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A colloquio con un viaggiatore… Etiopia

Conosco Guido Rossi da sempre e, prima di lui la sua famiglia, ma era una conoscenza superficiale, che nasceva dalla contiguità e non dalla frequentazione, per cui sapevo che studi aveva fatto, conoscevo la sua passione per il Milan, mi appariva come una persona cordiale e riservata, ma nulla più. Mi era giunto sì all’orecchio di alcuni suoi viaggi in altri continenti, ma pensavo nascessero, come per la maggioranza, da un fatto di moda, dal gusto per l’esotico, o concretamente dal fatto che andava in ferie in periodi in cui queste mete diventano particolarmente appetibili; poi la svolta: alla ricerca di materiale per il giornale, su indicazione di un’amica comune, ho fatto con lui una lunga chiacchierata sul suo ultimo viaggio in Etiopia, ed allora mi sono trovata davanti ad un viaggiatore autentico, con i suoi appunti di viaggio, attento a ciò che aveva visto, desideroso di capire più che di giudicare, pronto a cogliere l’autenticità dell’esperienza fatta. Innanzitutto mi ha incuriosito la meta prescelta, l’Etiopia e alla mia domanda egli mi ha risposto che la scelta era stata determinata dal fatto che a lui interessa il passato più che il presente ed in particolare tutto ciò che riguarda l’uomo ed il suo rapporto con l’ambiente, i suoi costumi, i suoi modi di vivere.

Avevo letto -racconta Guido- di come nell’Etiopia meridionale, vivessero delle etnie che avevano mantenuto le loro peculiarità, per dire così primitive, che non si erano assimilate alla maggioranza della popolazione etiope neanche nella lingua; inoltre volevo vedere la mitica “Lucy”, l’ominide ritrovato nel Gondar ed esposto al museo di Addis Abeba. La mia avventura è partita proprio da questa città, che mi è apparsa come un agglomerato enorme, (è infatti la seconda città africana dopo il Cairo) inquieto, contraddittorio, dove accanto a palazzi di foggia occidentale in cemento, ci sono baracche e baracche in lamiera, dove non c’è traccia di fognature. Tuttavia l’impressione generale che ho avuto è stato quello di una città ordinata e pulita. Impressionante ho trovato poi il mercato, che si estende su una superficie di 3 km quadrati e che mi si è presentato come una bolgia infernale per il frastuono enorme che vi regna, ma che al tempo stesso mi ha affascinato per la molteplicità e varietà dei colori.
Da Addis Abeba, con la guida e due compagni di viaggio, mi sono spostato di circa 6-700 km verso sud, verso il Kenia e il Sudan, in direzione della Riftey Valley, toccando il lago Longano, Abaya, Chamo, utilizzando strade dritte e lunghissime, percorse da tanta gente a piedi, attraverso territori incolti, sostando in campi attrezzati con tende come quello del parco Mago.

La prima etnia che ho incontrato è stata quella Dorze, i cui villaggi sorgono a  circa 2000 m. di altitudine e sono costituiti da capanne altissime (10 m. circa), fatte con foglie di banano, molto resistenti, mobili. I Dorze sono dei bravi tessitori di cotone; tutti, uomini e donne, fumano, servendosi di pipe lunghissime.
Anche qui ho visitato il mercato e ciò che mi ha colpito è stato vedere in vendita, accanto ai cereali tradizionali, granoturco e sorgo, e alle bucce di caffè, taniche di plastica.
Quest’ultime, di provenienza, a detta della guida, cinese, sono  usate dalle donne per attingere l’acqua;  il che mi ha fatto fare alcune considerazioni sulla globalizzazione.

