate, ma c’è la fierezza di un uomo, e di un gruppo di compagni, che hanno creduto negli ideali di uguaglianza e di liberazione dei popoli oppressi, un sentimento quantomai moderno ed attuale nelle esperienze politiche dell’America Latina odierna.

          scheda film su IMDb, prima parte

          scheda film su IMDb, seconda parte

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          Canaletto, il pittore dei tesori di Venezia

          A Treviso a Ca’ dei Carraresi dal 23 ottobre 2008 al 5 aprile è in corso una mostra su Antonio Canal, meglio conosciuto come Canaletto.
          Mi sembra doveroso segnalare la presenza di questa mostra perché raccoglie un notevole numero di opere dell’artista e perché grazie ad essa arrivano in Italia per la prima volta due importanti dipinti di Canaletto: Ingresso solenne del conte di Gergy a Palazzo Ducale del Hermitage di San Pietroburgo ed Il ritorno del Bucintoro del Museo di Mosca Puskin. Vediamo però di capirne di più su questo artista e sulle sue opere.
          Canaletto è sicuramente il primo e più conosciuto pittore vedutista veneziano. Il pittore (Venezia 1697-1768) inizialmente però è in realtà attivo come scenografo a fianco del padre, nel 1719 compì un viaggio a Roma, in seguito al quale, abbandonò il teatro preferendo ritrarre vedute dal naturale. Sembra tuttavia più probabile che la conversione al vedutismo sia avvenuta per gradi e che il giovane Canaletto abbia cominciato col dipingere paesaggi di fantasia con rovine classiche, per giungere poi alla veduta vera e propria, seguendo gli esempi del Van Wittel. Il gusto dello scenografo è ancora evidente in certi tagli a effetto e nei forti contrasti chiaroscurali che animano il saldo impianto prospettico delle vedute.

          Verso la fine del terzo decennio del secolo, l’osservazione più attenta della luce naturale e una più acuta sensibilità per i valori atmosferici condussero l’artista alla creazione di vaste composizioni percorse da una luminosità intensa che conferisce, in un sottile accostamento di rapporti cromatici, risalto a tutti gli elementi della veduta, dalle architetture alle minuscole figure, che animano la composizione e danno un’idea della dimensione degli edifici, e allo scintillio delle acque della laguna.

          Le rappresentazioni del Canal Grande, dei “campi” veneziani e di località dell’entroterra lagunare o lungo il Brenta, nelle quali appaiono fissati in forme di limpida bellezza gli aspetti monumentali e anche quelli minori della città e dei dintorni, sono dipinte con abilità meticolosa e volontariamente impersonale. Una prospettiva rigorosa, la cui perfezione tradisce l’impiego della camera ottica, ordina lo spettacolo veneziano dei canali e  dei  palazzi, cui  l’ambientazione luminosa conferisce un tono di poesia.

          La veduta è per Canaletto e per i vedutisti, un documento oggettivo di luoghi o eventi storici richiesto sia dalla committenza locale, sia da visitatori stranieri o da chi non potendo affrontare un lungo viaggio, desiderava conoscere ugualmente, attraverso la rappresentazione pittorica, luoghi tanto famosi. Le vedute erano scrupolosissime, tanto che, per ottenere maggiore verità di quanta non possa restituirne l’occhio umano, quest’artista, come già detto prima, fa uso della camera ottica. La camera ottica è uno strumento che facendo passare all’interno, attraverso un piccolo foro, i raggi della luce, permetteva di proiettare l’immagine su uno schermo di carta oleata o su un vetro smerigliato. Il pittore poi ricalcava questa immagine e questa era la base di partenza della veduta. Questo però non significa che i vedutisti dipingessero all’aria aperta come fecero poi gli Impressionisti: il quadro veniva assolutamente finito in bottega.

          Analizzando le opere di un vedutista come Canaletto bisogna anche assolutamente tenere conto del periodo in cui operano questi artisti. Il genere della veduta infatti si inserisce in un clima particolare: Venezia nel Settecento visse un epoca di declino politico e militare. In questo periodo però, per contrasto, ci fu la volontà di dare alla città un volto ricco e fastoso. Cerimonie ufficiali, parate sul mare, ricevimenti, spettacoli si susseguivano in laguna. Cataletto è sicuramente cronista fedele di questa vita cittadina; basta osservare il ritorno del Bucintoro per capire che quest’artista vuole rendere la bellezza splendente della città. Nulla è rappresentato per caso, tutti i dettagli contribuiscono a far comprendere la grandiosità della Serenissima, già la scelta di rappresentare il Doge mentre sbarca dal Bucintoro sottolinea sicuramente l’importanza e la maestosità della Repubblica di Venezia. Inoltre, per aggiungere credito a questa voglia del pittore di esaltare la Serenissima con i suoi quadri, è sicuramente utile notare che anche quando Canaletto dipinge degli angoli poco conosciuti di Venezia fa risaltare comunque la bellezza della città, rappresentando le persone molto piccole in modo da far risaltare l’imponenza e la sfarzosità dei palazzi. Questa esaltazione di Venezia è sicuramente uno dei motivi che ha reso Canaletto uno dei pittori più conosciuti e più stimati.

          per informazioni sulla mostra: www.artematica.tv

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          Ricordi di scuola…

          “Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”

          A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.

