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Ce l’esi poesiis?

Ce scrivitu nona ?
Scrif poesiis
E ce l’esi poesiis?
Zin, zin, sot la lobia
a vede li sisilis ch’i
scrif poesiis…
(Rosanna Paroni Bertoia)

Una serata dedicata alla poesia e, in particolare, a quella dialettale ha bisogno di alcune precisazioni. Essa, innanzitutto non è fine a se stessa, ma nasce nell’ambito di quel percorso di valorizzazione del territorio che “La Ruota” si è proposta di realizzare anche se, apparentemente, ne rovescia la prospettiva. Infatti una scelta di questo genere può apparire, ad una analisi affrettata, azzardata, elitaria, difficile, punto d’arrivo non di partenza, ma noi siamo convinti che il linguaggio poetico, con la sua libertà, allusività e capacità di suscitare, in ognuno di noi, echi, sia pur diversi, può aiutarci a stabilire un sentire insieme, una sintonia,da cui prendere avvio per il nostro viaggio, che non vuole essere solo  emozionale, ma percorso di conoscenza e di consapevolezza. Non è poi estranea a questa nostra iniziativa, la riflessione sulla centralità che il fenomeno lingua riveste all’interno di una comunità, anche se, realisticamente, non ci sono in noi intenti di restaurazione linguistica, o di un anacronistico ritorno al passato, o di pseudo rivendicazioni culturali, in quanto pensiamo che la lingua sia qualcosa di vivo, dinamico e funzionale, che cambia nel tempo e si adegua alle necessità dei parlanti; siamo però convinti anche che, perché ognuno di noi viva completamente il suo presente, debba conoscere anche il suo passato, la sua storia, che si intreccia con quella degli altri e diventa quindi comunicazione, linguaggio.
Da qui è nato il repertorio di testi poetici e autori dialettali, curati dalla prof.ssa Mariella Collovini, dal titolo “Le voci della terra, le parole dell’uomo – amore e nostalgia nella lingua dei poeti tra Isonzo e Piave” che si strutturerà come lettura scenica, fatta da tre attori, Filippo Facca, Angela Perissinotto, Daniela Turchetto, accompagnata dalle musiche eseguite dal maestro Gianni Fassetta.
Il nostro sarà quindi un itinerario che avrà tra le sue tappe “amore e nostalgia”, ma come meta la presa d’atto, assieme al desiderio di condividerla  con altri, dell’esistenza di un patrimonio poetico – letterario sconosciuto al gran pubblico e che affronta, usando il dialetto veneto e friulano o alcune sue varietà, tematiche universali (il dolore, la malinconia, l’allegria, l’amore, la nostalgia, il rimpianto…) che superano i limiti territoriali imposti dallo strumento linguistico usato.
Numerosi e stilisticamente diversi tra loro sono anche gli autori utilizzati (per citarne solo alcuni): si va da Andrea Zanzotto a Pier Paolo Pasolini, a Giacomo Noventa, a Biagio Marin, a Ernesto Calzavara, a Giacomo Villalta, a Novella Cantarutti a Romano Pascutto; ma non sono stati trascurati neanche i poeti locali, come Giovan Battista Donato, poeta del’500, nato a Venezia e vissuto a Gruaro, Giacomo Vit, Lionello Fioretti ed altri ancora che rivelano talora, nel loro consapevole bilinguismo (lingua, dialetto) la complessità delle relazioni esistenti tra strumento poetico e materia trattata.
La serata è dedicata al poeta Lionello Fioretti, Natale per noi, “appartatosi”, come dicono, con una struggente e felice immagine i suoi amici del Menocchio, quasi un anno fa, lasciandoci soli in compagnia della sua poesia “…fresca eppure permeata di cultura, trasparente per immediati sapori, abitata da una robusta densità meditativa…” (Gianfranco Scialino) e, soprattutto, mai “complice”.