Abbiamo incontrato poi i Conso, che mi sono parsi più “civilizzati” degli altri e che sono stati gli abili artefici del terrazzamento dell’altipiano dove coltivano, ancora oggi, sorgo e granoturco. Interessante mi è parsa la loro organizzazione sociale e la conseguente suddivisione dello spazio all’interno del villaggio; infatti qui esistono i cosiddetti recinti familiari, gruppo di capanne all’interno di un recinto appunto, chiuso da un cancello rudimentale  che accolgono i vari clan. In questi villaggi ci sono capanne con diverse funzioni, quella più grande accoglie le donne dopo che hanno partorito  e qui vengono accudite per circa una settimana.

Spostandoci verso il Kenia, abbiamo incontrato la popolazione Banna, le cui donne si adornano braccia e collo di perline multicolori con un effetto visivo particolarmente piacevole. Una difficoltà nei contatti con queste etnie era rappresentato dalla lingua: ognuna di loro ne aveva una sua e non tutte comprendevano l’amarico.

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Non solo calcio…

Amo ogni tipo di sport, perché mi piace misurarmi con me stesso, mettermi alla prova, soddisfare, se è possibile, il mio desiderio d’avventura, o fare esperienze inconsuete. Spesso ho perseguito questi obiettivi con caparbietà, incurante delle mie condizioni fisiche e con un certo amore per il rischio. In questa mia sete di sperimentare tutto sono approdato alla canoa quasi per caso, spinto da un gruppo di amici fiorentini, con i quali avevo fatto il progetto (mai realizzato) di percorrere, in canoa naturalmente, il tratto Venezia – Trieste.

Con un amico però, su una canoa canadese, ho disceso il torrente But da Paluzza facendo… naufragio (e non è stato il primo); è stata poi la volta del Cellina dove ho dovuto fare i conti con difficoltà anche di 3° grado; ed ancora del Lago di Barcis, dove ho percorso un fantastico canyon con relativa cascata. Ho anche partecipato a 3 campionati italiani di handycayak, ottenendo qualche discreto risultato. Dopo questa prima fase “eroica” mi sono accorto che non era tanto la competizione che mi interessava, quanto le possibilità che mi offriva la canoa come mezzo di trasporto versatile e maneggevole: potevo pagaiare con altri, penetrare in ambienti diversissimi tra di loro, spaziare dal torrente di montagna con i suoi salti, al fiume placido di pianura, alle acque immobili delle valli e delle lagune (consiglio a questo proposito il percorso Portogruaro – Caorle), sempre in silenzio, attorniato dal solo rumore dell’acqua, pronto a cogliere gli stimoli che vengono dall’ambiente circostante, con possibilità di guardare e di pensare.

Ho trovato una risposta adeguata a queste mie nuove istanze in una manifestazione “Il Sile per tutti”, nata ormai 17 anni fa, aperta a tutti, abili e disabili; ed è stato proprio il fatto, che l’iniziativa facesse leva  su questo concetto di uguaglianza e di pari opportunità offerte a tutti, che mi ha affascinato e mi attrae ancora in modo particolare, tanto che ho coinvolto, in questa mia passione, familiari ed amici, arrivando al punto di riuscire a trascinare con me, negli anni, fino a 200 persone. Il partecipare a una manifestazione come quella citata, non competitiva e che ha il sapore di una festa sull’acqua, può essere un modo buono per avvicinarsi a questo sport, per conoscerlo da vicino, poi uno può decidere di coltivare la disciplina anche a livello agonistico o come meglio crede. A questo scopo segnalo che a Portogruaro esiste un “Canoa Club” a cui è possibile fare riferimento.

