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Giovanni Daneluzzi

Anche in un paese piccolo come il nostro, si possono fare, inaspettatamente, incontri interessanti ed emozionanti, che lasciano sbalorditi, piacevolmente sorpresi; è quanto è accaduto con Giovanni Daneluzzi, classe 1904, nato a Giai, dove visse fino al 1978, noto a tutti con il soprannome di “Stucchi”, in chiaro riferimento alla sua attività di decoratore.

Naturalmente la mia, visto l’anno di nascita del nostro, non è stata una conoscenza diretta, ma mediata dal ricordo delle figlie, dal loro tributo d’affetto che le ha spinte a conservare, nella restaurata casa paterna, le testimonianze tangibili della sua passione di pittore autodidatta e di freschista ancora visibile in alcune stanze. La sua realizzazione più notevole, sotto questo punto di vista, è lo studio che è stato completamente affrescato, pareti e soffitto, con un effetto particolarmente suggestivo e straniante, perché inserito in una struttura peraltro moderna. Le pareti sono suddivise da cornici e da finte paraste in riquadri, decorati con effetto marmo; il soffitto poi ha un grande rosone centrale che racchiude in una struttura architettonica classicheggiante, la figura mitologica di Aracne, tutto intorno elementi decorativi vegetali che terminano in 4 medaglioni, uno dei quali contiene l’autoritratto del pittore, mentre i rimanenti, destinati ai ritratti degli altri componenti della famiglia, sono rimasti vuoti. L’opera risale al 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla luna.

Altri affreschi sono visibili sul soffitto di un bagno (qui la visione, non senza una punta d’ironia, a mio avviso, è celestiale) e di una stanza da letto.
Due suoi affreschi, rappresentanti Santa Dorotea e Agnese, si trovano poi nella cappella di Villa Ronzani a Giai. Alle pareti inoltre, moltissimi quadri dipinti nel corso della sua vita, tra cui spicca un autoritratto del 1930.
La pittura e la lettura furono le sue grandi passioni, coltivate sempre, ma con maggiore assiduità quando, con l’età, il suo lavoro di decoratore prima e di imbianchino poi (i tempi ed i gusti erano cambiati dopo la guerra!) non lo impegnava più; ma anche quando era ancora attivo, approfittava dei periodi di riposo forzato, dovuto all’inclemenza del tempo, per dipingere.

Iniziò a lavorare molto giovane in quel di Trieste e Venezia e fu impegnato nel restauro di palazzi, in cui venne a contatto con modelli decorativi e pittorici che poi riprodusse nella sua abitazione.
Coltivava le amicizie e spesso invitava a casa i compagni delle partite a carte domenicali ai quali mostrava orgogliosamente i suoi quadri, che amava a tal punto da non volerne vendere alcuno; al massimo li prestava.

Amico del  pittore Gigi Duz, da cui è stato ritratto (il quadro è ancora alla parete), era perfezionista e metodico nel disegno e traeva ispirazione soprattutto dalla realtà, ma anche dalle opere dei grandi pittori, come attestano i suoi affrschi e dalle numerose e varie letture a cui si dedicava. A questo proposito, soleva ripetere alle figlie “Con la fantasia e la lettura si va dovunque!”.

I tanti libri che riempiono gli scaffali dello studio sono ancora quelli che egli abitualmente comprava al mercato di Portogruaro ed attestano la sua curiosità e il suo  desiderio di conoscere; giocava agli scacchi e si impegnava con tenacia a risolverne i rebus. Le figlie completano il suo ritratto con una simpatica nota di colore, sottolineando la cura quasi maniacale che il padre riservava al suo abbigliamento che risultava così elegante e ricercato e che comprendeva sempre gilè, ghette e gemelli ai polsi, ribadendo in tal modo l’originalità e unicità del personaggio nell’ambito paesano.

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Il colpo della strega!

Da straniero, non conoscevo questa espressione ma mi è bastato ben poco per capirla: era sufficiente guardare la faccia del colpito e la sua posizione “sbilenca”.

In parole povere questa patologia si chiama “lombalgia”, ossia dolore nella zona lombare. Una definizione  molto generica che  comprende una notevole varietà di casi e gravità secondo le strutture responsabili di quel dolore e di quella posizione “storta”, che non è che una attitudine di difesa adottata dalla persona per  evitare di  soffrire, per quanto sia possibile.