          L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.

          La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”

          La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).

          Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.

          Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.

          C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.

          Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.

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          Il potere, le regole e… la crisi

          Può sembrare pretestuoso affrontare un argomento così impegnativo e complesso nelle poche righe del nostro foglio. Ma anche il nostro piccolo foglio senza pretese ha il dovere di proporre qualche riflessione soprattutto se stimolata dalla drammaticità dell’attuale crisi economica e finanziaria. Dunque, consapevoli delle inevitabili semplificazioni, accantoniamo i timori e incominciamo.

          Esiste una relazione fra il potere politico, le sue regole e la crisi economica? Se la relazione esiste, la crisi economica significa anche crisi del potere politico?

          È noto che il potere è strettamente connaturato all’organizzazione sociale che gli uomini hanno costruito nel corso della storia: ogni organizzazione sociale si articola e si sviluppa secondo regole che vengono date, e gestite, da un gruppo ristretto di individui che detengono il potere.
          Perché questo gruppo ristretto di individui detiene il potere? In termini specifici: chi, o che cosa, legittima il potere? La risposta potrebbe essere questa: il potere è legittimato dalle regole che vigono in quel momento e quindi chi determina le regole detiene il potere.

          È appena il caso di sottolineare che storicamente la prima regola è stata la violenza: il più forte dominava sugli altri (fatte le debite considerazioni va constatato che, purtroppo, è così anche oggi in molte parti del mondo dominate da regimi totalitari). Ma la sola violenza non è di solito sufficiente e funzionale, nel lungo periodo, al mantenimento del potere perché esso ha la necessità di essere accettato da chi gli è sottoposto.

          La religione, per questo, ha svolto un ruolo formidabile: nell’antico Egitto il Faraone era figlio di Ra, il dio sole, e quindi la sua legittimazione derivava direttamente dalla divinità; Mosé, capo del popolo ebraico errante, ricevette direttamente da Dio le tavole della Legge, come se Dio gli avesse delegato il compito di far applicare le sue leggi. Quindi Mosé, applicando quelle regole, era direttamente legittimato da Dio. Dopo il periodo oscuro seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente la dinastia dei Merovingi, i cui discendenti reggono ancora oggi le residue monarchie europee, fu storicamente considerata diretta discendenza di Cristo.
          La corona ferrea, così nominata perché secondo la tradizione contiene al suo interno un chiodo della croce di Cristo, fu solennemente posta dai papi sul capo degli imperatori, a partire da Carlo Magno. Anche in questi casi, e per secoli, la legittimazione del potere derivava direttamente da Dio.

          Il lungo processo storico, culturale e politico che ha determinato la formazione delle moderne democrazie, ha avuto come risultato l’individuazione del popolo quale soggetto legittimante il potere. Il popolo possiede la sovranità ed esercita questa funzione delegando ai suoi rappresentanti democraticamente eletti la funzione legislativa, ovvero la determinazione delle regole.
          Le regole, quindi, sono il prodotto della volontà popolare espressa attraverso i suoi rappresentanti.
          La rappresentanza come metodo democratico ha potuto concretizzarsi, nell’ultimo secolo, grazie a quelle organizzazioni sociali costituite da aggregazioni di persone che condividevano ideali, valori e interessi: i partiti politici.

          La combinazione fra crisi del sistema dei partiti e dei meccanismi di rappresentanza (in sostanza: la legge elettorale) ha influito in maniera significativa sulla crisi del sistema delle regole e quindi, in ultima analisi, sulla legittimazione del potere. Infatti se il potere è legittimato dalla volontà popolare espressa attraverso l’elezione dei suoi rappresentanti e il sistema della rappresentanza va in crisi, ciò non può non avere conseguenze sulla legittimazione stessa del potere. Il quale continuerà a produrre nuove regole, o a modificare quelle esistenti, al di fuori dell’effettivo controllo popolare e con lo scopo di conservare sé stesso o di elargire benefici alle oligarchie e favori a gruppi di cittadini a scapito di altri.

          La progressiva perdita di significato di parole quali diritti, doveri, ideali, valori sostituite da termini come favori, delega, opportunità, convenienza, rappresenta un indicatore significativo della nostra modernità, che Z. Bauman definisce “liquida”. Ciò che sta nella modernità liquida muta continuamente i propri riferimenti in funzione del contesto che, a sua volta, muta continuamente privando così il tutto di qualsiasi riferimento. Paradossalmente le uniche costanti si chiamano oggi precarietà e flessibilità.