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Saperi-Sapori

Si è aperta con un’iniziativa legata al cibo, il 16 dicembre 2005, il 2° anno di attività de “La Ruota”. L’appuntamento era inserito nel ciclo di iniziative dal titolo “Saperi Sapori” e ricadeva nell’ambito dei “saperi”. Nel corso della serata il cibo è stato investigato dai due relatori, dr. Renzo Gelisio, diabetologo, e dott.ssa Francesca Cordaro, tecnologa alimentare, come fattore di salute e oggetto di scelta consapevole; infatti si è parlato essenzialmente di stili di vita e di corretto consumo e i due relatori hanno insistito molto sulla necessità di vivere e consumare in modo più sobrio e responsabile. Il dr. Gelisio ha posto l’accento soprattutto sull’importanza del moto che, coniugato con una dieta adeguata, riduce sensibilmente i rischi sempre più diffusi di malattie del metabolismo quali diabete e colesterolemia; acutamente poi la dott.ssa Cordaro ha focalizzato l’attenzione sulla corretta conservazione dei cibi, che se non viene rispettata, può incidere sulla salute pubblica molto più di quanto possano fare la “mucca pazza”, o “l’influenza aviaria”, spauracchi agitati con insistenza dai media. Calorosa e sentita è stata la partecipazione del pubblico, particolarmente a suo agio nell’atmosfera informale e familiare che si era creata, che ha posto molte domande ai relatori, aprendo nuove prospettive e offrendo molti suggerimenti per dibattiti futuri.

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Si è aperta con un’iniziativa legata al cibo, il 16 dicembre 2005, il 2° anno di attività de “La Ruota”. L’appuntamento era inserito nel ciclo di iniziative dal titolo “Saperi Sapori” e ricadeva nell’ambito dei “saperi”. Nel corso della serata il cibo è stato investigato dai due relatori, dr. Renzo Gelisio, diabetologo, e dott.ssa Francesca Cordaro, tecnologa alimentare, come fattore di salute e oggetto di scelta consapevole; infatti si è parlato essenzialmente di stili di vita e di corretto consumo e i due relatori hanno insistito molto sulla necessità di vivere e consumare in modo più sobrio e responsabile. Il dr. Gelisio ha posto l’accento soprattutto sull’importanza del moto che, coniugato con una dieta adeguata, riduce sensibilmente i rischi sempre più diffusi di malattie del metabolismo quali diabete e colesterolemia; acutamente poi la dott.ssa Cordaro ha focalizzato l’attenzione sulla corretta conservazione dei cibi, che se non viene rispettata, può incidere sulla salute pubblica molto più di quanto possano fare la “mucca pazza”, o “l’influenza aviaria”, spauracchi agitati con insistenza dai media. Calorosa e sentita è stata la partecipazione del pubblico, particolarmente a suo agio nell’atmosfera informale e familiare che si era creata, che ha posto molte domande ai relatori, aprendo nuove prospettive e offrendo molti suggerimenti per dibattiti futuri.

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Lionello Fioretti

Il mulino scomparso di Stalis

Ormai il rovo e la vitalba
aggrediscono la pietra angolare,
lattine e membrane di politene
hanno singulti in una strozzatatura d’acque:
sarà possibile ancora uscire
nel focolare invernale del tramonto
quando una vampa tenta di lambire
fascine di frassini intorpiditi d’edera?
Sarà possibile nell’ora tumescente
dove i viottoli e le passerelle
scivolando incerti
conducono alla macina scomparsa della memoria
smascherare il vuoto
d’orma galleggiante
barca piatta di fiume
senza passeggeri e senza voci?
esiste già nei volti
la vertigine d’ombra
che davanti e dietro
accompagna il Lemene
che scorre senza bisbigli di rive.
A chi pagherò la tassa sul macinato
quale mugnaio abbagliante di bianco
farà riapparire in un lampo nel setaccio
gli sguardi che amammo?

Granello di farina
piuma di cincia
respiro affievolito
curva d’orbita galassia
ciglia di giunco
Vibratile nell’iride dell’acqua.