Spesso il paziente non solo soffre, ma è anche molto inquieto perché ha sentito parlare, e sparlare, di ernie al disco e di intervento chirurgico. Questo articolo tenterà di chiarire le idee spesso sbagliate non solo della gente, ma purtroppo anche di molti medici che di conseguenza non riescono ad indirizzare verso la cura corretta.

Per prima cosa, il dolore: da cosa è causato? Semplice: da un malfunzionamento delle strutture della colonna. Il malfunzionamento può essere il risultato di una struttura alterata dall’artrosi  oppure da uno spostamento anomalo del disco che si trova fra le vertebre. Anche uno spazio ridotto fra due vertebre può ugualmente provocare il dolore. Perciò ci sono delle cause sia strutturali sia biomeccaniche che, come conseguenza, irritano le strutture nervose che fuoriescono dalla colonna.

Se l’irritazione è relativamente leggera, il dolore rimane localizzato alla schiena. Se invece un nervo viene colpito e s’infiamma, il dolore si propagherà nella zona di cui esso è responsabile. La più famosa infiammazione è quella del nervo sciatico che provoca dolore dietro la coscia e si propaga sulla fascia laterale esterna della gamba. Non è raro che un movimento della schiena provochi uno spostamento anomalo del disco e non è nemmeno raro che questo disco, dopo aver urtato il nervo corrispondente, torni al suo posto fisiologico. Di conseguenza, la persona presenta una sciatica, senza alcun blocco vertebrale, settimane dopo aver sentito certo un dolore acuto ma senza essere mai stato impedito nei movimenti. In generale però, le persone che soffrono di mal di schiena adottano una postura assai storta. La cura medica è praticamente sempre la stessa: una buona dose di antinfiammatori associati ad un rilassante muscolare senza alcuna visita clinica per scoprire il livello in crisi. Se non funziona, si passa al cortisone e se non passa ancora, alla visita ortopedica, alle radiografie di vario tipo.

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Delle maestre di una volta…

In questo periodo dell’anno mi vengono in mente un sacco di proverbi e modi di dire.
Sarà perché è primavera e, si sa, non esistono più le mezze stagioni oppure è piovuto per un mese, sia sulle palme che sulle uova; forse perché siamo in campagna elettorale e qui i luoghi comuni si sprecano o semplicemente perché, disillusa e di mezza età, non trovo grandi cose da dire che non siano frasi fatte.
Una cosa che ho sentito dire in questi ultimi tempi è che “non ci sono più le maestre di una volta”. Pare che vada forte. Soprattuttotra le madri, padri, nonne e nonni di bambini in età scolare, che non posso esimermi dal frequentare visto che ne ho due anch’io. Sarà proprio così? Allora mi abbandono a qualche ricordo.
Io rammento bene la mia maestra; ovviamente parlo di un esemplare risalente a più di una trentina di anni fa, quindi sicuramente rientra nella succitata categoria.

La mia Maestra (con la maiuscola, allora era così) era una vera signora.
Di mezza età (mi sembrava a quel tempo, ora facendo i calcoli doveva essere più giovane di me adesso) era bella, elegante anche sotto il suo grembiule, scarpe col tacco e calze fine anche nei giorni della merla, unghie smaltate di rosso, pettinata, truccata e soprattutto profumata. Ricordo a malapena il suo nome ma il suo profumo sì. Quando giocavo alla scuola mi impiastricciavo di cera di cupra della mamma per imitarne l’odore.
Lei era una dea, un essere soprannaturale, onnisciente ed onnipotente.
Lei non camminava, fluttuava. Lei non parlava, cantava. Lei non piantava la classe per bere il caffè con le colleghe, evanesceva. Lei non ti dava potenti scapaccioni e umilianti punizioni, sapeva mantenere la disciplina. Lei non lavorava a maglia durante le lezioni, creava. Lei non stava tre mesi in vacanza, si godeva un meritato riposo.