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Lionello Fioretti

Di sé ha scritto:

“In un giorno di vento, Lionello Fioretti nacque a Bagnarola,
benedicendo la primavera del ’45.
Per rendere lieti i genitori dimorò nelle galere della scuola italiana,
laureandosi in lettere a Padova,
dove capì suo padre che esclamava ”mus padovan”,
quando da piccolo impuntava i piedi.
Non volendo trasmettere ignoranza a ignoranti,
evitò a muso duro e berretta rincalcata, la carriera scolastica.
Non potendo vivere di pittura (ebbe un maestro misericordioso
e pieno di significativi silenzi: Tramontin),
diventò medico di dipinti antichi,
condannandosi a un eterno precariato:
non conosceva l’uso della “sportula”
e in più diceva quello che pensava: insomma un discreto imbecille.
Ebbe (chi è il maestro, chi è l’allievo?) esperienza di insegnamento
Di tecniche pittoriche, maschere e altro, in corsi liberi con terze età,
portatori di handicap e fuori di testa.
Particolarmente con questi ultimi si trovò bene, fu accolto con
Larghezza, si riconobbe e fu riconosciuto,
proprio come Pinocchio, quando nel teatrino di Mangiafuoco
fu festeggiato dalle altre marionette.
Ahimè dipinse, scrisse, ma cucinò per sé e per gli amici.
Ai fornelli cuoco raffinato (anche gli invidiosi davano il placet)
Capì di aver sbagliato carriera e che nel calderone universale,
instancabili collaboratori,
veniamo tutti cotti a puntino, anche i furbi. Amen”.

(da I’sielc’ peravali’)

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A proposito di “Cultura”…

Molte volte mi è capitato di trovare la parola cultura in diverse situazioni e in diversi campi, però non mi ero mai fermata a pensare a che significato questo concetto avesse, fino a quando non ho iniziato a scrivere quest’articolo.
Definire che cos’è la cultura non è sicuramente facile perché questo è un termine molto complesso.
Partendo dal presupposto che la parola “cultura” può essere utilizzata in molti ambiti, per comprenderne il significato, secondo me, bisogna capire che cosa accomuna tutti gli aspetti di questo termine.
Quello che li unisce è a mio parere il concetto di conoscenza, poiché la cultura è l’insieme di conoscenze di una persona in vari campi, ma anche la capacità di capire che il proprio sapere non è infinito, ma va sempre e continuamente incrementato.
Questo fa sì che nel significato di cultura sia compreso anche il concetto di progresso, di evoluzione, poiché nessuno dovrebbe mai rimanere ancorato alle proprie idee senza mai metterle in discussione.
Facendo un ulteriore passo avanti si comprende come nella parola cultura è insita certamente l’idea di confronto.
Ogni idea, infatti, anche se lontana dal nostro pensiero, può essere utile a far capire un aspetto di una questione che prima non si era preso in considerazione.
Tutti, per questo motivo, possono fare cultura, solamente discutendo riguardo ad un dato argomento.
La cultura non deve essere vista, infatti, come un qualcosa di astratto ma anzi deve essere percepita come vicina a noi, perché è da ogni singola persona che deve partire la volontà di ampliare il proprio sapere.
Siamo inoltre sempre noi stessi che dobbiamo mettere a disposizione le nostre conoscenze, le nostre idee, i nostri pensieri, perché la cultura non è solo un patrimonio personale, ma deve essere condivisa con gli altri.
Ciò che un’associazione culturale, come la Ruota, deve fare è, quindi, a mio parere, aumentare la nostra conoscenza e promuovere lo scambio d’opinioni e la riflessione, in sostanza mantenere viva la cultura.

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La finanza etica e l’esperienza di Banca Etica

Le diverse esperienze dell’economia solidale nascono come reazione valoriale, ma anche concreta e propositiva, nei confronti di una economia giudicata troppo attenta alla crescita della ricchezza e poco alla sua equa distribuzione, più incline alla competizione che alla solidarietà.
L’economia solidale rifiuta la massimizzazione del profitto come obiettivo primario delle attività economiche e di sviluppo della società; ritiene, invece, che tale obiettivo vada individuato nel profitto sociale e nell’attenzione al bene comune, cui tutti possono contribuire:  poggia sul concetto di cittadinanza attiva e responsabile e considera di volta in volta l’individuo come cittadino attivo, consumatore critico, risparmiatore consapevole e responsabile. In quest’ottica l’economia solidale si adopera per elaborare nuove esperienze che conducano ad uno sviluppo sostenibile, rispettoso di tutti i popoli e attento alla salvaguardia dell’ambiente naturale.
All’interno di tale movimento si è imposta una forte riflessione sulla valenza del denaro, inteso come mezzo per raggiungere il profitto sociale e non come fine a se stesso.
In questo contesto la finanza etica riflette proprio sull’utilizzo del denaro, visto naturalmente nella sua particolare forma di risparmio.