Lionello Fioretti

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Giorno della memoria (*) 2006

Il 4 febbraio 2006, presso la sala comunale, l’associazione culturale “La Ruota”, ha voluto ricordare la Giornata della memoria, con la presentazione del libro “Il cielo di cenere”. Ed. nuovadimensione.
Il testo raccoglie la testimonianza, raccontata con semplicità, di una ragazza di paese sopravvissuta alla deportazione nei lager nazisti.
Alla serata erano presenti la curatrice del libro, la prof.ssa Imelde Rosa Pellegrini e la sua protagonista, la signora Elvia Bergamasco, ora quasi ottantenne.
E’ stata lei a catalizzare l’attenzione del numeroso pubblico, con una narrazione di fatti drammatici, priva di astio e risentimento nei confronti di chicchessia; la sua storia è quella di una giovane friulana che viene travolta dai tragici avvenimenti che sconvolsero l’Italia nel 1943. Operaia in una fabbrica di esplosivi viene denunciata da una spia, come collaboratrice della Resistenza e per questo condannata ai lavori forzati nei campi nazisti. A lei toccherà l’orrore di Auschwizt.
Elvia con un linguaggio spontaneo e senza artifici, è riuscita a trasmettere ai presenti grande partecipazione e commozione per le tragiche vicende da lei vissute; ha autografato molte copie del suo libro e ha risposto volentieri alle domande che le sono state rivolte.
Possiamo dire che la serata ha conseguito il suo scopo e che la storia di Elvia fedelmente ricostruita nel libro, serva a non farci dimenticare, perchè… “Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo” – Primo Levi.

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(*) Il Giorno della Memoria è stato istituito dal Parlamento italiano nel 2000 per ricordare le vittime delle persecuzioni nazi-fasciste; la data prescelta è quella dell’anniversario della liberazione del campo di Auschwizt (in Polonia) ad opera dell’Armata Rossa, avvenuta il 27 gennaio del 1945.


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Marinella Falcomer

Questo più che il profilo critico di un’artista, Marinella Falcomer appunto, nostra concittadina, è il racconto di una passione profonda, vera, totalizzante, quella che anima appunto la nostra protagonista e la lega indissolubilmente alla pittura.
Marinella racconta, con vivacità e spontaneità che conquistano, di come si sia sentita attratta verso il disegno e l’arte figurativa fin da piccola, di come, appena ne avesse la possibilità, scarabocchiasse a matita, sopra un album, i ritratti di tutti quelli che le venivano a tiro, e di come l’avesse riempita d’orgoglio vedere esposto per tanto tempo un suo disegno nell’atrio della Scuola media di Teglio Veneto, suo paese d’origine; ma aggiunge anche che in famiglia non prendevano molto sul serio questa sua passione: un hobby va bene, ma incentrare tutta la propria vita sulla pittura, no, perchè, aggiunge Marinella, suo padre le ricordava spesso che, così facendo, si finiva sotto un ponte.
Quindi, finita la scuola dell’obbligo, ecco un corso di qualificazione professionale e l’ingresso nel mondo del lavoro in un campo, quello dell’acconciatura, che aveva pur sempre qualcosa di creativo, che lei accentuava, nei ritagli di tempo, con i ritratti delle sue clienti.

La svolta nella vita di Marinella avviene tra il 1997/8, quando, dopo la morte del padre, sente che ha bisogno di riempire il senso di vuoto che la pervade e, appoggiata dal marito e dalla figlia, decide di riprendere in mano il suo antico progetto: studiare pittura.

Lo fa con umiltà, serietà, consapevolezza; il desiderio di imparare la rende audace; ricorda, sorridendo, di come avesse trovato il coraggio, nonostante molti la sconsigliassero, di chiedere a Monsignor Pellarin, parroco del duomo di Portogruaro, di darle alcune lezioni di ritratto e di come lui, dopo aver visto alcuni suoi lavori, avesse accettato e le avesse insegnato non solo la tecnica, ma suggerito anche un atteggiamento mentale, quello di mettersi in gioco con serenità, di avere fiducia in se stessa, di affrontare il giudizio degli altri, fossero essi addetti ai lavori o gente comune… Questa lezione le è rimasta dentro, le ha dato forza e, ancora oggi la molla che la fa agire è il desiderio di misurarsi con se stessa e con gli altri per raccogliere sì consensi, ma anche consigli e critiche in un’ottica di evoluzione e ricerca continue.