Tuttavia, a ben pensarci, a scuola si faceva Q.B cioè quanto basta, come nelle ricette di cucina.
Due quadernetti mignon, cartelle che non ti facevano certo venire la scoliosi, stilografica, carta assorbente, sei pastelli e, per i più fortunati i pennarelli, bene di lusso che potevano durare tutto l’anno iniziando ad “allungarli” con alcool dopo natale.
Le attività scolastiche erano come i farmaci, da banco, nel senso che si stava seduti e zitti; sono arrivata troppo tardi per le aste ma in tempo per i dettatini a sfondo ortografico-aneddotico-stagionale. Le ore di religione si esaurivano con le poesie per i defunti, natale e pasqua, la storia stile “leggi-ripeti” e la geografia coi nomi a memoria. Gli asinelli in ultimo banco. Fine della storia.
E così siamo cresciuti; un’intera generazione che ha colmato lacune in età matura, senza grosse pretese ma neppure grossi traumi e con l’idea che non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice; cioè con la giusta dose di sane frustrazioni e il senso dei limiti.
Oggi non ci sono proprio più le maestre di una volta; assistiamo alla caduta delle dee.

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Metti una mattina a scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

7:55. prima campanella. Ancora nessuno all’orizzonte. 8:00. Seconda campana. Una mandria di giovani colorati si riversa in classe, sulle spalle l’Eastpack, in mano l’amato espresso della macchinetta.
Tra i visi assonnati si può già scorgere il terrore del compito della quinta ora, quel terrore che si prova quando si sa di non sapere.

Per fortuna a scuola, almeno in quella, ci si aiuta ancora.
Un matematico impertinente spiega ad un capannello di compagni la formula della circonferenza; un altro decanta Parini; una compagna declina gli aggettivi in tedesco.
Pian piano le menti si animano, i pensieri cominciano a vorticare sempre più veloci.
Le matite fremono, i cancellini indugiano; si pongono domande, si danno risposte.

Oggi in Italia è successo qualcosa di importante. Allora si alzano le mani, i toni si scaldano, sbuffi salgono qua e là come i vapori di una locomotiva; non è vero che ai giovani italiani la politica non interessa; noi ne parliamo eccome. Purtroppo però non se ne capisce granché…

Le lezioni vanno avanti, alcune lente, altre veloci. Ora a scuola si può ridere. Si ride di una battuta di un compagno, del nome assurdo di qualche filosofo medioevale, della bidella che entra correndo. Però si ride. Lo trovo molto bello.

Suona la 5°ora. Dalla retrovie si alzano scongiuri alla martire via, si implora pietà. Nulla da fare: questo compito s’ha da fare.
Le teste si chinano. Ci si avvicina più che si può per farsi coraggio e copiare quella data lì.

Scriviamo, sempre più veloci scriviamo. A volte, scriviamo per quei professori per cui abbiamo passato pomeriggi interi a studiare, per quei professori che ti fanno stare in bilico sulla sedia perché ciò che stanno facendo non è propinarci dati di carta bensì regalarci il loro sapere nella miglior confezione possibile.

Suona. Si consegna.
Si infilano i cappotti le cartelle si chiudono.
La mandria di giovani dai sogni troppo grandi se ne va.
Senza chiudere la porta.

Sara Andreini

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La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

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Tiziano: ultimo atto

Dal 15 settembre 2007 al 6 gennaio 2008 a palazzo Crepadona a Belluno si tiene la mostra “Tiziano: ultimo atto”, in cui la città rende omaggio al suo artista più illustre, il genio della pittura rinascimentale nato a Pieve di Cadore e qui tornato proprio negli ultimi anni della sua lunga vita, quando i grandi d’Europa si contendevano le sue opere ed egli aveva deciso di riorganizzare la propria bottega tra Venezia e Pieve di Cadore.
Ultimo atto perché quest’esposizione si concentra sugli ultimi anni di vita del pittore. La mostra infatti inizia con il documento che attesta la morte di Tiziano.
Interessante è capire il motivo di questa scelta; è molto semplice: nell’ultimo periodo lo stile di Tiziano cambia radicalmente e cambia radicalmente anche il suo modo di vedere la vita .

