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Sempre a proposito di scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

Caro diario,
la scuola è cominciata da più di quattro mesi e ti confesso che sono cambiate un po’ di cose.

Il mio primo giorno di scuola, il mio primo giorno alle medie, perchè questa è la novità, non è stato brutto, a dire il vero lo pensavo peggio.
Arrivata a scuola, stavo aspettando, un po’ intimidita, di entrare in classe.
Non sapevo come funzionava, quindi mi guardavo attorno per capire cosa avrebbero fatto gli altri per poi imitarli.

Ad un tratto una voce gridò: “Mettetevi in fila”.
Io e quelli che sarebbero stati i miei compagni ci dirigemmo, nervosi, verso quella che sarebbe diventata la nostra scuola per i prossimi tre anni.
Entrati in classe, ognuno di noi scelse il posto che preferiva, ben sapendo che i professori, seguendo criteri diversi dai nostri, lo avrebbero cambiato.

In questi quattro mesi, come ho già detto, le cose sono un po’ mutate: sono alle prese con materie nuove, professori al posto delle maestre, compagni e ambiente diversi… il passaggio è stato, e a volte è ancora, faticoso, ma interessante.

Quando ero alle elementari, mi chiedevo sempre come avrei affrontato le medie. Avevo, lo confesso, un po’ di paura, ora posso dire che la mia paura era ed è la stessa di tutti i bambini che, come me, stanno per salire una scala, perché in fondo noi siamo ancora i bambini di 5°, in bilico sopra un gradino con su scritto “non sono né grande, né piccolo”, con addosso il desiderio di essere grande e la paura di non esserne all’altezza.
A questo punto, mi viene in mente il titolo di un libro abbastanza noto, “Io speriamo che me la cavo”, ecco io spero non solo di cavarmela, ma di essere sempre all’altezza di quello che chiedo a me stessa: imparare, imparare ed ancora imparare… ed affrontare serenamente i gradini che dovrò salire durante il mio percorso scolastico.

Un’alunna.

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ETICA-mente sbarca a Gruaro!

La Pro Loco Tegliese nasce a  Teglio Veneto il 21/01/91 dalla volontà di un vivace manipolo di giovani, sostenuti dall’allora Amministrazione Comunale, con lo scopo di coordinare, promuovere, curare e sostenere attività culturali, ricreative e sportive, finalizzate alla promozione del territorio e all’ offerta di nuovi momenti di aggregazione per la popolazione residente e per quella dei comuni limitrofi.

L’associazione, pur operando in un territorio piccolo e sprovvisto di grandi mezzi, ma culturalmente vivace e sensibile, riuscì negli anni a maturare esperienze ed idee che la portarono, a partire dall’anno 2000, ad una nuova coscienza di sé. Era chiaro che Pro Loco Tegliese aveva ancora delle potenzialità che dovevano e potevano esprimersi: l’assunzione di un “impegno sociale” e la sensibilizzazione del territorio a tematiche legate al rispetto dell’ambiente umano e naturale, erano oramai divenute priorità.

Si fece largo la consapevolezza proposta e promossa da diverse forze culturali, sociali, di volontariato, economiche e private, della reale possibilità di intervenire in modo etico e razionale sull’andamento futuro del pianeta Terra, per un miglioramento delle condizioni di vita di tutti. Abbiamo sempre sostenuto che l’impegno di ogni singolo individuo fosse il mezzo più efficace e concreto per poter diffondere la cultura del rispetto e della convivenza civile tra i popoli: la crescita di una società eticamente più giusta avviene mediante il dialogo e l’adozione di di  stili di vita volti alla centralità  dell’uomo e alla salvaguardia dell’ambiente che lo circonda.

Proprio sulla base di questi principi la Pro Loco Tegliese diede vita nel 2003 alla prima edizione della manifestazione-evento denominata “ETICA-mente” – Giornate nazionali per un futuro sostenibile, per un economia di giustizia e per i diritti dei popoli.

