Appunti di viaggio Archivi

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Incontro con A. Bellavite e P. Ciampi

L’associazione culturale “La Ruota”, in collaborazione con la casa editrice Ediciclo, propone per giovedì 7 giugno 2018, ore 20.45 a Villa Ronzani a Giai di Gruaro, l’incontro con due autori, Andrea Bellavite e Paolo Ciampi, che presenteranno i loro libri-saggio, rispettivamente “Lo spirito dei piedi” e “Il sogno delle mappe”.

Andrea Bellavite

Paolo Ciampi

Si tratta di una conversazione a due voci, inedita, tra due scrittori che non si sono mai incontrati prima, ma che hanno scritto sullo stesso tema, il viaggio, un particolare tipo di viaggio, quello a piedi, che sembra aver ritrovato molti estimatori.

Una specie di appuntamento al buio, quindi, che può riservarci piacevoli sorprese.

I loro libri sono al tempo stesso affini e diversi, tali da risultare complementari.

Se ciò che li accomuna è la modalità preferita del viaggiare, ciò che li distingue è il punto di vista, interno al viaggio, in quello di Bellavite, esterno ad esso, propedeutico, in quello di Ciampi.

Ma poi i confini non sono così netti, a partire dagli autori di riferimento, Chatwin in primis: ad un certo punto gli argomenti si intrecciano, si incontrano e c’è il ricorso ad uno stesso lessico fatto di orientarsi, scegliere, perdersi, ritrovarsi, guardare in su, guardare in giù, desiderare (parola chiave, questa) che allude alle situazioni tipiche del viaggiare che entrambi trattano.

In allegato la locandina della serata.

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Il cammino di Santiago di Gino Milani

Agli interessati, ai curiosi, a tutti quelli che vogliono saperne di più.

L’associazione culturale “La Ruota” Vi propone una serata con un camminatore amatoriale, il sig. Gino Milani, che ha documentato con foto la sua fatica di 790 km  da Roncisvalle a Santiago de Compostela.

Per ripercorrere virtualmente il cammino insieme a lui, ci troviamo venerdì 4 novembre 2016 alle ore 20.30 presso Villa Ronzani, a Giai di Gruaro.

Vi aspettiamo numerosi.

In allegato la locandina della serata.

Per raggiungere Villa Ronzani -> CLICCA QUI

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Venezia, le meraviglie nascoste

Un turista che stia compiendo una passeggiata nel centro di Venezia non deve assolutamente tralasciare una piccolissima deviazione dalla strada principale, per ammirare ciò che molti si sono spesso sfortunatamente lasciati sfuggire, nonostante sia una delle cose più belle in Venezia.

Stiamo parlando della Scala Contarini del Bovolo (“bovolo” in veneziano significa chiocciola o lumaca).

Procedendo da campo santo Stefano e diretti verso campo San Luca e Rialto, dopo aver percorso una bellissima calle piena di negozi, pasticcerie e bar, oltrepassato un ponte su un rio, arriverete in campo Manin; mantenetevi sul lato destro del campo (alla vostra sinistra vedrete il leone del monumento a Daniele Manin di Luigi Borro, mentre di fronte a voi si trova la purtroppo stonata e brutta facciata del Palazzo Nervi-Scattolin, sede della Cassa di Risparmio di Venezia).
All’altezza del monumento, sul lato destro come detto, si apre una piccola calle che porterà alla “Scala del bovolo”. Seguite la segnaletica.
Nascosta all’interno di una piccola corte (corte Contarini) vi apparirà all’improvviso in tutta la sua straordinaria eleganza. È uno dei più singolari ed emozionanti esempi di architettura veneziana che esprime un passaggio dallo stile gotico, ben radicato nella cultura locale, a quello rinascimentale.

Nel 1449 il patrizio veneziano Pietro Contarini fece aggiungere al suo palazzo tardo gotico di S. Paternian un nuovo corpo architettonico, probabilmente opera dell’architetto Giovanni Candi o dell’architetto Giorgio Spavento, per rendere visivamente piú attraente la facciata interna del palazzo prospicente un piccolo cortile, un tempo protetto da una cinta muraria. Una serie di logge sovrapposte congiunge i vari piani alla snella aerea scala che si snoda a chiocciola all’interno di una torre cilindrica traforata da archeggiature ascendenti. Il tutto diffonde aria rinascimentale, ma si inserisce in una struttura che nella forma ricorda i modelli delle torri scalari bizantine.