Cos’è la Finanza Etica? E’ una finanza che ha come punto di riferimento la persona e non il capitale, l’idea e non il patrimonio, la giusta remunerazione dell’investimento e non la speculazione. La raccolta  di risparmio e il suo impiego, avvengono attraverso una gestione trasparente, dando la possibilità ai risparmiatori di conoscere il funzionamento dell’istituzione che gestisce il risparmio e la destinazione di ogni finanziamento. In maniera innovativa rispetto al sistema finanziario tradizionale,  si adottano criteri di valutazione e modi operativi che prendono in considerazione, insieme alle performance dell’impresa ed ai suoi rendimenti economici, l’impatto sulla società e sull’ambiente delle attività finanziate. E’ in questo contesto che si inserisce Banca Popolare Etica.
Nata dall’ostinazione e dall’impegno del movimento delle Mag ( Mutue d’Autogestione), del mondo della cooperazione sociale, del volontariato e dell’associazionismo, Banca Etica festeggerà l’8 marzo 2005 il suo sesto compleanno.

L’articolo 5 dello Statuto afferma: “Banca Etica si propone di gestire le risorse finanziarie di famiglie, donne, uomini, organizzazioni, società di ogni tipo ed enti, orientando i loro risparmi verso le iniziative socio-economiche che perseguono finalità sociali e che operano nel pieno rispetto della dignità umana e della natura… Banca Etica svolge una funzione educativa nei confronti del risparmiatore e del beneficiario del credito, responsabilizzando il primo a conoscere la destinazione e le modalità di impiego del suo denaro e stimolando il secondo a sviluppare con responsabilità progettuale la sua autonomia e capacità imprenditoriale.”
Essa esclude “i rapporti finanziari con quelle attività economiche che, anche in modo indiretto, ostacolano lo sviluppo umano e contribuiscono a violare i diritti fondamentali della persona…”, escludendo, per  esempio, le relazioni con le imprese che commerciano in armi.
Coerentemente con questi principi, i finanziamenti concessi sono basati sulla valutazione di una istruttoria sia economica che socio-ambientale. I risparmiatori, le imprese sociali, le organizzazioni non profit e le imprese operanti in campo ambientale si dotano in tal modo di uno strumento finanziario concreto per affermare i valori della partecipazione democratica, della solidarietà, della trasparenza,  per uno sviluppo a volto umano dei territori in cui interagiscono.

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Non solo profitti

L’economia solidale è un fenomeno complesso, che investe non solo il modo di produrre, ma anche di consumare e di impostare relazioni.
Parlarne significa accennare, almeno per stabilire un confronto, anche all’economia tradizionale, neoliberista, che ha nella legge di mercato e nel profitto le sue regole fondamentali.
In questa teoria economica, semplificando, altre considerazioni, come i riflessi sociali o gli impatti ambientali della faccenda, sono considerati solo fastidi da scacciare come un pensiero cattivo o da valutare proprio quando non se ne può fare a meno per evitare danni peggiori.
Tuttavia questi problemi esistono, si manifestano, condizionano il vivere sociale e allora, se non si può eliminare del tutto la legge del profitto e del mercato perché sarebbe controproducente e dannoso anche per la collettività, come afferma Amartya Sen, economista, premio Nobel nel 1998, ci si chiede se non se ne possano limitare gli effetti, affiancando a quello tradizionale, un modello di creazione e di acquisizione di beni e servizi che preveda anche lo sviluppo delle persone, che ne rispetti la dignità, che abbia di mira uno sviluppo sostenibile, che non distrugga l’ambiente, che abbia attenzione ai Paesi poveri.
La risposta è affermativa ed è l’economia solidale, o economia civile, o di comunione che può, sempre secondo l’opinione di Amartya Sen, diventare complementare alla prima.
Questa teoria economica non è un’utopia come dimostrano efficacemente innumerevoli iniziative messe in atto, ispirate alle sue idee base che si possono così riassumere:

  • l’economia della solidarietà non è carità, ma un modo serio e, in molti casi, produttivo e creativo di intendere l’intraprendenza economica;
  • essa coniuga, accanto all’efficacia ed all’efficienza, il rispetto del giusto salario del lavoratore, un coinvolgimento diretto di questi nei processi decisionali della struttura, il rispetto delle risorse ambientali, l’attenzione, anche umana, al cliente-utente, la democrazia interna nelle aziende;
  • si fonda inoltre sul criterio della reciprocità  per strutturare rapporti interni ed esterni.