          Il delicato e sottile equilibrio che sta alla base della democrazia, consenso popolare – rappresentanza – regole – gestione del potere per il bene comune – è ormai compromesso. L’unica speranza potrebbe essere rappresentata dall’acquisizione di consapevolezza da parte dell’opinione pubblica. Ma la manipolazione dell’informazione permea il vivere quotidiano e impedisce così il riscatto delle coscienze.

          E l’economia? Incominciamo con il dire che l’economia è una scienza anomala che in certi periodi o in certe collocazioni geografiche viene applicata in base al furore ideologico. Se dal punto di vista teorico, infatti, lo scopo del mercato è quello di aumentare il benessere (cioè il soddisfacimento dei bisogni) dell’universalità degli individui, secondo la teoria della “mano invisibile” di A. Smith, dal punto di vista pratico tutti noi assistiamo all’iniqua distribuzione delle risorse fra individui di una nazione e fra nazioni diverse.

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          dicembre 2008

          • 28 novembre 2008: conferenza di Michele Boato.
          • 30 novembre 2008: visita guidata alla mostra “Canaletto”
          • 30 gennaio 2009: lettura scenica di “Altre voci” per il giorno della memoria
          • 19 giugno 2009: Gherardo Colombo ospite de “La Ruota”!

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          Dall’università alla ricerca: amarcord ed esperienze rivisti a mente fredda

          E’ con piacere che approfitto dell’occasione offertami di poter parlare della mia esperienza nel mondo dell’università, ora che, trascorsi ormai quasi due anni dal giorno della mia laurea, mi trovo nella miglior posizione per valutarla a tutto tondo senza condizionamenti.
          Anzi, ora che ho fatto il salto “dall’altra parte della barricata” passando dall’università alla ricerca, posso ancor meglio valutarne i punti deboli e di forza e poter capire se davvero i cinque anni trascorsi tra corsi, esami e laboratori mi hanno lasciato in eredità la preparazione di cui ho bisogno adesso.

          Sono trascorsi ormai più di 7 anni da quando, nel settembre del 2001, mi iscrissi all’università; la sede scelta, per ragioni logistiche oltre che per qualità rinomata, Trieste, il corso di laurea Fisica.
          Nonostante la mia formazione prettamente umanistica e classica che poteva far sembrare strana o quantomeno azzardata la mia scelta, nessuno di quanti mi erano vicini mi fece mai pesare questo aspetto, ma anzi un unanime coro di sostegno mi diede l’energia necessaria per iniziare un percorso che, di certo, non di prospettava come il più semplice possibile. E così infatti fu.

          I primi mesi non furono per nulla semplici, non tanto per il carico di lavoro che la nuova realtà mi imponeva quanto per il notevole gap che mi divideva dalla maggior parte dei miei compagni di corso che, provenendo da background già di impronta scientifica, mostravano di trovarsi sin da subito a proprio agio nella nuova realtà, o almeno così credevo io.
          Non mi sono però lasciato scoraggiare dalle prime difficoltà e sono andato avanti per la strada che mi ero prefisso cercando di colmare le mie lacune iniziali passando lunghe ore su libri ed appunti. A lungo andare, i risultati furono dalla mia parte e nel corso degli anni mi sono lasciato alle spalle o addirittura ho perso di vista compagni che ritenevo molto più quotati di me, i quali però peccando di supponenza o semplicemente incontrando maggiori difficoltà di quelle preventivate, non sono stati risparmiati dalle falci degli esami di fine trimestre.

          In ogni caso, siccome mi è stato chiesto di parlare a tutto tondo della mia esperienza universitaria, non posso esimermi dallo spendere qualche parola su quello che, molto e forse troppo spesso, è uno degli aspetti più delicati nella vita universitaria dello studente, ossia il rapporto con l’organizzazione del proprio corso di laurea e con la “burocrazia”:  professori, lezioni, segreterie, moduli… a volte ce n’è abbastanza per un vero teatro dell’assurdo. E le testimonianze di generazioni di studenti stanno li a dimostralo.
          Ebbene, contrariamente all’esperienza di molti altri studenti in altre facoltà della mia università o in altre università, la mia esperienza in tal senso è stata tutto sommato positiva, in alcuni aspetti anche molto positiva. In oltre 5 anni, gli orari delle lezioni e le date degli esami sono state sempre rispettati e, nelle rarissime occasioni in cui non lo sono stati le comunicazioni al riguardo erano sempre tempestive e puntuali.

          Molti dei miei professori non hanno mai avuto un orario di ricevimento fissato ma sono sempre stati disponibili a ricevere gli studenti pressoché in qualsiasi momento, e non ricordo di aver mai dovuto fare i salti mortali per poter parlare con un docente per chiarimenti, domande o fissare la data di un esame.
          Ritengo che una fetta significativa di questo merito vada attribuito al fatto che il corso di laurea in Fisica non si è mai distinto per un numero spropositato di studenti iscritti, e pertanto il buon senso ha prevalso nel momento in cui si è capito che è bene tenersi vicini quei pochi studenti che ci sono onde evitare di ritrovarsi, entro qualche anno, con un corso di laurea senza iscritti.