La manifestazione, nata come “fenomeno di nicchia”, nel corso degli anni ha definitivamente perso questo suo status, per consacrarsi centro e riferimento del dibattito culturale di un’intera area. “ETICA-mente” è riuscito infatti a promuovere il territorio in cui opera, trasformandolo in un pacifico punto d’incontro e di festa, e a diventare irrinunciabile nonché autorevole tavolo di confronto, in cui dare spazio al dibattito e all’approfondimento di temi legati al rispetto dell’ambiente e dell’uomo.

Tutto questo però rappresenta solo l’apice di un progetto ampio e articolato che impegna la Pro Loco Tegliese, lungo tutto il corso dell’anno,  attraverso la promozione di incontri, mostre, spettacoli teatrali e quant’altro, volti alla sensibilizzazione e alla creazione di una forte nuova coscienza, in merito alla tolleranza tra i popoli, l’energia, l’acqua, l’ambiente e la pace. Ad “ETICA-mente” trovano inoltre storicamente spazio convegni, laboratori e spettacoli che pongono al centro la figura del bambino.

I bambini e la loro condizione di vita sono infatti da sempre oggetto di particolare attenzione da parte della Pro Loco Tegliese: essi sono ambasciatori del nostro futuro nonché portatori sani di speranze e vivacità intellettuale. La società civile ha il compito e il dovere morale di garantire loro condizioni di vita giuste e dignitose. Nel suo piccolo, l’associazione, in collaborazione con l’Istituto Comprensivo “Don Agostino Toniatti”, ha finanziato in questi anni progetti e percorsi formativi rivolti ai bambini all’interno del loro percorso scolastico. Si è cercato in questo modo di portarli ad una maggiore conoscenza di sé e degli altri, di avviarli ad una riflessione sulla biodiversità, nonché a sensibilizzarli ad un uso consapevole dell’acqua e al rispetto dell’ambiente.

C’è da augurarsi che “ETICA-mente” ed iniziative simili intraprese da altri Enti ed Associazioni del territorio servano davvero da stimolo per la difficile ricerca di nuove e più sostenibili forme di vita e di pacifica convivenza tra i popoli.

Pro Loco Tegliese

ETICA-mente sbarca a Gruaro, con l’incontro dal tema: “Il territorio è poco occupato…”, relatore Luca Mercalli, presidente della Società Metereologica Italiana, e collaboratore della trasmissione di Rai 3 “Che tempo che fa”.

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Una notte d’inverno una bambina…

Era il 6 gennaio del 1958, ed io stavo dormendo, beata, nella camera che dividevo con mio nonno e mio fratello, nel mio letto, sul mio bel materasso di foglie di mais, quando mia madre venne a svegliarmi, o meglio a buttarmi giù da quel bendidio e, mentre cercavo di capire chi o cosa fosse successo, mi ritrovai a cavallo della bicicletta con in mano la borsa del pranzo di mio padre, mentre mia madre, per la terza volta mi ripeteva di fare presto, di correre alla stazione a portare quella borsa. Finalmente capii: mio padre si era scordato di portarsi il pranzo ed io dovevo andare alla stazione di Cordovado per riparare alla dimenticanza.

Dovevo arrivarci prima che il treno partisse. Avevo 10 anni, arrivavo a malapena ai pedali della bicicletta; quella mattina poi faceva un freddo cane, anche perché addosso avevo solo delle calze di lana di pecora, che mi arrivavano a stento un po’ più su delle ginocchia, tenute ferme lì da due elastici, una misera gonna ed un golf di mia madre, e sì, perché almeno così mi copriva tutta, una sciarpa ed un fazzoletto in testa.