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Disabili – Una testimonianza

Parlare di persone “diversamente abili”… bella sfida… che posso dire?
Forse potrei partire dicendo che lo siamo tutti, in quanto ciascuno di noi ha delle abilità differenti (io per esempio sono bravo a fare la pizza, a quanto dicono…), delle qualità, delle doti, delle caratteristiche che lo rendono unico e insostituibile, assolutamente originale.
Tuttavia non mi sento così capace di “filosofeggiare” su questi concetti…

E allora mi conviene partire dalla mia esperienza personale a contatto con queste persone e cercare di raccontare quello che ho visto e sentito.
Vediamo un po’ …. Potrei chiedere a chi legge di fare così: chiudete gli occhi e pensate a cosa vi viene in mente se vi dico la parola “disabile” o “handicappato” o “ritardato” o “matto” (che fra l’altro sono tutte paroline scherzose e per nulla pesanti o offensive…, ma che appartengono al linguaggio comune…). Fatto? Bene.

È’ probabile che vi siano venute in mente immagini di persone sedute in carrozzina che si spingono con le mani… o che sbavano e vi guardano fisse… o che sono tutte deformi, con le mani, le braccia, le gambe, i piedi storti e contorti come rami di alberi… o persone che camminano avanti ed indietro in una stanza affermando ad alta voce di essere Napoleone… o persone che non parlano… o non vedono… o non sentono… insomma persone che quando le incontri per strada, spesso si fa finta di non vederle e ti fanno cambiare direzione mentre cammini… oppure li si fissa con curiosità morbosa.

Ebbene… a questo punto abbiamo solo due scelte: o ammettiamo che questo variegato campionario di umanità esista, con tutte le conseguenze e le responsabilità che questo comporta, oppure le mettiamo alla porta e ne ignoriamo l’esistenza o cerchiamo di sopprimerle rapidamente…
Ma in ogni caso il problema è nostro, perché stare a contatto con queste persone ci fa toccare con mano le nostre fragilità e debolezze e le nostre difficoltà nel riconoscere l’altro come diverso da me, ma allo stesso tempo uguale a me…

Francamente, dopo quasi dieci anni di volontariato, mi sento di dire, a coloro che fanno la seconda scelta, che non sanno cosa si perdono…
Sapete, la cosa più sorprendente e forse anche banale da dire è che da questo colorato pezzo di umanità io ho ricevuto molti più “doni” di quanti non ne abbia dati a loro. E sono in grado di ricordare tutte le persone, le situazioni, le esperienze nelle quali ho potuto ricevere tutto ciò.

Vi faccio degli esempi di questi “regali”: ho imparato ad essere Paziente. Delicato. Rispettoso. Attento. Sorridente. Allegro. Ad accarezzare e coccolare. Ad ascoltare. A stupirmi delle piccole cose. A giocare. Ad essere Spontaneo… Insomma un sacco di cose… che mi hanno sicuramente reso migliore di quello che ero…
Ho sperimentato – con mia grande meraviglia e stupore –  cosa può voler dire essere amici di qualcuno, sentire che l’altro ti accoglie per quello che sei, che non pretende niente da te se non quello che tu gli vuoi dare, che ti accoglie sempre e che non ti giudica, che esprime le sue emozioni in modo spontaneo e invita te a fare altrettanto…

Quindi quando mi capita di andare per strada spingendo una persona in carrozzina e di incontrare la classica signora di mezz’età che ci ferma e dice “che bravo che te sì…”, dentro di me penso sempre che questo significhi “che bravo che sei tu – seduto su quella carrozzina –  che permetti a questo essere umano che ti spinge di avere l’onore di relazionarsi con una persona speciale come te”.

