Era il 6 gennaio del 1958, ed io stavo dormendo, beata, nella camera che dividevo con mio nonno e mio fratello, nel mio letto, sul mio bel materasso di foglie di mais, quando mia madre venne a svegliarmi, o meglio a buttarmi giù da quel bendidio e, mentre cercavo di capire chi o cosa fosse successo, mi ritrovai a cavallo della bicicletta con in mano la borsa del pranzo di mio padre, mentre mia madre, per la terza volta mi ripeteva di fare presto, di correre alla stazione a portare quella borsa. Finalmente capii: mio padre si era scordato di portarsi il pranzo ed io dovevo andare alla stazione di Cordovado per riparare alla dimenticanza.
Dovevo arrivarci prima che il treno partisse. Avevo 10 anni, arrivavo a malapena ai pedali della bicicletta; quella mattina poi faceva un freddo cane, anche perché addosso avevo solo delle calze di lana di pecora, che mi arrivavano a stento un po’ più su delle ginocchia, tenute ferme lì da due elastici, una misera gonna ed un golf di mia madre, e sì, perché almeno così mi copriva tutta, una sciarpa ed un fazzoletto in testa.
Fuori faceva ancora buio, erano le 5 del mattino. Io abitavo vicino al cimitero e quindi dovevo per forza passare di lì; mi feci forza e, per distogliere lo sguardo da quella direzione, guardai su, in alto, il cielo e, meraviglia, scorsi la luna.
Rimasi senza fiato per quanto era grande e mi parve bellissima; d’improvviso mi resi conto che non l’avevo mai vista così.
Mi sentii rincuorata e, dando un occhio alla strada e uno alla luna, presi a pedalare più forte che mai. Superai Bagnara, arrivai al ponte della Roia e, dentro di me pensai “Chissà cosa diranno di me le donne al lavatoio…!”.
Ma il lavatoio era deserto.
Dove erano finite tutte le sue assidue frequentatrici che, a detta loro, erano già lì alle 4 del mattino, pronte a disputarsi il posto migliore? Sparite! Come mai quella mattina non c’era nessuno? “Sempri fortunada mi!” pensai.
Pedalavo sempre con lena ed arrivai al ponte sul Lemene, ma anche lì, nessuno, nonostante nelle vicinanze ci fosse la “Tisa”, una fabbrica tessile.
Niente non c’era anima viva… c’eravamo sempre solo io e la luna.
Continuai la mia corsa solitaria, ma un po’ di paura mi assalì nuovamente, quando mi trovai di fronte il sottopassaggio della ferrovia, simile ad un buco nero pronto ad inghiottirmi. Ma a rincuorarmi ci pensò il rumore dell’acqua di una piccola roggia lì vicino, ed allora il mio pensiero corse al mulino che sorgeva sulla riva e che mi piaceva tanto. Che meraviglia scoprirlo ora alla luce chiara della luna, con le pale che giravano e facevano cantare l’acqua! Così la paura passò. Ormai ero quasi arrivata.
Ricordo come adesso la volata che feci, quando mi si presentò davanti lo stradone che portava diritto alla stazione.
Ansimante scesi dalla bicicletta, proprio mentre il treno arrivava; mi precipitai dentro di corsa, ma di botto mi fermai: la sala d’aspetto era piena d’uomini che aspettavano il treno; ebbi un momento di smarrimento, perché tutta quella gente mi impediva di vedere mio padre.
Non so perché, ma ricordo che gridai, forte: “Papà!”.
Tutti si girarono ed io, intimorita da tutti quegli sguardi, mi sentii diventare piccola piccola… mio padre si fece largo tra la folla e, senza parlare, mi si avvicinò e piano, sottovoce, mi disse: “Ciuta, ma se fatu chì?”. Io, senza dire niente, gli porsi la borsa del pranzo, lui la prese e mi disse: “Grasie, va a ciasa, pissula!”.
E mentre lo diceva gli ridevano gli occhi e dalla sua mano spuntò, come per magia, una caramella alla menta. Qualcuno chiamò mio padre e lui, salutandomi con la mano, se ne andò a prendere il treno.
Uscii dalla stazione che mi sentivo come se camminassi a mezz’aria, stringendo quella caramella che, se ben ricordo, mangiai a più riprese, perché non volevo che finisse.
Sulla via di casa, salutai la luna che se ne andava a dormire. Questa volta di gente ne trovai tanta per la strada e tutti volevano sapere cosa facessi lì a quell’ora, da sola.
Quando giunsi al lavatoio poi mi dovetti perfino fermare per soddisfare la curiosità delle donne che non si capacitavano di vedermi in giro così presto; ma io spiegai tutto, con orgoglio, perché era una prova da grandi quella che avevo affrontato e mi sentii gratificata dai complimenti che mi fecero sentire protetta e parte di una comunità.
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Nichilismo e speranza: riflessione sui giovani
Si tratta di un atteggiamento che ha attraversato la storia dell’umanità, dai Greci (con Gorgia) fino ai giorni nostri (Heidegger, E. Severino) e che ha assunto nei secoli forme diverse e contestualizzate allo spirito di ogni epoca.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al nichilismo russo che si espresse prevalentemente in forma narrativa anziché concettuale, il termine divenne di uso comune. A dargli il nome fu lo scrittore I. S. Turgenev, l’autore di “Padri e figli” (1862).
Da qui il nichilismo esce dall’ambito propriamente filosofico e incomincia a contaminare il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ad animare l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, proclama, con Nietzsche, la morte di Dio e apre alla cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.
Il nichilismo, l’ospite inquietante che è entrato nelle nostre case e che fatichiamo a riconoscere, si aggira tra i giovani, “penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca le loro anime, intristisce le passioni rendendole esangui” (U. Galimberti).
Genericamente parliamo, leggiamo e ascoltiamo di disagio giovanile: quasi un luogo comune percepito nella nostra società senile come un rimbrotto paternalistico e comunque limitato alla sfera esistenziale. Ma il disagio non è esistenziale, bensì culturale: Dio è morto e con lui la visione ottimistica della storia che vedeva il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza.
La cultura occidentale, abbandonata la visione pessimistica degli antichi greci e abbracciata la tradizione giudaico – cristiana, ha guardato al futuro sorretta dalla convinzione che la storia dell’umanità è una storia di progresso e quindi di salvezza. Ma anche l’omologa moderna della triade male – redenzione – salvezza e cioè scienza – utopia – rivoluzione ha mancato la promessa. Disuguaglianze sociali sempre più evidenti, disastri economici, inquinamenti di ogni tipo, comparsa di nuove malattie, intolleranze e fanatismi, pratica abituale della guerra testimoniano il venir meno della promessa.
La mancanza di senso, di fine e di scopo ha ridotto l’orizzonte a un deserto pietrificato dove dominano i miraggi. Così la nostra società contemporanea è pervasa dalla tristezza diffusa e percorsa dal sentimento permanente della precarietà e dell’insicurezza.
Il futuro come promessa è scomparso e questo determina l’arresto del desiderio al presente. Con il rischio che, negli adolescenti, non si verifichi più il naturale passaggio dall’amore di sé all’investimento sugli altri e sul mondo con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
Genitori e insegnanti sono disorientati perché la mancanza del futuro come promessa li priva dell’autorità di indicare la strada.
Questa circostanza induce l’instaurarsi di un rapporto contrattuale, quindi egualitario, fra genitori e figli, insegnanti e allievi. Ma questa relazione è lungi dall’essere paritaria perché priva l’adolescente dei riferimenti necessari a contenere, con equilibrio, le proprie pulsioni e l’ansia che ne deriva.