Fuori faceva ancora buio, erano le 5 del mattino. Io abitavo vicino al cimitero e quindi dovevo per forza passare di lì; mi feci forza e, per distogliere lo sguardo da quella direzione, guardai su, in alto, il cielo e, meraviglia, scorsi la luna.
Rimasi senza fiato per quanto era grande e mi parve bellissima; d’improvviso mi resi conto che non l’avevo mai vista così.
Mi sentii rincuorata e, dando un occhio alla strada e uno alla luna, presi a pedalare più forte che mai. Superai Bagnara, arrivai al ponte della Roia e, dentro di me pensai “Chissà cosa diranno di me le donne al lavatoio…!”.

Ma il lavatoio era deserto.
Dove erano finite tutte le sue assidue frequentatrici che, a detta loro, erano già lì alle 4 del mattino, pronte a disputarsi il posto migliore? Sparite! Come mai quella mattina non c’era nessuno? “Sempri fortunada mi!” pensai.

Pedalavo sempre con lena ed arrivai al ponte sul Lemene, ma anche lì, nessuno, nonostante nelle vicinanze ci fosse la “Tisa”, una fabbrica tessile.
Niente non c’era anima viva… c’eravamo sempre solo io e la luna.
Continuai la mia corsa solitaria, ma un po’ di paura mi assalì nuovamente, quando mi trovai di fronte il sottopassaggio della ferrovia, simile ad un buco nero pronto ad inghiottirmi. Ma a rincuorarmi ci pensò il rumore dell’acqua di una piccola roggia lì vicino, ed allora il mio pensiero corse al mulino che sorgeva sulla riva e che mi piaceva tanto. Che meraviglia scoprirlo ora alla luce chiara della luna, con le pale che giravano e facevano cantare l’acqua! Così la paura passò. Ormai ero quasi arrivata.

Ricordo come adesso la volata che feci, quando  mi si presentò davanti lo stradone che portava diritto alla stazione.
Ansimante scesi dalla bicicletta, proprio mentre il treno arrivava; mi precipitai dentro di corsa, ma di botto mi fermai: la sala d’aspetto era piena d’uomini che aspettavano il treno; ebbi un momento di smarrimento, perché tutta quella gente mi impediva di vedere mio padre.

Non so perché, ma ricordo che gridai, forte: “Papà!”.

Tutti si girarono ed io, intimorita da tutti quegli sguardi, mi sentii diventare piccola piccola… mio padre si fece largo tra la folla e, senza parlare, mi si avvicinò e piano, sottovoce, mi disse: “Ciuta, ma se fatu chì?”. Io, senza dire niente, gli porsi la borsa del pranzo, lui la prese e mi disse: “Grasie, va a ciasa, pissula!”.

E mentre lo diceva gli ridevano gli occhi e dalla sua mano spuntò, come per magia, una caramella alla menta. Qualcuno chiamò mio padre e lui, salutandomi con la mano, se ne andò a prendere il treno.

Uscii dalla stazione che mi sentivo come se camminassi a mezz’aria, stringendo quella caramella che, se ben ricordo, mangiai a più riprese, perché non volevo che finisse.
Sulla via di casa, salutai la luna che se ne andava a dormire. Questa volta di gente ne trovai tanta per la strada e tutti volevano sapere cosa facessi lì a quell’ora, da sola.

Quando giunsi al lavatoio poi mi dovetti  perfino fermare per soddisfare la curiosità delle donne che non si capacitavano di vedermi in giro così presto; ma io spiegai tutto, con orgoglio, perché era una prova da grandi quella che avevo affrontato e mi sentii gratificata dai complimenti che mi fecero sentire protetta e parte di una comunità.

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aprile 2008

  • 25 maggio 2008: incontro con Luca Mercalli a Ca’ dei Mulini a Boldara.
  • 1 giugno 2008: Gita alle isole di Venezia.
  • 19 ottobre 2008: visita guidata alla Mostra “il Louvre a Verona” a Palazzo della guardia. Per informazioni e prenotazioni, tel.: 368 3599006

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Nichilismo e speranza: riflessione sui giovani