Sulla sommità della scala (non sempre purtroppo é aperta; ora é in restauro) si può ammirare uno splendido, onirico panorama: tetti, campanili, cupole, camini, con una visuale a 360 gradi sull’intera meraviglia del mondo che é Venezia.
Nello spazio erboso adiacente all’entrata della scala, delimitato da una cancellata, sono poste alcune antiche vere da pozzo dove dormono pigri i gatti della città lagunare.

Proprio perché situata in questo solitario e silenzioso angolo nascosto della città, la Scala Contarini del Bovolo raramente viene visitata da comitive di escursionisti. Solo i turisti dotati di un buon libro guida o di una mappa dettagliata di Venezia sono in grado di raggiungere questo gioiello che, come spesso tutte le cose belle e preziose, rifugge dal frastuono e dalla superficialità del mondo.

info: http://www.scalabovolo.org/

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Appunti di viaggio: Birmania, incontro con Massimo Casagrande e Lucia Crovato

Salve a tuttti!

Siete invitati alla seconda serata della serie “Appunti / immagini di viaggio”, che tratterà dell’impenetrabile Birmania, grazie ai nostri amici camperisti Massimo Casagrande e Lucia Crovato, che verranno a presentare il loro filmato / reportage da uno dei paesi più reconditi dell’area indocinese.

L’incontro / proiezione si terrà venerdì 29 aprile 2011 alle ore 20.45 presso la Villa Ronzani di Giai di Gruaro.

Allego la locandina dell’evento ed invito tutti a segnalare la serata.

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Il paese delle pietre urlanti

Sono stati una passeggiata a Venezia all’isola di San Lazzaro e la lettura del libro “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan a spingerci a vistare il paese delle pietre urlanti, come definisce l’Armenia il poeta russo Osip Mandel’stam.

Siamo partiti dall’aeroporto di Venezia e via Roma siamo arrivati a Yerevan, grande il nostro stupore nello scoprire che l’aereo era piccolissimo, come del resto è piccolissimo questo paese di circa 30.000 chilometri quadrati collocato sotto il Caucaso confinante con la Turchia, la Georgia, la Russia, l’Azerbeigian e  l’Iran. L’Armenia attuale infatti, non è che una minima parte dell’antico regno armeno di Cilicia posto tra i tre laghi di Van, Sevan e Urmia ed esteso per oltre 300.000 chilometri quadrati. Questa posizione geografica ha reso l’Armenia un reale punto di incontro fra oriente e occidente attraverso una fitta rete di relazioni commerciali culturali e religiose.

È’ definito “Il paese delle pietre urlanti” per il triste destino di questo popolo così segnato da una  storia antica e dolorosa,  qui nacque e diventò religione di stato nel 301 d.c. il cristianesimo apostolico 79 anni prima dell’impero romano e qui gli armeni, che vivono nel mondo, un giorno sperano di poter tornare. Sperano di poter tornare in questa piccolissima terra  che per loro non è uno stato ma il paese dell’anima dove placare i dolori di una tragica storia che li vide prima sotto il  periodo ottomano, poi nel 1915 subire la persecuzione, l’uccisione, la  morte per stenti. Un milione e mezzo di armeni morirono e cinque milioni lasciarono il paese per mano dei turchi che per scopi territoriali distrussero e annientarono un popolo e di cui mai ammisero il genocidio.

L’Armenia  odierna è un altopiano, con un’altitudine fra  i 2000 e 3000 metri, con catene di origine vulcanica, tra cui spicca l’Agri dag che in turco significa la montagna del dolore, il biblico monte Ararat che con la sua altezza di 5137 metri coperto di nevi perenni, rappresenta, seppur in territorio turco, la montagna sacra armena dove l’arca d Noè si arenò dopo il diluvio universale. Gli armeni si reputano discendenti diretti di Noè grazie al pronipote Haik,  da cui il nome originario del paese Hayastan, (“la terra di Haik”).