Appare chiaro, da quanto detto, che aderire a questo modello economico implica anche un modo diverso di concepire il proprio modo di essere consumatori. Significa cioè pensare, come diceva un grande capo indiano, che la terra non ci è stata data in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli, e che a loro dovremo rendere conto delle condizioni nelle quali gliela restituiamo.
Bisogna, in una parola, ricalibrare le scelte del consumo quotidiano, modificarne la struttura secondo giustizia, chiedendosi perciò da dove viene un certo prodotto, quali materie prime sono state impiegate, come sono state pagate, chi ci ha lavorato, che conseguenze ha subito l’ambiente, etc…
Un altro aspetto interessante di questa nuova progettualità economico-finanziaria è il fiorire di tante esperienze collettive radicate sul territorio, che offrono diverse opportunità e strumenti  concreti di sbocco.
Ecco nascere, a partire dagli anni ’80, Cooperative sociali, Mutue di autogestione, Banca popolare etica, Bilanci di giustizia, Fondazioni  di prevenzione dell’usura, Gruppi di acquisto solidale, Conti etici, etc..
Alla base di tutte queste iniziative c’è lo strumento innovativo, direi anzi rivoluzionario del microcredito che, nato nel Terzo Mondo ad opera dell’economista e banchiere Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank, ha trovato applicazione e forte presa anche nell’Occidente e che si basa su un concetto molto semplice: anche un povero, senza garanzie reali o patrimoniali, quando ha una buona idea, deve poter accedere al credito per provare a realizzarla. Aumenta così la dinamicità economica, sociale ed anche politica.
Inoltre, come osserva ancora Amartya Sen, “il microcredito è un movimento creativo: è contro la tradizionale economia di mercato che non presta denaro senza garanzie, ma non è contro l’utilizzo del mercato”.
Progetto economico quindi, non carità. Le prime a servirsi dello strumento del microcredito in Italia sono state le Mag (Mutue di autogestione), prima fra tutte quella di Verona nel 1978, che rifacendosi ad esperienze ottocentesche di autofinanziamento messo in atto nelle classi povere, si misero a raccogliere denaro per usi alternativi, per sostenere imprese autogestite no-profit, che tentavano di conciliare esigenze produttive con quelle sociali ed ambientali.
Le Mag supportavano l’azione di prestito con interventi di promozione, consulenza, formazione, accompagnamento.
Il successo dell’iniziativa, il suo dilatarsi hanno poi convinto le Mag che serviva un grosso soggetto finanziatore, forte, significativo ed autorevole, ed è nata così, con il concorso di altre forze, nel 1995, la Banca popolare etica, “una splendida fionda di Davide” come l’ha definita padre Alex Zanotelli, una banca che finanzia i soggetti del terzo settore (MAG, Cooperative sociali, ONG, Gruppi di volontariato, etc.) che hanno un progetto serio di sviluppo di solidarietà anche in termini imprenditoriali e non solo umani e sociali. Ma questo strumento dell’economia solidale e le sue peculiarità vi saranno ampiamente illustrati dalle relazioni di questa sera, alle quali io passo il testimone.

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Voci dall’associazione…

Anno nuovo, nuovi sviluppi e molte possibilità per “La Ruota”.
Un punto nodale per lo svolgimento delle attività della nostra Associazione è rappresentato dal recepimento delle proposte di programmazione sin qui avanzate dal pubblico partecipante (e non) alle iniziative precedenti. Ci pare pertanto interessante pubblicare i risultati “preliminari” dello spoglio dei questionari fin qui ricevuti (Novembre – Dicembre 2004).
E’ necessario precisare come in tale ottica il discorso non si esaurisca qui: proporremo ancora questionari o inviteremo in altri modi il “pubblico” ad esprimersi nel merito delle attività che svolgiamo. Un buon “feedback”, tanto più se critico, unito alla fiducia dei propri sostenitori sono elementi imprescindibili, non per piaggeria, ma per autentico desiderio culturale e stimolo ad un continuo miglioramento.
Anche per questo evitiamo di addentrarci dettagliatamente in un’analisi dei risultati (es. “Cineforum” e “Linguaggio cinematografico” si trovano rispettivamente al primo ed ultimo posto delle preferenze, il che stimola una riflessione sulla chiarezza del questionario), ma risulta evidente che se le prime 4 voci da sole rappresentano il 30% del totale è ad esse che più volgeranno i nostri sforzi, almeno in questa fase. La serata sui pannelli solari si inserisce pertanto in tale impostazione di risposta e scambio continuo.
Speriamo che quella del 18 Febbraio funga da incipit ad un ciclo più ampio sull’energia e le fonti rinnovabili, tema che merita più di un approfondimento, anche se, chiaramente, a seconda delle possibilità e occasioni che ci si presentino, potremmo scostarci dalle linee-guida rappresentate nel grafico (un esempio è la già prevista serata del 25 Febbraio su Banca Etica, di cui tratteremo in dettaglio nel prossimo bollettino). Stay tuned.