Con il termine nichilismo, dal latino nihil cioè nulla, viene inteso solitamente l’atteggiamento, o la dottrina, che nega in modo definitivo l’esistenza di qualsiasi valore in sé e l’esistenza di una qualsiasi realtà oggettiva.
Si tratta di un atteggiamento che ha attraversato la storia dell’umanità, dai Greci (con Gorgia) fino ai giorni nostri (Heidegger, E. Severino) e che ha assunto nei secoli forme diverse e contestualizzate allo spirito di ogni epoca.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al nichilismo russo che si espresse prevalentemente in forma narrativa anziché concettuale, il termine divenne di uso comune. A dargli il nome fu lo scrittore I. S. Turgenev, l’autore di “Padri e figli” (1862).
Da qui il nichilismo esce dall’ambito propriamente filosofico e incomincia a contaminare il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ad animare l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, proclama, con Nietzsche, la morte di Dio e apre alla cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.
Il nichilismo, l’ospite inquietante che è entrato nelle nostre case e che fatichiamo a riconoscere, si aggira tra i giovani, “penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca le loro anime, intristisce le passioni rendendole esangui” (U. Galimberti).

Genericamente parliamo, leggiamo e ascoltiamo di disagio giovanile: quasi un luogo comune percepito nella nostra società senile come un rimbrotto paternalistico e comunque limitato alla sfera esistenziale. Ma il disagio non è esistenziale, bensì culturale: Dio è morto e con lui la visione ottimistica della storia che vedeva il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza.
La cultura occidentale, abbandonata la visione pessimistica degli antichi greci e abbracciata la tradizione giudaico – cristiana, ha guardato al futuro sorretta dalla convinzione che la storia dell’umanità è una storia di progresso e quindi di salvezza. Ma anche l’omologa moderna della triade male – redenzione – salvezza e cioè scienza – utopia – rivoluzione ha mancato la promessa. Disuguaglianze sociali sempre più evidenti, disastri economici, inquinamenti di ogni tipo, comparsa di nuove malattie, intolleranze e fanatismi, pratica abituale della guerra testimoniano il venir meno della promessa.

La positività della tradizione giudaico – cristiana è stata sostituita dalla negatività di un tempo inconsapevole, dominato da una casualità senza direzione e orientamento, medioevo tecnologico popolato da imbonitori televisivi, alchimisti finanziari che promettono elisir di lungo profitto, predicatori che arringano le anonime moltitudini che non hanno saputo riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa delle classi sociali e ormai occupato da oligarchie corporative.
La mancanza di senso, di fine e di scopo ha ridotto l’orizzonte a un deserto pietrificato dove dominano i miraggi. Così la nostra società contemporanea è pervasa dalla tristezza diffusa e percorsa dal sentimento permanente della precarietà e dell’insicurezza.
Il futuro come promessa è scomparso e questo determina l’arresto del desiderio al presente. Con il rischio che, negli adolescenti, non si verifichi più il naturale passaggio dall’amore di sé all’investimento sugli altri e sul mondo con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
Genitori e insegnanti sono disorientati perché la mancanza del futuro come promessa li priva dell’autorità di indicare la strada.

Questa circostanza induce l’instaurarsi di un rapporto contrattuale, quindi egualitario, fra genitori e figli, insegnanti e allievi. Ma questa relazione è lungi dall’essere paritaria perché priva l’adolescente dei riferimenti necessari a contenere, con equilibrio, le proprie pulsioni e l’ansia che ne deriva.

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Poesie

Le poesie qui riprodotte sono tratte da una raccolta, premiata  a Portogruaro come miglior lavoro poetico realizzato nell’ambito scolastico ed è stata redatta dalla classe III della Scuola media statale di Gruaro.