Per capire meglio bisogna partire dall’inizio; la pittura di Tiziano affonda le sue radici nella pittura tonale veneziana, il pittore è infatti allievo a Venezia di Gentile e Giovanni Bellini e si avvicina infine a Giorgione, accanto al quale è impegnato nel 1508 nella esecuzione degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Mostra subito segni di indipendenza nei confronti dei suoi maestri, pone a frutto la calma e ferma partitura cromatica di Giovanni Bellini e la modulazione dei toni di Giorgine, attinge un’intensità di colore steso in dinamici contrasti di piani larghi, con la quale afferma una chiarezza nella definizione dei corpi e delle espressioni. Nell’esecuzione (1516-1518) dell’Assunta dei Frari, la sua prima clamorosa affermazione pubblica, esprime carica vitale dei toni ed esprime la visione di un mondo di bellezza armoniosa nel pieno del suo rigoglio e in gara esaltante con la natura.
Da questo momento in poi la sua fama cresce ed entra in rapporto con le più illustri corti italiane. Colore e luce: sono questi i due elementi fondamentali e il segreto dell’arte di Tiziano, in gioventù come in vecchiaia; Tiziano usa il colore come materia che “fa” il quadro.

La pittura degli ultimi anni si differenzia perché vi è una resa dei conti con la vita. Tiziano ha un’interpretazione non più armonica ma drammatica della realtà, di un’inquietudine spirituale che prima non turbava la sua visione limpida e serena dei destini umani.

Una densità materica che invade la scena e riempie gli spazi; una pennellata grossa e sporca; una luce particolare e intensa si sostituisce alla maniera luminosa e tonale del periodo giovanile. Tiziano giunge così alla disgregazione del tessuto disegnativo e plastico delle figure, attraverso un personalissimo e impegnativo modo di dipingere che lo vede tornare e ritornare sulle sue opere, alla ricerca di un’intensità psicologica prima impensabili.

Ecco la nuova poetica di Tiziano. Il suo ultimo atto.

Come uno scultore che modella la creta, lui stende sulla tela i pigmenti con i polpastrelli; lavora con guizzi di luce che vibrano da dentro il quadro; non definisce le forme e dà un ricercato senso di incompiutezza, quasi ad esprimere l’angoscioso interrogativo del suo animo insoddisfatto, fino all’abbandono di ogni naturalismo.
Restano solo il sentimento, la segreta partecipazione emotiva, i bagliori di un artista disincantato di fronte alla morte.

Per maggiori informazioni: www.tizianoultimoatto.it

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Mille anni di storia e arte nelle chiese di Venezia, maggio-ottobre 2007

Luisella, Gioia e Gigliola sono sempre “a caccia” di idee e iniziative da proporre ai propri amici e soci.
Immagino che durante una delle loro riunioni serali del martedì Gioia abbia lanciato la proposta di organizzare una serie di uscite giornaliere a Venezia per visitare le chiese del “circuito Chorus”.

Gioia da tempo collabora con “Dimensione Cultura”, la mia associazione che ha sede a Concordia Sagittaria, ed ha pensato di coinvolgermi nell’iniziativa sapendo che da qualche anno sono impegnata nello studio dell’immenso patrimonio storico-artistico della Serenissima Repubblica veneziana.
Una volta steso il calendario e sottoposto all’attenzione dei soci sono arrivate subito le adesioni. Tutto confermato: si faranno quattro uscite il sabato a partire dal mese di maggio, per concludere ad ottobre.
“Chorus” è un’associazione veneziana impegnata nella gestione e valorizzazione di alcune delle più importanti chiese di Venezia.

Sono ben sedici gli edifici sacri compresi nel “circuito Chorus”: noi li abbiamo divisi con un criterio territoriale, nei sestieri veneziani. Le nostre uscite infatti non hanno avuto solo lo scopo di conoscere le chiese, ma sono state anche l’occasione di passeggiare con tranquillità, tra amici, per chiacchierare e gustare angoli veneziani più o meno conosciuti.

Sabato 19 maggio ci siamo trovati alla stazione ferroviaria di Portogruaro per partire insieme. Dopo una prima fase di presentazioni e di “controlli” da parte di Luisella, perfettamente organizzata nella gestione di biglietti e prenotazioni, siamo partiti per la nostra avventura…
Le chiacchiere piacevoli durante il viaggio in treno mi hanno permesso di conoscere l’associazione “La Ruota” e di cominciare ad entrare in confidenza con il gruppo; una confidenza che è diventata amicizia nel corso delle successive uscite.