Se a chi legge, potranno sembrare retoriche o “buoniste” queste mie parole… non importa… il mio intento non è di far cambiare idea o convincere nessuno… ma esprimere ciò che per me è importante e prezioso…
Poi se – per caso – qualcuno leggendo fosse interessato a saperne di più o fosse incuriosito… andate a vedere questo sito internet: www.arca93.it ; è il sito dell’associazione di volontariato di cui faccio parte…

Ecco, ho fatto pure un po’ di pubblicità…
Ringrazio l’Associazione “La Ruota” per lo spazio concessomi…

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Dell’uso ed abuso… della radiografia

Nata dalle ricerche di Marie Curie sulla radioattività, la radiografia è diventata un mezzo meraviglioso di indagine medica, in quanto permette di vedere  le strutture ossee ma anche le parti molli, polmoni, o cave, intestini, se riempite prima di liquido opaco.

Essa però non è innocua e non sempre necessaria. Rispetto alla prima caratteristica, non sempre ci si è posti correttamente il problema. Pensate che  negli anni cinquanta, nonostante la bomba atomica, non si era ancora convinti della pericolosità dei raggi ionizzanti: in effetti, oltralpe, nei negozi di scarpe, c’erano delle macchine dotate di una apertura dove si infilava il piede calzato di nuovo e da una finestra posta in alto si potevano osservare le ossa e la loro posizione  nella scarpa! Una pazzia sia per il cliente che per il personale del negozio…

La necessità, poi, di questo mezzo diagnostico applicato all’ortopedia è l’oggetto di questo articolo. Quando fare la radiografia, prima  o dopo la diagnosi? Ossia prima o dopo che si sappia di quale problema si soffre eventualmente? Per me la risposta è chiara, ma l’esperienza quotidiana evidenzia che non è una opinione sempre condivisa. Per capire meglio faccio un esempio banale: quando un’automobilista si reca in officina perché la macchina non funziona bene, cosa fa il meccanico? Apre il motore? Toglie gli ammortizzatori? Smonta i freni, svuota  i serbatoi? Per prima cosa chiede al conducente cosa succede e dopo si mette ad ascoltare o a provare il veicolo. Solo quando avrà un’idea precisa del danno interverrà sulla parte non funzionante. In medicina, è esattamente la stessa cosa: l’operatore ascolta cosa dice il paziente (o dovrebbe), dopo fa la visita (o dovrebbe) e infine fa una diagnosi.
Solo in caso di dubbio o per confermarla chiede una radiografia mirata.

La radiografia deve essere fatta solo ed esclusivamente dopo l’esame clinico che da, o dovrebbe dare, con parecchia precisione una idea del problema. Perciò se la diagnosi è sicura, perchè fare una lastra? Se la sciatica è accertata, perchè irradiare? Invece, se non c’è una diagnosi, dove fare una lastra? Su tutto il corpo? E poi dove e cosa  osservare?! Inoltre una radiografia che preceda l’esame clinico non è la garanzia di una diagnosi  corretta. In effetti quante volte sento dire che c’è una periartrite perché è visibile una calcificazione nella spalla!  Scommettiamo che  se facciamo una radiografia a 1000 persone a caso, ne troveremo decine  e decine con delle calcificazioni e che non presentano nessun dolore! Invece, quando si fanno lastre a periartriti  correttamente diagnosticate, molto spesso non si riscontrano calcificazioni!

Allora  il paziente se l’inventa il dolore? Certo che no, perché non sempre c’è correlazione fra deposito e  dolore visto che 60% delle periartiti sono psicosomatiche o senza alcuna calcificazione.  Ovviamente da non curare con euforizzanti od altri antidepressivi.
Tuttavia, personalmente ho la triste sensazione che meno si sa fare l’esame clinico e più si chiedono radiografie, con buona salute degli irradiati.