Gioia

Il fiume è felice
Di vivere in curve perfette
Tra carezze di tenere alghe
E allegre voglie di nuoto.
Il fiume è felice
Di scorrere in liquidi nastri
Per cercare il sogno d’andare
Nella calma serena del mare.
Il fiume è felice
Di nutrire squame guizzanti
E bagnare rive assolate
E campi, paesi e città.
Il fiume è felice, felice…

Sonia Nosella

Se fossi…

Se fossi un pesce
Non nuoterei con le altre trote
Ma mi fermerei
Ad ascoltare il fiume.
ShhShhh
Shhhh….
Sussurrano le onde…
Gra gra gra….
Gracida la rana
Swishhh swishh
Ploc.
E questo? Non so.
Vedo un verme bello grasso
Annegare nel fiume.
Mi avvicino cauto e…

Zzzzzz

Il pescatore ritira la lenza.

Giulia Bozza

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Uzbekistan

Molti, sentendo che sono andato in Uzbekistan, mi chiedono incuriositi il perché di una meta così insolita, poco nota al grande pubblico.
Questa domanda mi costringe ad una rapida riflessione per mettere a fuoco le varie motivazioni che mi hanno spinto ad una tale scelta e, dopo aver pensato di citare, tra il serio ed il faceto, come prima scintilla della mia curiosità, la canzone “Samarcanda” di Vecchioni, arrivo sempre alla conclusione che ciò che mi attira di un luogo e di un popolo è il suo passato, la sua storia e le tracce che essa ha lasciato nel presente e che, a questo proposito, l’Uzbekistan aveva molto da offrirmi.

Questo paese, situato nell’Asia centrale, ad est del Mar Caspio, confinante con l’Afghanistan ed il Tian Shan cinese, è stato uno snodo importante della Via della seta che collegava, nel Medioevo, il Vecchio mondo e l’Oriente ed è stato percorso dai mercanti delle più svariate nazionalità e dal nostro Marco Polo, nel suo viaggio di andata verso la Cina. Il paese fu  conquistato da Gengis Khan, il grande imperatore mongolo (1167-1227), e da Sarmarcanda, la città più nota dell’Uzbekistan, partì Tamerlano (1336-1405) discendente del primo, per la conquista della Russia meridionale, della Turchia, dell’Iran, dell’India. Nella città uzbeka si trova il mausoleo del grande conquistatore.
In tempi più recenti, l’Uzbekistan è entrato a far parte dell’Impero zarista e poi dell’URSS, da cui si staccò nel 1992, diventando una repubblica presidenziale con caratteristiche dittatoriali (le prime elezioni “libere” risalgono al 2007).

Il passato più remoto e grandioso e quello più recente, sovietico, convivono, ma è certamente il primo a prevalere e ad affascinare il visitatore, anche se è più leggibile e tangibile in centri come Bukara e Khiva, che a Samarcanda, la località più nota, dove è visibile ancora solo nella piazza principale, Registan, abbracciata da moschee e madrase (scuole coraniche); il resto della città conserva l’impronta dell’architettura dei paesi del socialismo reale, con spazi ampi e palazzoni squadrati. Per avere uno spaccato di vita quotidiana e reale, basta visitare i numerosi mercati, con la loro esplosione di merci e colori ed in particolare, sempre a Samarcanda, quello della frutta, il più antico di tutta l’Asia; qui ci si imbatte in gente cordiale e curiosa, simpaticamente attratta da ciò che è inconsueto e nuovo, come, nella fattispecie, una ragazza di colore del nostro gruppo che ha catalizzato su di sé molti sguardi. Questo atteggiamento è frutto dell’isolamento in cui il paese è vissuto per tanto tempo e che l’apertura al turismo comincia ad intaccare.

Il ritmo della vita scorre lento, a misura d’uomo, e non è raro anche in città, accanto alle automobili, Fiat e Daewoo, veder passare degli asini.
La giornata lavorativa e la vita sociale sono scandite dal corso del sole per cui, alle 21, le città sono pressoché deserte e buie, secondo una consuetudine tipica delle comunità preindustriali; del resto l’agricoltura, imperniata soprattutto sulla coltivazione del cotone, è ancora l’attività principale del paese e, al momento della raccolta, scendono in campo non solo i contadini, ma anche studenti e professori, come nel caso della nostra guida.