Ai piedi della montagna sacra si trova uno dei monasteri più suggestivi e più fotografati d’Armenia: Khor Virap, posto a 300 mt di distanza dal confine turco dove sentiamo, ironia, il nitido richiamo del muezzin, alla moschea, cristiani  e musulmani, gli uni accanto agli altri, cosi lontani e cosi vicini. La pianura intorno è fertilissima e tutta la coltivazione è dominata da frutteti, soprattutto albicocchi. Il paesaggio e la vista sono particolarmente suggestivi. Il Monastero è un famoso luogo di pellegrinaggio: S.Gregorio “l’illuminatore” il Santo che fece convertire gli armeni fu qui imprigionato per tredici anni, all’interno di un pozzo, scavato nella roccia. Decidiamo di calarci anche noi, il passaggio è strettissimo e una piccola scala di ferro ci permette di scendere giù, in fondo al pozzo c’è un piccolo altare in pietra e due giovani che stanno pregando.

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Capo Nord

Capo Nord: avrei desiderato arrivarci 30 anni fa in moto: un sogno. Parto per questo viaggio perché ancora oggi mi incuriosisce e mi emoziona l’idea di passare dei giorni senza mai vedere la notte. Sarà un viaggio prettamente naturalistico che si distingue dai miei ultimi viaggi, volti alla conoscenza di popoli e culture.

Il viaggio Venezia-Oslo con scalo a Copenhagen dura circa quattro ore: arrivo ad Oslo alle venti. La temperatura è stranamente di 28 gradi, e alle undici di sera nella capitale norvegese non è ancora buio. Una considerazione arrivando ad Oslo: sono soltanto a metà strada dal punto di arrivo. Oslo è la capitale più antica del Nord Europa. Quasi completamente distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale, oggi è una città con 570.000 abitanti sita in fondo ad uno dei fiordi più belli, circondata da isolette e colline ricche di boschi. Ad Oslo si assegna il Nobel per la pace, l’unico Nobel a non venire assegnato a Stoccolma. Visito il parco più importante, il Frogner Park, noto per le sculture di Vigeland; anche se la tappa  più interessante, per uno come me non molto attento all’arte, è la visita al museo dove sono esposte molte tele di importanti pittori. Il più emozionante è senza dubbio “L’URLO” di Munch che da solo può valere il viaggio.

All’indomani, dopo un volo di circa un’ora arrivo a Bodo ed è da qui che la luce avrà la meglio sulle tenebre fino al termine del viaggio. La cosa che più mi colpisce è che nelle ore per noi “notturne” naturalmente non c’è nessuno in giro e sembra di vivere in una città fantasma. Da Bodo prendo il traghetto che mi porta dopo tre ore di navigazione verso l’arcipelago delle isole Lofoten. Il paesaggio durante la navigazione è spettacolare con costiere mozzafiato e picchi incredibili. Sbarco e proseguo per Å un paese con il nome più corto al mondo e il più piccolo delle Lofoten. Un villaggio di pescatori veramente pittoresco con le coloratissime casette in legno color giallo ocra o rosso. C’è una luce particolare, dovuta alla posizione geografica: le Lofoten sono ad una latitudine di 67° nord sopra il circolo polare artico, come l’Alaska e la Siberia ma l’influenza della corrente del golfo ne mitiga notevolmente il clima.

Le Lofoten oltre ad essere delle meravigliose isole sono celebri per la pesca del merluzzo, che qui arriva in banchi dal Mare di Barents per riprodursi e deporre le uova.
Da metà gennaio a fine marzo centinaia di pescherecci ne pescano a milioni. Dopo le catture il pesce viene pulito e decapitato. Poi a terra i merluzzi vengono legati a due a due e quindi appesi alle rastrelliere di legno per far sì che vento, sole e pioggia completino il lavoro di essiccazione che trasforma, dopo circa tre mesi, il merluzzo in stoccafisso.
L’Italia è il principale acquirente, e il 90% dello stoccafisso che arriva da noi viene proprio dalle Lofoten.

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San Lazzaro degli Armeni

Quasi di fronte all’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta, fermata principale del Lido di Venezia, verso Ovest, si trova l’isoletta di San Lazzaro degli Armeni, definita da uno dei maggiori poeti del novecento, Aldo Palazzeschi, “isoletta venuta dall’oriente galleggiando, e rimasta incantata davanti a Venezia”.