Durante la prima escursione non abbiamo camminato molto in quanto le quattro chiese visitate sono le più significative del sestiere di Cannaregio.

La rinascimentale San Giobbe che custodisce un’opera unica nel suo genere a Venezia: la cupola in terracotta della cappella Martini realizzata dal toscano Luca della Robbia.

La chiesa di Sant’Alvise esempio di architettura gotica conventuale e custode di tre importanti opere di Giambattista Tiepolo con scene della passione di Cristo.

La terza tappa ci ha portato alla chiesa della Madonna dell’Orto, non lontano dalle Fondamenta Nuove affacciate sulla laguna nord; si tratta di uno degli esempi più celebri dell’architettura gotica veneziana e la sua fama è ulteriormente accresciuta dalle opere pittoriche che conserva. Credo che il dipinto più emozionante sia l’enorme pala di Jacopo Tintoretto con la Presentazione della Vergine al tempio, dai caldi e vibranti effetti luministici.

Dopo il momento conviviale del pranzo, una breve camminata ci ha portato di fronte alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, uno splendido scrigno rivestito di marmi policromi e raffinate sculture: indubbiamente uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale realizzati in città dalla bottega dei Lombardo, architetti e decoratori del secolo XV.

Il gruppo degli appassionati si è ripresentato puntuale sabato 16 giugno, ancora ignaro della lunga passeggiata che avrebbe fatto.

Arrivati alla chiesa di Santo Stefano, abbiamo potuto osservare solo l’esterno dell’edificio in quanto stava per iniziare la celebrazione di un matrimonio. Siamo comunque entrati per la visita dell’interno nel corso dell’uscita di ottobre: non potevamo tralasciare la sagrestia della chiesa con le tele di Jacopo Tintoretto.

Dopo aver fatto tappa nella chiesa di Santa Maria del Giglio, fastoso esempio di architettura barocca del XVII secolo, un altro matrimonio ci ha bloccato all’ingresso della chiesa di Santa Maria Formosa. Nessun problema, abbiamo continuato la camminata fino all’isola di San Pietro di Castello, all’estremità est di Venezia per visitare l’omonima chiesa, importante nella storia della città in quanto è stata per secoli sede vescovile. E’ piaciuta l’atmosfera del sestiere di Castello, che alcuni non conoscevano, in quanto meno turistico e più “veneziano”.

Dopo la pausa pranzo conclusa con un fresco gelato, invece di rientrare con il vaporetto come previsto, ci siamo rimessi in marcia per fare di nuovo tappa, sulla via del ritorno, a Santa Maria Formosa, una delle opere architettoniche più celebri dell’architetto rinascimentale Mauro Codussi.

L’escursione fatta alla fine di settembre è stata la più impegnativa, per il numero e per l’importanza delle chiese.

Dopo un caffé ed una breve camminata siamo entrati nella chiesa di San Giacomo dell’Orio per ammirare in particolare il ciclo realizzato Jacopo Palma il Giovane nella sacrestia vecchia.

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35 scatti per 10 giorni in Cina: “Qilu International Photography Week”

Circa 2300 anni fa, in Cina, viveva un certo Mo-Tse.  Ricercatore ed inventore, scrisse un libro (Mo Jing) che conteneva il risultato delle sue osservazioni. Quest’anno, la Cina attraverso l’APS (Artistic Photographic Society of China) ha voluto rendere omaggio a quel personaggio che, in sostanza, ha scoperto il principio della fotografia. è nata così la Qilu International    Photography Week.

Quest’estate, ad Arles in Provenza, ho avuto l’opportunità di mostrare i miei lavori ai due responsabili per la selezione degli autori occidentali da ospitare in Cina, fra cui Ren Shugao. Mi sono perciò ritrovato a Pechino il 20 di settembre, “graziosamente” invitato assieme ad altri 8 fotografi fra cui il presidente della PPA (Professional Photographic Association degli USA) e un suo collega; Serge Assier, fotogiornalista francese; il direttore e vice della rivista francese Phot’Art International; Christian Devers, un Belga specializzato in fotografia digitale; il bravo fotografo inglese Paul Kenee e il nostro simpatico Silvano Monchi, accompagnato dalla moglie, per incominciare la visita di una parte dell’immenso Paese.