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“No Country For Old Men” di Joel e Ethan Coen

La cosa più curiosa del pluripremiato “No country for old men” (in italiano “Non è un paese per vecchi”), l’ultimo film dei fratelli Coen che ha vinto ben 4 Academy Awards, tra cui migliore film, migliore regia e migliore sceneggiatura non originale, oltre al miglior attore non protagonista Javier Bardem, è che forse è il film meno “coeniano” della loro carriera. Quantomeno per la sceneggiatura, non originale, tratta dall’omonimo romanzo di Cornan McCarthy, o per la scarsezza di quegli elementi tipici dei loro film (lo humour nero, le paranoie, le situazioni surreali e le battute al fulmicotone), ma soprattutto per la mise en scène di questo noir / road movie: asciutta, dura, nerissima e spietata, che non lascia letteralmente alcuna tregua allo spettatore.

La storia, ambientata in Texas negli anni ‘80, s’intreccia su più livelli narrativi: si parte dalla vicenda di un reduce dal Vietman, Llewelyn Moss (Josh Brolin), casualmente ritrovatosi sul luogo di un regolamento di conti, senza superstiti, tra narcotrafficanti. Nell’occasione s’impossessa di una valigetta contenente due milioni di dollari, dando così il via a quella che potrebbe apparentemente sembrare una classica “caccia all’uomo”. Il tenace ed inquietante killer Anton Chigurh (uno strepitoso Javier Bardem) viene infatti incaricato di rintracciare Moss ed il maltolto. La storia, per come la conosciamo, ci è narrata attraverso gli occhi del protagonista “facente funzioni”: lo sceriffo Ed Tom Bell (interpretato da Tommy Lee Jones), che si trova ad indagare sulla carneficina iniziale e di conseguenza, suo malgrado,  a mettersi sulle tracce sia del ladro che dell’inseguitore.

I personaggi (e gli interpreti) sono straordinari: Chigurh è alto, lento, con un ridicolo taglio di capelli e una propensione ad innescare dialoghi altrettanto divertenti, ma è il male assoluto, l’assassino folle, che decide il destino delle vittime tirando una monetina. Moss è un novello cowboy, lanciato in un’avventura sproporzionata rispetto al suo status di solitario cacciatore, consapevole del rischio che sta correndo e quasi rassegnato all’inevitabile; lo sceriffo Bell, infine, è il tipico poliziotto ad un passo dalla pensione, dai pensieri e dalle azioni contrastanti, che insegue impotente e sempre più demotivato.

Questi i personaggi, il tema principale è l’ineluttabilità del male. Il mondo rappresentato è un posto malvagio, governato dal caso, dove solo i malvagi o gli sconfitti possono avere dei principi. Di qua un mare magnum di inettitudine, bigottismo e sconforto, dove qualunque azione che tenti di arrestare il flusso dell’orrore risulta assolutamente ed inevitabilmente inefficace.

E dunque il film è sporco, violento (si perde il conto dei cadaveri), amaro e senza speranza, finanche privo di musiche (tranne per un piccolo complessino che suona in una situazione stramba) e le scene si rincorrono in un susseguirsi continuo di tensione e “pugni allo stomaco”. Non c’è scampo, non ci sono vie d’uscita, “There are no clean getaways”, recita appropriatamente il sottotitolo originale), il vinto non gode di alcun riscatto, nemmeno in punto di morte.
Eppure, in un quadro così sconsolante, in uno svolgimento così cupo, il finale riesce ad essere di rara poesia, una bellezza legata ancora ad una volta al sogno, una chiosa sul personaggio dello sceriffo, ormai in pensione, che lascia nel contempo sorpresi e soddisfatti.

Curioso come l’Academy abbia premiato un film così lontano dagli stilemi classici del cinema hollywoodiano, così destabilizzante di un certo modo di pensare il proprio mondo, negli Stati Uniti d’America, e che di certo esplica splendidamente quell’inquietudine di fondo dell’uomo occidentale moderno, sempre più stretto tra l’individualismo sfrenato e l’inevitabile necessità di riflettere sul proprio assetto sociale.
Va dato pertanto merito ai fratelli Coen di aver realizzato un lavoro tutt’altro che ruffiano o di facile consumo, e altrettanto all’Academy per il coraggio mostrato nel darne il giusto risalto.