Questa perla della laguna, trascurata in passato dalla storia e dagli uomini ma rimasta immutata nonostante il passare del tempo, è stata presa in cura e salvata dall’erosione della salsedine e dal disinteresse, da pochi monaci armeni che fecero di questo spicchio d’oriente uno dei più importanti centri di riferimento culturale e religioso per il popolo armeno.

Breve storia dell’isola:

  • 810: un abate del monastero benedettino di sant’Ilario di Fusina riceve in affidamento l’isolotto dalla Serenissima repubblica di Venezia.
  • 1182: viene trasferito l’ospedale dei lebbrosi di San Trovaso e l’isola prende il nome di San Lazzaro, protettore dei lebbrosi (vedi la derivazione del termine “lazzaretto”).
  • Fu in seguito costruita la prima chiesa, dedicata a San Leone Magno, e in seguito la chiesa attuale dedicata a San Lazzaro.
  • 1300: venne costruito un lazzaretto.
  • Prima metà del ‘500: il Senato della Repubblica vi trasferì i poveri della città, dato che i lebbrosi ospitati si erano ridotti a poche unità. Quando poi i poveri furono trasferiti a San Zanipolo a Venezia, vicino all’attuale Ospedale Civile, l’isola fu abbandonata.
  • Nei secoli successivi: comunità di religiosi vi soggiornarono per brevi periodi.
  • 1717: finalmente un nobile monaco armeno, Mechitar (che significa il “consolatore”), fondatore poi dell’Ordine dei Padri Armeni Mekhitaristi, chiede di potersi stabilire con i suoi 17 monaci (tutti fuggiti dalla persecuzione turca che imperversava ad Istanbul), con l’intento futuro di ospitare gli esuli armeni.

Un melograno, albero nazionale armeno, sarà il primo incontro quando si esce dall’imbarcadero.

Nella parte nord dell’isola si possono ammirare i bellissimi giardini che conducono ad un piccolo cimitero delimitato da file di cipressi, ulivi e cedri. Un sentiero che costeggia il muro di cinta riserva in lontananza, da un’angolazione poco conosciuta al turismo di massa, un’indimenticabile vista del bacino di San Marco. Nella parte meridionale filari di pini riparano dal vento della laguna le preziose aiuole di rose che i monaci coltivano gelosamente e il loro intenso profumo inebrierà il visitatore. Quello che più emozionerà in questo magico luogo, dove si percepisce il respiro dei secoli, sarà l’ospitalità e la simpatia con cui i monaci accolgono i visitatori, accompagnandoli alla scoperta dell’isola, dei suoi tesori e della storia del loro popolo, fornendo tutte le spiegazioni alle domande che saranno rivolte.

Alla fine della visita non resta che portare nelle proprie case un ricordo di questo splendido luogo, come ad esempio un vasetto della deliziosa e profumatissima marmellata di petali di rosa, colti al sorgere del sole, come vuole la tradizione, preparata dai monaci stessi: un piccolo, dolce assaggio del profumato e prezioso oriente.

La messa con rito cattolico armeno si celebra ogni domenica alle ore 11.00.

Mechitar:

Mechitar fece riedificare la chiesa e il convento, ingrandì di quattro volte l’isola fino agli attuali 3 ettari, raccolse importanti opere della cultura armena, tradusse in armeno moltissimi libri di scienza, letteratura, archeologia e religione. Nel 1798 viene fondato un centro poligrafico per stampare tutte queste opere soggette a traduzione, centro che per fortuna riuscì a sfuggire all’azione distruttrice anticlericale di Napoleone, poiché il centro grafico fu considerato “accademia letteraria”.