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“La lezione di nonna Argelide”

da “L’Unità” del 10 Febbraio 2005

«La cultura la fà cascà la dittatura». Una frase che mi è rimasta ferma nel cervello fin dalla mia prima infanzia. La diceva nonna Argelide, contadina socialista, abitava a Volongo, provincia di Cremona, un paese dalle stesse parti di Sesto e Uniti dove è nato Sergio Cofferati. Erano gli anni neri della guerra: 1943, 1944, 1945. A Milano i bombardamenti, mio padre alla guerra in Russia, mia madre operaia della Innocenti ed io, bambina, sfollata a casa della nonna. Libera dalla scuola elementare mi divertivo un mondo a fare la guardiana delle oche che menavo al pascolo fino sulle rive del Po. Non avevo assolutamente voglia di studiare quello che si può apprendere alla scuola elementare, e quella socialista di mia nonna, con riferimento ben preciso alla dittatura agonizzante, mi rimproverava con quella frase salutare: «La cultura la fà cascà la dittatura». Sono passati tanti anni da quando sentivo con frequenza quella frase che allora mi sembrava strana ed esprimeva cose che nell’infanzia non capivo bene. Poi, anno dopo anno, considerando gli eventi, ho capito il profondo significato della frase della nonna: è stato tante volte così, i dittatori sono stati sempre nemici della cultura, della libertà di cultura, ma c’è da dire che la resistenza della cultura ha fatto sempre, seppur con infiniti sacrifici, anche i più estremi fino al martirio, finire le dittature. Tutto il Novecento insegna così. Ora nel nostro Paese si attua un progetto inquietante: tagliare – che brutto verbo, sa di ghigliottina – i fondi statali alla cultura è, a mio modesto avviso, la cosa più insana che un governo eletto democraticamente possa fare, a meno che la parola democrazia possa essere interpretata in modo totalmente distorto.Cultura vuole dire tante cose: non solo libri, non solo volumi e volumi scritti, non solo tele e tele dipinte, non solo sculture, non solo danze; cultura vuol dire anche come sapere bene coltivare i campi, come sapere tenere bene l’acqua pulita nei fiumi, come sapere parlare ai giovanissimi perché sappiano distinguere tra le cose, perché sappiano distinguere tra chi sa fare bene e che non lo sa fare, cultura vuole dire rispetto dell’ambiente, rispetto dei giovani, rispetto dei vecchi, cultura vuole dire soprattutto un impegno serio per il futuro dei giovani che sono i più bisognosi di cultura.

Io mi appello al governo del nostro Paese, governo eletto democraticamente, perché rifletta su quello che qualsiasi italiano di buona volontà ha il diritto di ricevere; mi appello perché il Governo abbia un ripensamento e trovi la maniera di non togliere alla cultura i mezzi pubblici per sopravvivere: è la necessità fondamentale per la vita morale del nostro Paese. E vorrei che un riguardo particolare venisse rivolto al futuro delle giovani generazioni, le più bisognose di certezze per trasformare i sogni in qualcosa di vero.

Carla Fracci

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L’energia

L’energia viene definita nei libri di testo scolastici come la capacità che un sistema ha di produrre lavoro. Cosa sia il lavoro viene poi solitamente illustrato con esempi che molto spesso esulano dalla vita di tutti i giorni. Il concetto di energia, così, rischia di diventare qualcosa di astratto, di impalpabile, che esaurisce il proprio significato solo in applicazioni tecniche. La definizione di energia, apparentemente sterile nella forma, tuttavia contiene in sé una verità profonda, per nulla scontata: energia è movimento, energia è calore, materia, radiazione elettromagnetica, energia è rumore. Tutto ciò che vive ha bisogno di energia; non esiste azione, dalla più complessa alla più semplice, che l’uomo possa fare senza dover per forza utilizzare energia. Se ne consuma per alzarsi dal letto, per andare al lavoro, persino per pensare o per comunicare.