Siamo stati trasferiti, via aerea, da Pechino a Jinan, lontana 400 km, per poi continuare il viaggio in pullman, ospitati in alberghi di lusso.
Le giornate, lunghe 16 ore, ci hanno permesso di conoscere vari aspetti della Cina spesso in drastica opposizione: il cantiere dei prossimi giochi olimpici, vero formicaio brulicante di centinaia di migliaia di operai, assieme ai luoghi di nascita di Mo-Tse e Confucio, villaggi modesti, spersi in mezzo alle montagne. Nell’occasione, si passava da uno smog da tagliare col coltello ad un’aria decisamente campagnola, dall’asfalto polveroso ai sottoboschi, pieni di scorpioni.

Le nostre giornate erano marcate da cene esotiche quanto abbondanti, offerte dalle più alte autorità politiche. Con naturalezza, la tartaruga bollita veniva proposta accanto a cicale arrosto, pelle di pesce in gelatina o zampe di gallina affumicate.
L’anitra laccata seguiva la carpa con maiale, pare piatto favorito di Mao, e il tè verde era dimenticato a forza di decine di “kampei” con birra o vino, l’obbligatorio e cerimonioso brindisi adattato a qualunque argomento.

La mostra a Jinan ci ha lasciato senza fiato: 18.000mq e migliaia di immagini, l’Italia era rappresentata dalle 40 immagini di reportage di Silvano Monchi, dai miei 35 nudi in bianco e nero stampati in loco 1 x 0,8m, assieme alle immagini naturalistiche della lega fotografica italiana ed alle singole immagini di Giuricin, Tomelleri, Cartoni, Materassi e Calosi.

Ogni autore invitato all’inaugurazione vedeva le sue immagini esposte su circa 30 metri di parete con tanto di presentazione e ritratto.  La fotografia cinese non ha molto da invidiarci sia dal punto di vista artistico che tecnico. Spazia, senza timori di fare brutta figura, dal descrittivo all’artistico, in b\n  o a colori, dall’immagine classica di Lu Jun a quella con divertenti sovrapposizioni grafiche di Mu Tangjuan, senza dimenticare le inquadrature paesaggistiche concettuali di Li Ruiyong.

Insomma un bel confronto che toglie ogni ombra di confine qualitativo fra le nostre civiltà.

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Federico Tavan

Maledeta chê volta

Maledeta chê volta
ch’ài tacât a scrîve
no parceche
al é mal scrîve
ma parceche
era maledeta chê volta
che ère belsoul
e vaîve
e par chist
‘e scrivêve.

Maledetta la volta

Maledetto il giorno/in cui ho cominciato a scrivere/ non perchè/ sia male scrivere/ ma perchè/ era un giorno maledetto/ quello in cui ero solo / e piangevo/ e per questo/ scrivevo.

Ninuta

Lu farêstu l’amour
cu li mê poesies ?
Cuala te plàse de pì ?
Cun cuala te plasarèssal
zî pì volanteir a liet?
Cuala al gjolde
cuala no postu fâ de mancu,
cuala da nicjulâ
coma un orsut de piecja
o da portâ al mar dentre na valisuta ?
Cuala da mostrâ a li amighes?
Cuala da carecjâ cuala da bussâ ?
cuala un ditalìn cuala’na picjàda
de nascondon. Ninuta
favelanse clâr
me soi rot li bales.

Ragazzina

Lo faresti l’amore/ con le mie poesie?/ Quale ti piace di più?/ Con quale ti piacerebbe andare più volentieri a letto?/ Quale  il godere/ quale non puoi farne a meno,/ quale da cullare/ come un orsacchiotto di pezza/ o da portare al mare dentro una valigetta?/ quale da mostrare alle amiche?/ Quale da accarezzare quale da baciare/ quale un ditalino  quale un pizzicotto/ di nascosto. Ragazzina/ parliamoci chiaro/ mi sono rotto le scatole.

da: “Augh!” – Edizioni biblioteca dell’immagine – Circolo culturale Menocchio

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Delle “invasioni barbariche” (ovvero, nuove forme di povertà)

Essendo donna e lavoratrice (pensate quante cose si possono fare a questo mondo) ogni mattina inforco la mia utilitaria, vado al lavoro e accendo la radio, tanto per non prender sonno al primo semaforo.