Cosa si può visitare:

  • La chiesa: in stile gotico, ricostruita nel XIX secolo, a tre navate, con abside decorata a mosaico, nella quale si svolgono suggestive cerimonie religiose; da visitare il chiostro rinascimentale con porticato.
  • Il monastero: edificato nel XVIII secolo, dove una lapide ricorda il poeta e politico inglese Lord Byron, amico del popolo armeno. Lord Byron, che soggiornò in quest’oasi di pace e qui studiò la lingua armena collaborando alla stesura di una grammatica per gli studiosi inglesi, viene ricordato in una mostra permanente.
  • Il museo: dove sono conservati reperti raccolti dai monaci o ricevuti come regali nel corso dei secoli. Si contano oltre 4.000 manoscritti armeni che vanno dal VI al XVIII secolo (la più importante e ricca collezione di manoscritti armeni dell’occidente) e molti manufatti arabi, indiani ed egiziani, tra cui la curiosa mummia di Nehmeket del 1000 a.C..
  • La pinacoteca: raccoglie opere di scuola veneta e armena del XVII e XVIII secolo. Si possono ammirare opere di Palma il Giovane e un bellissimo affresco del Tiepolo.
  • La biblioteca: contenente circa 200.000 volumi ! Pare che in un’ala segreta della biblioteca si trovi la più grande raccolta al mondo di testi di magia nera: addirittura si favoleggia che alcuni tomi sarebbero rilegati con pelle umana.

Per chi volesse visitare questo splendore ecco gli orari dei battelli. Si ricorda che c’è una sola visita guidata al giorno, che si svolge alle ore 15:00, in coincidenza con l’arrivo del vaporetto che lascia San Zaccaria alle 14:30.

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L’orto di fronte al mare: Sant’Erasmo

La cosiddetta “Venezia minore” possiede un fascino che, specialmente per chi conosce più in profondità la storia della “Serenissima Repubblica”, spesso supera quello assaporato da immagini forse troppo note e ripetutamente osservate in testi, quadri, guide turistiche. Pur riconoscendo che l’impatto reale con una piazza San Marco o una Punta della Dogana, come d’altronde con un’opera pittorica prima solo veduta stampata in un libro, crea un’emozione indimenticabile, sono più semplici, pure ed incontaminate le sensazioni che si provano nel visitare luoghi meno noti al turismo, ma palpitanti di antiche memorie, circondati da specchi d’acqua dove pare che il tempo si sia fermato. Qui l’angolazione da cui si osservano sulla linea dell’orizzonte i profili di palazzi, guglie e campanili veneziani rappresenta una novità assoluta per gli amanti della fotografia e per percepire in prospettiva diversa il respiro profondo dei secoli della storia.

Le isole minori della laguna di Venezia ci offrono tutte queste emozioni. Alcune purtroppo lasciate  all’incuria e alla distruzione del tempo, altre recuperate e fatte rivivere anche con caratteristiche totalmente diverse da quelle originali, altre intatte e con al loro interno inestimabili valori storici ed artistici. E’ splendido immaginare come queste isole che fanno da contorno alla Regina dell’Adriatico un tempo fossero tutte popolate e brulicanti di vita e di barche, cariche di storia e tradizioni.

Cominciamo allora a conoscere meglio quelle meno note ed iniziamo con l’isola di Sant’Erasmo.

Quest’isola si trova nel tratto di laguna a nord di Venezia, al centro di un ideale triangolo formato dalle isole di Murano e Burano e dal litorale di Punta Sabbioni. E’ interessante rilevare il fatto che, anticamente, l’isola si affacciava direttamente sul Mare Adriatico e che, solo con la costruzione della diga nord del Lido di Venezia, si ritrovò in acque interamente lagunari. Fu popolata inizialmente dai fuggiaschi dell’entroterra, specialmente dagli abitanti di Altino. Una leggenda racconta che, durante la costruzione della chiesa, sarebbe stata miracolosamente rinvenuta una grande quantità d’oro. Quando era doge Paoluccio Anafesto era chiamata Pineta Maggiore, in riferimento alle selve citate in un documento del 1455 che decretava aspre sanzioni contro chi le avesse danneggiate. Nel 792 vi fu fondata una chiesa (consacrata ai SS. Martiri Erme ed Erasmo) sul sito di un preesistente luogo di eremitaggio, chiesa che venne restaurata nel XII secolo. L’isola geologicamente si ampliò quando il livello del mare, che si abbassava da decenni progressivamente, unì i vari affioramenti di modesta estensione che componevano il primo litorale. Verso la metà del XIII secolo la formazione dell’isola doveva essere oramai completata.

Durante la guerra di Chioggia fu occupata per breve tempo dai Genovesi e nello stesso periodo fu usata come cimitero per i morti della peste del 1348.
In seguito ebbe un periodo di fiorente sviluppo (gli archivi ricordano la presenza di alcuni mulini a vento), ma nel XVI secolo l’isola, in parte abbandonata in seguito ad un’epidemia, aveva oramai un connotato decisamente agricolo.