Il primo principio della termodinamica, che è il ramo della fisica che studia le trasformazioni dell’energia, insegna che essa non si crea, né si distrugge, ma si conserva, manifestandosi in diverse forme. Il secondo principio della termodinamica, però, ammonisce che tutti i processi di trasformazione dell’energia, comportano inesorabilmente un degrado di essa, che globalmente si conserva in quantità, ma perde in qualità ed in parte diventa inutilizzabile. Con il secondo principio della termodinamica, quindi, bisogna fare i conti ogniqualvolta si accenda una lampadina, o si viaggi in automobile o si riscaldi una casa; con esso si deve confrontare l’intera struttura della società industriale, che può esistere esclusivamente grazie all’utilizzo di ingenti quantità di energia. Essa si degrada e proprio per questo ha un prezzo, che viene pagato in termini di denaro, di effetti sull’ambiente, di equilibri geopolitici. Il bicchiere da cui la società industriale beve l’energia per la propria sussistenza non è infinito, e più energia viene consumata, più diventa costosa.
Esiste però una fonte di energia che non ha prezzo, che può essere considerata inesauribile e rinnovabile, se paragonata ai tempi dell’uomo. Questa fonte è il Sole, che da miliardi di anni è il motore della vita sulla Terra. Il Sole non costa niente, non inquina ed è alla portata di mano di tutti. Il Sole riscalda l’atmosfera, muove i venti e le correnti marine, fa crescere gli alberi, fa evaporare l’acqua che ricade come pioggia e riempie i fiumi. Il Sole dona ogni giorno alla Terra una quantità di energia enorme che aspetta solamente di essere catturata ed utilizzata.

Di come sia possibile farlo parlerà “La Ruota” venerdì 18 febbraio alle ore 20:30 presso la Sala consiliare del Comune di Gruaro.
Relatori saranno Vittorio Bearzi, tra i massimi esperti in Italia sui pannelli solari per la produzione di acqua calda e per il riscaldamento, e Paolo Ziliotto, conoscitore delle vie e dei finanziamenti che le amministrazioni locali mettono a disposizione di tutti per avere energia pulita e gratuita da un raggio di Sole.

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A proposito di “Cultura”…

Io penso che la cultura sia un grande tesoro, una enorme fortuna che tutti noi abbiamo a disposizione. È come avere un deposito dell’insieme dei concetti, codificati in molti modi, che ci danno la possibilità di interagire con efficacia, in maniera innovativa, utilmente, con gli eventi esterni ed interni a noi stessi. I modi con cui questi concetti sono codificati dalla cultura sono molto vari: da forme più logiche ad altre più intuitive, una gamma di modalità che va dall’arte figurativa alla musica, dalle lettere alla scienza. Questi concetti ci permettono di ottenere dei risultati anche pratici diversi o migliori a parità di impegno profuso. Effettivamente io intendo la cultura come condivisione della conoscenza, che porta ad ulteriori approfondimenti in chi entra in contatto con essa: è la possibilità di fare luce in situazioni altrimenti oscure, di trovare un percorso senza la necessità di procedere a tentoni; mette in condizione di “partire tutti dalla stessa posizione”, di avere, potenzialmente, le stesse possibilità nel percorso della vita.
Giudico invece negativo l’uso dei concetti e delle conoscenze, e la loro diffusione, in modo “fondamentalista”, ovvero quando il sistema di conoscenze è proposto, o addirittura imposto, come l’unica verità, senza possibilità di dibattito e verifica, ed ogni altro punto di vista è bollato come “falso”. La cultura deve servire ad aprirci gli occhi, ad estendere i nostri punti di vista, non a renderci più ciechi!
Sono quindi convinto che sia bene che ognuno di noi si sforzi di diffondere le sue e le altrui idee, per contribuire al percorso che egli stesso ha intrapreso e, data l’interdipendenza che io vedo tra tutti noi, degli altri.
A questo proposito propongo un’ultima riflessione sulla resistenza alla diffusione di idee per il timore di perderne “l’esclusiva”. Io penso che ci si possa tranquillizzare per il fatto che le idee sono sempre collegate anche alle persone e al loro modo di diffonderle e di metterle in pratica, cosa che ognuno fa in modo personale, con la sua impronta unica: questa nostra unicità ci garantisce dalla perdita. È altresì vero che la condivisione delle idee sottintende una certa disponibilità a rivederle e modificarle con il contributo di quelli a cui le diffondiamo, e mal si adatta a situazioni statiche, a persone che vogliono mantenere posizioni acquisite in modo rigido. Ma quest’ultimo atteggiamento, seppure spontaneo e fonte di apparente sicurezza, non è “vincente” a lungo termine: l’esterno e l’interno di noi stessi non è statico, e allora è più realistico ed utile considerare il cambiamento come un aspetto da assecondare, a cui essere almeno in parte disposti, piuttosto che, ciecamente, come un elemento da contrastare.