Che sia proprio qui la ripartenza dell’asfittico cinema americano?

scheda film su IMDb

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Agli elettori mancini!

Consigli utili: come sopravvivere a B&B

(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 aprile da qui fino al 2013.)

  1. Evitare le trasmissioni televisive politiche.
  2. Darsi un’anima internazionale evitando con cura le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano e i primi 15 minuti dei telegiornali.
  3. Pensare il meno possibile.
  4. Evitare le vacanze in luoghi amministrati dal centro sinistra e dal centro destra; meglio starsene a casa.
  5. Molta natura: la natura funziona sempre, e soprattutto non l’ha inventata Berlusconi.
  6. Evitare le passeggiate per la pianura padana, lungo il Po e la Costa Smeralda.
  7. Trovarsi un hobby o uno sport non attinente con la cronaca politica. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci a B&B, potrebbero andar bene gli scacchi, la dama o i videogiochi.
  8. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull’Italia di oggi. Darsi alla letteratura. Imparare a ballare; per i balli di coppia scegliere partners che non siano di sinistra.
  9. Iscriversi a una stagione di concerti rigorosamente di musica classica; meglio la musica barocca che ti fa illudere di vivere in un Paese migliore.
  10. Per chi è single, trovarsi un fidanzato o una fidanzata, meglio stranieri, perché non pensano troppo a Berlusconi e non sanno chi siano Bossi o Maroni.
  11. Niente cultura. Leggere libri certo.  Meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale. Finisce che ti senti di nicchia.
  12. Attendere con pazienza; non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. E’ raro che a quell’ora telefoni Berlusconi. Provare a sorridere, nonostante tutto.

da “l’Unità” del 16 aprile 2008

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(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 Aprile da qui fino al 2013.)