Dr. Claude Andreini – Fisioterapista

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Un museo: la galleria Guggenheim

Affacciandosi dal ponte dell’Accademia, sul Canal Grande, si può notare una facciata incompiuta. Questa appartiene a Palazzo Venier dei Leoni, che fu l’abitazione di Peggy Guggenheim. Questa donna è sempre stata vicina al mondo dell’arte stringendo, fin da quando era ventenne e lavorava in una libreria di New York, molte conoscenze con esponenti del mondo artistico. Altre amicizie, come quelle con Costantine Brancusi e Marcel Duchamp, iniziano invece quando si stabilisce in Europa nel 1921 e dureranno per tutta la vita. Il suo interesse per l’arte diventa sempre più forte quando apre una galleria d’arte nel 1937 “Guggenheim jeune” e poi un museo d’arte moderna a Londra. Nel 1942 apre a New york la propria galleria-museo “Art of This Century”. La collezione veneziana, oggi di proprietà della Fondazione Solomon R. Guggenheim, è secondo me importante da visitare perché ci permette di ripercorrere i maggiori movimenti e periodi dell’avanguardia, Cubismo (Orfismo, Purismo), Futurismo, Astrattismo europeo (Kandinsky, De Stijl, Suprematismo, Costruttivismo), Surrealismo, Dadaismo; e ammirare opere di Klee, Chagall e dei Metafisici, lavori precursori dell’Espressionismo Astratto, testimonianze di scultura europea (Brancusi, Giacometti, Arp, Calder, Moore), ed arte del dopoguerra. Quello che stupisce di questa collezione è la modernità di Peggy Guggenheim che riesce ad anticipare concezioni artistiche che verranno capite e accettate molto dopo, come accade con Pollock, che deve la propria carriera e il proprio successo in gran parte alla generosità di Peggy e al suo appoggio. La collezione include anche una piccola raccolta di arte tribale dell’Africa e dell’Oceania. Ad arricchire vi sono le opere italiane della Collezione Gianni Mattioli (al Museo in qualità di prestito a lungo termine dal 1997) e i prestiti di scultura europea e americana del ventesimo secolo provenienti dalla Collezione Kasher (Ernst, Giacometti, Arp, Moore, Duchamp-Villon). Secondo me la visita di questo museo è davvero incantevole perché da la sensazione di entrare, non in un museo ma in una casa accogliente ed è interessante perché rappresenta un modo di avvicinarsi all’arte contemporanea in maniera quasi esaustiva. Quello che provo quando esco da questo palazzo è una sorta di invidia verso questa donna che è riuscita ad avere questi capolavori davanti agli occhi in casa sua.

Il quadro che più mi piace e stupisce è “L’impero delle luci” di Magritte in cui è dipinto un luogo notturno sotto un cielo chiaro come di giorno. Solo al secondo impatto lo spettatore si rende conto del surreale di questa scena così realistica. L’autore stesso dice descrivendo questo quadro: “Trovo che questa contemporaneità di giorno e di notte abbia la forza di sorprendere e di incantare. Chiamo questa forza poesia” (Marcel Parquet, RENE’ MAGRITTE, 2001).

Altre informazioni: www.guggenheim-venice.it

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Conosci te stesso

Nozioni elementari di patologia e cure eventuali. A cura del Dr. Claude Andreini, Fisioterapista

Prima di proporre l’approccio ad una patologia, vorrei ripulire il campo da certe espressioni ambigue:

1. il “dolore: Il dolore è un sintomo. Non è il nome di una malattia. Un trauma, una malattia, provoca dolore, perciò è sempre una conseguenza e non un punto di partenza. Infatti, quello che la gente chiama “dolore” è, nel nostro caso, un’infiammazione articolare di tipo o artritico o artrosico. Nonostante le due parole si assomiglino, esse rappresentano patologie distanti fra loro come lo sono una Ferrari ed un tagliaerba. L’artrite, o reumatismo,  è una infiammazione articolare  su base infettiva, anche se non sempre si riscontra il microbo. La malattia è grave.
L’artrosi, invece, non è una malattia, è semplicemente il risultato di un consumo fisiologico delle articolazioni.

2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.

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2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.