Nel 1820 venne intrapresa una politica di ripopolamento che portò Sant’Erasmo alle attuali condizioni. Sempre nell’Ottocento furono potenziate le già esistenti fortificazioni con la costruzione del Forte di Sant’Erasmo e dell’annessa Torre Massimiliana, massiccia fortificazione asburgica iniziata dai francesi e rifugio dell’imperatore Massimiliano durante le insurrezioni del 1848. Ora è stata completamente recuperata e risanata dal Magistrato alle Acque di Venezia.
L’attuale chiesa, fu costruita nel 1929 sui precedenti fondazioni.

Il Carciofo di Sant’Erasmo:

In provincia di Venezia sono coltivate due varietà di carciofo: il “Violetto di Chioggia” e il “Violetto di Sant’Erasmo”.
Da secoli ormai, in laguna di Venezia in particolare a Sant’Erasmo, Vignole, Lio Piccolo, Malamocco, Mazzorbo, si producono carciofi di grande qualità, frutto del lavoro e della tenacia di agricoltori, che a dispetto delle mode del mercato globale, riescono a conservare antichi sapori.
Questa tradizione permane soprattutto a Sant’Erasmo, i cui terreni, consentono la coltivazione di verdure saporite tra le quali il carciofo violetto cha ha preso il nome proprio da quest’isola.
Tenero, carnoso, poco spinoso e di forma allungata, il carciofo di Sant’Erasmo ha le brattee color violetto cupo, che racchiudono un cuore dal gusto inconfondibile.
A Sant’Erasmo i primi carciofi vengono raccolti verso inizio di aprile. Questi carciofi, che vedono letteralmente impazzire i veri intenditori, sono le “castraure”, cioè il frutto apicale della pianta di carciofo che viene tagliato per primo in modo da permettere lo sviluppo di altri 18-20 carciofi laterali (botoli) altrettanto teneri e gustosi. Le castraure sono famose per il loro gusto unico e particolare, un carciofo tenerissimo che è un insieme di sapori, dal leggero sapore amarognolo, che ne esaltano l’inestimabile valore organolettico.

Consigli utili:

  • Da Portogruaro recarsi a Punta Sabbioni, dopo aver superato Jesolo. Da lì partono i vaporetti della linea ACTV che traghettano verso Sant’Erasmo. E’ molto bello passeggiare per l’isola a piedi o in bicicletta.
  • Percorso: dal pontile ACTV di S.Erasmo-Capannone si prende la carrareccia diretta a sud e la si segue compiendo il periplo costiero dell’isola.
  • Lunghezza: 9 Km
  • Tempo di percorrenza: 3 ore (escluse le soste)
  • Viabilità: il percorso si svolge per circa quattro chilometri su strada asfaltata e per i rimanenti cinque su stradine bianche o sterrate.
  • Punti d’appoggio: sull’isola è presente un solo negozio di alimentari presso il centro abitato. In caso di emergenza ci si può rivolgere alle numerose abitazioni private.
  • Ristorante: Ristorante Vignotto
  • Indirizzo: Isola di Sant’Erasmo, 71 logo, Sant’Erasmo
  • Città, provincia e CAP: Venezia (VE) – 30141
  • Telefono: 041-2444000 – Fax: 041-8109929
  • Periodo consigliato: da aprile a ottobre
  • Abbigliamento: adeguato alla stagione; il clima può essere caldo afoso nei mesi estivi o ventilato nelle stagioni intermedie. Si consigliano buone calzature.
  • Avvertenze: all’arrivo verificare gli orari del vaporetto per ripartire; rispettare le colture e le proprietà private. Nei giorni festivi dell’estate l’isola viene raggiunta da numerosi bagnanti che frequentano la spiaggia.

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Sviluppo e tradizione: un fragile equilibrio

Da alcuni anni lavoro per Medici Senza Frontiere, combinando la mia professione col desiderio e il piacere di vivere in paesi ogni volta diversi e la possibilità di osservare e a volte condividere la vita delle comunità che vi abitano. Lavorando in “coordinazione”, il gruppo di persone che coordinano tutti i progetti di un determinato paese, risiedo in capitale ma faccio visite frequenti ai progetti che invece si possono trovare in zone remote.