L’altro giorno, una botta di vita. Dal profondo del mio stadio larvale, sento una notizia effetto sveglia. Un intelligentone, pare pure al governo del suo territorio, dice che per ogni torto subito da un cittadino italiano, dieci extra comunitari dovrebbero venir puniti (mancava solo un “Ja wohl!” per connotare meglio il suo intervento).

In un primo momento resto allibita, dopo penso se indignarmi o no, perché esternazioni del genere non si dovrebbero neppure commentare, visto che non han senso di esistere. Poi, quando nei successivi tre chilometri rischio di tamponare più volte l’auto di fronte a me, decido di indignarmi: riguardo certe cose non si può far finta di niente. Toccano corde profonde nel cuore e nel cervello.

Mi lascio quindi andare ad alcune riflessioni di tipo politico (ma chi l’avrà scelto questo individuo?), religioso  (non esiste una giustizia divina che fulmini all’istante chi proferisca parole del genere?) e legale (non esistono i crimini umanitari?).

Secondo questa corrente di pensiero dobbiamo guardarci dalle invasione del barbaro straniero. Siamo forse alle soglie di un nuovo Medioevo? L’impero sta andando a rotoli? Meno male che c’è chi ci illumina, ci protegge e ci guida. E soprattutto trova capri espiatori.

Crolla l’economia? Colpa dei cinesi. Aumenta la criminalità? Colpa degli albanesi e rumeni. La famiglia va a catafascio? Colpa degli omosessuali. Si surriscalda il pianeta? Colpa degli eschimesi….
Caro amico della porta accanto, guarda che c’è qualche cosa che non va. Troppo facile e comodo cadere in queste mistificazioni. Non offendiamo l’intelligenza delle oneste persone. Andiamo oltre.
Viviamo sicuramente nella società del benessere, ma siamo molto vulnerabili sul piano dell’educazione emotiva. Percepiamo forme di malessere intorno a noi, c’è carestia di valori, di significati e di sicurezze. In questo senso sì ci troviamo di fronte ad un nuovo Medioevo e posso capire che, come le streghe all’epoca, si cerchino i responsabili in chi è più esposto ed emarginato; ciò accade perché sta emergendo una nuova forma di povertà non economica ma più pericolosa: quella emotiva, relazionale e culturale.

La fiducia nell’altro è lacerata perché si sono interrotti i canali comunicativi più importanti, cioè quelli che si basano sul concetto di accettazione; manca la volontà di rispettare come interlocutore chiunque, soprattutto chi è diverso, perché riconoscere i bisogni degli altri, significa ridimensionare i propri. Si è stabilita invece una relazione basata sull’imposizione di autorità e forme di potere  in risposta ad episodi di violenza che comunque vanno condannati. Ma chi delinque lo fa perché assume comportamenti errati e non perché è cinese, albanese, rumeno, omosessuale o, peggio ancora, eschimese.

I conflitti vengono risolti trincerandosi in biechi meccanismi di difesa come l’accusa o la generalizzazione reciproche, non si accetta più la mediazione che salva e dignifica le individualità a confronto.

E perché?

  • E’ difficile comunicare perché significa uscire dal proprio egocentrismo.
  • E’ difficile comunicare perché le proprie sicurezze entrano in crisi.
  • E’ difficile comunicare perché significa cambiare, cosa che all’essere umano costa fatica e frustrazione.

Perciò quando sentiamo certe “sentenze” dette, fatte, mostrate ogni giorno in ogni luogo, non affrontiamole con superficialità o peggio indifferenza. Indignamoci, perché l’indignazione viene da dentro ed è solo dentro di noi che possiamo trovare  gli strumenti per modificare le cose.

Come ha detto di recente qualcuno che di questo se ne intende: “il vero nemico non è molto lontano, spesso è seduto sul divano di casa tua … e non ha gli occhi a mandorla”.

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