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A proposito di “Cultura”…

Questa volta, tocca a me tentare di definire  la cultura.
Niente enciclopedie, solo una sensazione: la cultura è l’anima di una civiltà. Come tanti ne siamo convinti, credenti o no, l’anima, se c’è, vive anche senza il corpo. Così la cultura.
I Maya sono scomparsi da secoli, i Faraoni, i Vichinghi e gli Etruschi altrettanto. Eppure, scavando la terra o avventurandosi sulle montagne, si riesce a fare un quadro preciso della loro civiltà, grazie alla loro cultura. Osservando resti del loro passato si riesce a definire il loro modo di vivere e di pensare. Ciò significa che la presenza fisica di una persona o di una popolazione non è necessaria per dare la prova di una civiltà e che la cultura di queste persone perdura nei tempi dopo la loro scomparsa. Perciò la cultura è una visione, una sensazione, una conoscenza, un bagaglio che riposa su tutto quello che è stato creato dall’uomo. Umile o raffinata,  si scopre l’influenza che può aver avuto su altre zone del pianeta, ma alla fine si intuisce la causa della propria sparizione, legata all’arrivo di un’altra cultura, nuova, inaspettata, più forte, moderna insomma.
Spesso gli storici spiegano la comparsa di nuove culture e l’eliminazione di quelle più antiche, con l’incapacità di quest’ultime di trovare un’allenata capacità di adattamento interiore a sopraggiunti elementi esterni di aggressione.
Da lì la mia convinzione che la cultura è una cosa viva, e come ogni essere vivente invecchia, decade, si immobilizza, se non riceve linfa fresca in continuo. La linfa della cultura è ricca di innovazione, di osservazione, di scambi, di tolleranza e di intelligenza. Tutti elementi di disturbo e scomodi e destabilizzanti per chi vuole accontentarsi di una cultura che chiama “tradizionale” ma che è solo mummificata.
La storia ci insegna che la cultura ha fatto balzi in avanti solo quando è stata turbata da elementi in contrasto con quella precedente. La pittura e le sue innumerevoli scuole, la filosofia e i suoi  successivi maestri, la musica, le lettere, le scienze, … Tutte le materie che costituiscono la nostra cultura  sono evolute a forza di colpi di scena, da Einstein a Picasso, da Euclide a Galileo, da Rodìn a Christò, da Nadar a Mappelthorpe.
Senza eccezione, questi geni sono partiti da una cultura tradizionale, ma solo come trampolino per fare un salto in avanti nel buio certo, ma che si squarcia per fare posto ad una luce originale. Una luce che illumina chi ha capacità e coraggio di guardarla in faccia, ma che non riesce a togliere dalle tenebre chi preferisce voltargli le spalle.
Penso che respingere questa destabilizzazione dei pensieri, delle consuetudini, dei rapporti, delle idee, dei concetti sia la causa di scontri di società, razzismo, pregiudizio, dell’ignoranza in generale. La lotta è molto aspra e molto impari. Quante persone innovano o propongono alternative accanto ad una moltitudine che, quando non distrugge la novità, rimane ferma su posizioni di comodo, “perché  tutti la pensano così”? La cultura viene alimentata  da una minoranza, ed in seguito confortata dalla moltitudine. Se la società non segue, perde la  sua anima e, un giorno o l’altro, finisce in un museo, come i Maya.

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