È un dato di fatto che la diffusione dei beni di consumo in tutte le grosse città in cui ho abitato è capillare e oramai omologata, nel senso che le multinazionali distribuiscono gli stessi prodotti ovunque nel mondo. Mi viene così da pensare che desideriamo tutti le stesse cose, e analizzando i desideri da un punto di vista consumistico, i desideri di un consumatore dei paesi sviluppati non sembrano differire molto da quelli dei paesi in via di sviluppo. Ma in alcune rare occasioni questa idea è stata smentita.

Lo scorso anno mi trovavo in Cambogia, e durante una pausa dal lavoro ho fatto un viaggio nel Ratanakiri, una provincia nord-orientale, poco interessata dal circuito turistico, dove, al confine con Vietnam e Laos, si trovano i villaggi dei Degar (letteralmente “figli delle montagne”). Sotto questo nome si uniscono circa quaranta gruppi etnici tra i quali i Tompuon e i Jarai sono i più noti in Cambogia. I Degar sono gli originali abitanti del sud dell’Indocina che si ritirarono gradualmente nelle zone montagnose del Vietnam, Cambogia e Laos in seguito all’espansione di popolazioni più numerose e forti come i Vietnamiti. I villaggi più vicini a Ban Lung, il capoluogo della provincia del Ratanakiri, hanno una popolazione prevalentemente Khmer, come la maggior parte della Cambogia, ma nelle zone più remote, raggiunte da strade sterrate che divengono impraticabili durante la stagione delle piogge e sono percorse a piedi o da qualche raro motorino durante la stagione secca, si trovano villaggi abitati esclusivamente dai Degar.

Questi villaggi, pur essendo raggiungibili in un giorno di cammino, vengono solo sfiorati dalla modernità. A parte gli abiti, pantaloni gonne e magliette al posto di quelli tradizionali, viene conservato uno stile di vita antico. I Tompuon tramandano ancora le loro conoscenze oralmente, sono sprovvisti di un alfabeto scritto, non hanno libri e non hanno scuole. La sopravvivenza della loro peculiarità è affidata ad una tradizione che privilegia l’isolamento.

Mi sono chiesto che cosa possa desiderare un Degar, se i suoi desideri si limitino alle cose che lo circondano, appartenenti alla sua quotidianità, oppure si estendano ai pochi oggetti che arrivano dalla città. Nei villaggi in cui sono passato o mi sono fermato a pernottare mi è sembrato che l’indifferenza alla fine vincesse sulla curiosità iniziale, ed io con tutti i miei gadgets dopo poche ore non costituivo più un evento che potesse turbare gli abitanti. Un atteggiamento così maturo fa sperare che il giorno in cui l’isolamento verrà rotto da una striscia d’asfalto poggiata su quei sentieri, che percorrono una foresta che già mostra segni evidenti di disboscamento, i Degar saranno pronti a fare i conti con la modernità, e forse riusciranno a non farsi travolgere dallo sviluppo più becero e consumistico e a mantenere viva la loro diversità.

Ma un pericolo più subdolo della modernizzazione mina l’integrità delle tradizioni di queste popolazioni, il rischio di un’omologazione culturale che equivarrebbe all’estinzione. Pur essendo il buddismo il credo prevalente in Cambogia e nei paesi confinanti, i Degar per tradizione sono animisti, credono cioè che tutte le cose sono animate da spiriti, benefici o maligni, superiori all’uomo, e ogni gruppo etnico ha dei rituali che lo contraddistinguono. Quelli funebri dei Tompuon sono alquanto originali. Ogni villaggio Tompuon ha un cimitero nascosto nella foresta, a volte molto distante. I morti vengono sepolti e sopra la sepoltura viene costruito un manufatto in legno con una o più sculture sempre in legno. Le sculture generalmente raffigurano il defunto, ma possono anche rappresentare un entità in cui reincarnarsi.

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Ghana, Togo, Benin

Il mio viaggio in Ghana, Togo, Benin, non era finalizzato a visitare luoghi, ma ad incontrare etnie e tribù che vivono in quei territori. Ho così percorso quasi 2500km su strade per la maggior parte mal asfaltate o in terra battuta ed ho notato alcune diversità fra questi Paesi.