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Bagnara

  • Piazza Aldo Moro: (Maglie, Lecce, 23/09/1916 – Roma, 09/05/1978)
    Politico. Deputato democristiano dal 1948, più volte ministro, segretario della DC (1959/65), presidente del Consiglio (1963/68), formò un governo di centro-sinistra con la partecipazione del PSI. Ministro degli Esteri (1969/74) e di nuovo presidente del Consiglio (1974/76). Dal 1976 presidente della Democrazia cristiana, venne rapito dalle Brigate Rosse il16/03/1979, mentre preparava l’allargamento della maggioranza al PCI. Dopo 55 giorni di sequestro, fu ritrovato ucciso in una vettura parcheggiata nel centro di Roma.
  • Via Volpi di Misurata: (Venezia, 19/11/1877 – Roma, 16/11/1947)
    Volpi Giuseppe. Imprenditore e politico. Fondatore della S.A.D.E. (Società Adriatica Di Elettricità, 1905), tristemente famosa per aver costruito la diga del VAJONT. A lui si deve anche la C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi).
    Nel 1919 ideò e avviò la costruzione del complesso industriale e portuale di Marghera stabilendo una proficua collaborazione con le strutture del regime fascista. Governatore della Tripolitania, regione della Libia, nel 1921/25, fu in seguito ministro delle Finanze (1925/28). Durante il ventennio fu insignito del titolo nobiliare di Conte della Misurata Abbandonati gli incarichi di governo, estese le sue attività imprenditoriali a diversi settori: fu inoltre presidente della Biennale di Venezia e tra i promotori del festival cinematografico. Dal 1934 presiedette la Confederazione fascista degli industriali. Arrestato dai Tedeschi dopo la caduta del regime fascista (1943), venne rilasciato dopo alcuni mesi di detenzione e si rifugiò in Svizzera dove svolse una certa attività antifascista che gli valse la simpatia degli U.S.A. e la conseguente riabilitazione politica. Il nome dell’industriale veneziano entrò a far parte dell’onomastica stradale del comune quando questa fu rinnovata nell’agosto del 1968 (Delibera del 28 agosto 1968), portando la motivazione di rendere la numerazione civica “più rispondente alle esigenze di oggigiorno”!
  • Via Vincenzo Monti: (Alfonsine, Ravenna 1754 – Milano 1828)
    Poeta e letterato. Frequentò l’università di Ferrara, ma fu a Roma, dove era segretario di Luigi Braschi, che la sua cultura assimilò le varie tendenze letterarie dell’epoca. Le capacità di verseggiatore appaiono già in luce nel poemetto “La bellezza dell’universo” nelle odi “La prosopopea di Pericle” e “Al signor di Mongolfier”.
    Alla discesa di Napoleone si trasferì a Bologna e poi a Milano, capitale della Repubblica Cisalpina. Fuggito a Parigi, divenne aperto sostenitore di Napoleone per cui scrisse numerose opere cortigiane: “Il bardo della Selva Nera”, “La Mascheroniana”, “Il Prometeo”.
    Caduto in disgrazia al ritorno degli Austriaci, nonostante alcune opere di carattere encomiastico, come “Mistico omaggio”, vide ridimensionata la sua fama. La facilità con cui Monti passò da uno all’altro genere da un tema all’altro e la superficialità con cui si offrì alle forze, di volta in volta dominanti in Italia, caratterizzano la sua fisionomia umana e letteraria. Poeta di ispirazione neoclassica, compose versi di armoniosa musicalità e limpidezza cristallina, ma raggiunse i suoi esiti migliori come traduttore dell’Iliade.
  • Via Ugo Foscolo: (Zante, isola greca, 1778 – Turnham Green, Londra, 1827)
    Poeta. Compiuti i primi studi a Spalato, dopo la morte del padre medico, si trasferì a Venezia (1792). Entrato in contatto con la parte culturalmente più progressista della società veneziana, maturò ideali libertari e giacobini; per la sua opposizione al governo cittadino dovette fuggire a Bologna dove pubblicò l’ode “A Bonaparte liberatore”. Tornato a Venezia alla caduta della Serenissima, con l’incarico di segretario del nuovo governo, rimase profondamente deluso dalla firma del trattato di Campoformido, che consegnava la città agli Austriaci.
    Costretto a fuggire a Milano dove conobbe V. Monti e G. Parini, cominciò a collaborare con giornali e riviste. Passato a Bologna continuò l’attività di pubblicista e scrisse il romanzo epistolare “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, romanzo largamente autobiografico, espressione di una profonda crisi esistenziale e filosofica. Successivamente ritornò a Milano dove pubblicò le odi “A Luigia Pallavicini caduta da cavallo” e “All’amica risanata” e 12 sonetti, tra i quali “Alla musa”, “Alla sera”, “A Zacinto”, “In morte del fratello Giovanni”; in essi le inquietudini della sua personalità si fondono in un rigoroso equilibrio formale e poetico. A Milano compose (1804-06) anche il carme “Dei sepolcri” in seguito all’editto napoleonico che proibiva la sepoltura nei centri abitati. Il poeta presenta una serie di considerazioni sul tema della morte e soprattutto su quello dell’immortalità legata al ricordo nei posteri del valore e della virtù, come testimoniano le tombe dei grandi Italiani sepolti a S. Croce a Firenze. Persa completamente la fiducia in Napoleone e cresciuti i dissidi con l’ambiente letterario milanese, si trasferì a Firenze dove avviò la stesura del poemetto “Alle Grazie”.
    Dopo la definitiva caduta di Napoleone, rifiutò l’offerta del governo austriaco di dirigere la rivista letteraria “Biblioteca italiana” e se ne andò esule volontario a Londra. Qui si dedicò soprattutto agli studi di critica letteraria che ne fanno uno dei maggiori critici ottocenteschi.

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