In Ghana (ex Costa d’oro, ex colonia inglese e primo stato africano a rendersi indipendente) ho visto molte scuole, coltivazioni intensive specialmente di cacao e manioca; negli altri due stati, ex colonie francesi, dove la lingua ufficiale è ancora il francese, mi è sembrato di vedere più miseria, poche scuole e molta carenza di energia elettrica. Questa mia impressione è stata confermata dalla nostra guida, un togolese, il quale diceva che le cose funzionano meglio in Ghana, in particolare per quanto riguarda scuola e sanità, tant’è che i Togolesi più benestanti vanno a curarsi nelle strutture ghanesi.

Ma ritorniamo al viaggio: Accra, la capitale del Ghana con circa 2 milioni e mezzo di abitanti mi si presenta con un traffico caotico di biciclette, motorini, carretti, auto scassate e camioncini sgangherati il tutto in un concerto assordante di clacson; qui tutta la vita sociale ed economica si svolge sulla strada, dove è possibile trovare di tutto, perfino casse da morto a volte dalle forme bizzarre.

Il giorno dopo parto, attraverso un paesaggio di colline e foreste, alla volta di Elmina. Questa cittadina, assieme a Cape Coast, è tristemente famosa per il suo castello-fortezza costruito dai Portoghesi, e poi usato anche dai Francesi e dagli Inglesi e che serviva come base per la tratta degli schiavi. Qui venivano imprigionati i neri destinati alla deportazione e quelle stanze divise per uomini e donne, le celle per i riottosi, le segrete, le ampie stanze per le truppe e il lussuoso appartamento per il governatore di turno  evocano l’orrore della prigione e la crudeltà dei carcerieri. Bella la cittadina di Elmina, un tipico porto di pesca con centinaia di piroghe colorate.

Proseguo poi per Kumasi, che è considerata la capitale degli Ashanti, numeroso e ricco popolo, ben integrato nella vita del Paese. Qui ho visitato il palazzo del re ed il relativo museo, che conserva una ricchissima collezione di gioielli ed insegne reali in oro massiccio. Nel pomeriggio ho assistito, nel palazzo reale, ad una festa “akwasdae”, cioè un’uscita pubblica del sovrano che avviene ogni 42 giorni. Sotto un ombrello colorato, portato dai sudditi, arriva il re, vestito di stoffe preziose e adornato di antichi gioielli d’oro e si siede sul trono; segue poi una cerimonia alla quale intervengono numerosi rappresentanti: dai dignitari, alle autorità civili del governo ghanese a quelle religiose, compreso il nunzio apostolico.

Il giorno dopo, cambiando totalmente registro, partecipo ad un funerale ashanti; a questa cerimonia assistono alcune centinaia di persone che sfoggiano dei bellissimi costumi tradizionale rigorosamente neri e rossi. Il rito, che avviene mesi dopo il decesso e la sepoltura è un evento festoso e segna il passaggio del defunto tra gli avi.
Sono entrato in questo grande cortile e per prima cosa, io e i miei compagni di viaggio, abbiamo stretto, in segno di partecipazione, la mano ai famigliari. Successivamente, al ritmo di musiche e danze tradizionali, gli ospiti presentano le loro offerte alla famiglia del defunto, che in questo caso, era una donna morta 4 mesi prima.

Dopo questo bagno di folla, proseguo il viaggio verso Nord e il paesaggio muta e da foresta diventa, a poco a poco, savana; costeggio il lago Volta ed incontro dei minuscoli villaggi, dalle belle capanne d’argilla appartenenti alla etnia Gondja. Verso la frontiera con il Togo visito i villaggi Dagomba: questa popolazione rappresenta un ottavo dell’intera popolazione ghanese.

I loro villaggi si caratterizzano per la numerosa presenza di case rotonde con i tetti di paglia. Gli abitanti, dediti all’agricoltura, condividono questi territori con altri gruppi fra cui i KonKomba e proprio in uno dei loro villaggi ho visto raggruppate delle donne sulle quali pesava l’accusa di stregoneria e solo il capovillaggio, una specie di santone può decidere quando liberarle da questo malocchio.