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Progetto “Libertà di parola” di Pino Roveredo

Siamo lieti di collaborare nuovamente con lo scrittore Pino Roveredo, per il suo progetto “Libertà di parola”, che sarà da noi presentato mercoledì 15 gennaio 2014, alle ore 8:30, presso la scuola secondaria di 1° grado “Marco Polo” di Pramaggiore.

Di seguito la presentazione del progetto, a cura dell’autore.

PREMESSA

“La nostra è una generazione morta”. È una frase lasciata su un post-it da uno studente (o studentessa… chissà?) di una Scuola Superiore. Una sentenza senza appello, che con stupore ho sentito sulle bocche di molti suoi coetanei, di altri Istituti, di altre località. Una sentenza che mi ha fatto crescere l’urgenza di doverla raccontare, quest’assenza di speranza, ambizione, e proprio attraverso le parole di chi invece ha ancora tutto da vivere, lavorare, creare. Ho provato ad affrontare la scuola con la discrezione di chi si annuncia bussando sempre due volte, e mai col prestigio imposto della spiegazione ma sempre con l’umiltà del racconto. Ma anche con la non presunzione di portarsi dietro l’imposizione di una ragione, ma che con il desiderio dell’ascolto, prova a saltare oltre a quei concetti e preconcetti che spesso danno forma alla staticità (o comodità) di un pensiero comune, quello che vede girare i ragazzi nella superficialità e banalità di chi non ha nessun interesse verso quelle tematiche sociali che attraversano la nostra quotidianità, e che li dovrebbe vedere assolutamente parteci sul palco della vita.

Ora, io credo di conoscere discretamente bene quel mondo e i suoi protagonisti, avendo negli ultimi anni, da Aosta a Mazara del Vallo, fatto più di cinquecento incontri in Istituti Scolastici (sia scuole superiori che scuole medie) e in Centri di Aggregazione Giovanile. Incontri che mi hanno permesso di incrociare, incontrare e conoscere parecchi aspetti della nuova generazione, e a memoria non rammento un episodio o un passaggio vissuto con la leggerezza della futilità: tutti sono stati importanti e tutti sono entrati nel piacere della curiosità. In quegli incontri ho raccolto testimonianze, posizioni, confessioni, rabbie, delusioni, euforie, pensieri, parole, e talvolta… anche lo specchio muto del silenzio. Ecco, pensando a quei silenzi mi è sempre venuto spontaneo pensare a quello che don Luigi Ciotti (fondatore del Gruppo “Abele”) diceva una quindicina di anni fa, quando all’interno di un convegno sottolineò:

– I nostri ragazzi e il mondo della scuola è profondamente cambiato. Ieri ci si preoccupava per i ragazzi agitati e si lodava anche con un “10” in condotta quelli che non facevano “casino”, rumore. Oggi invece, i ragazzi “vivi” sono una risorsa, mentre quelli che girano nell’apparente quiete del silenzio devono accendere una preoccupazione, perché spesso hanno delle rivoluzioni in corpo che non riescono a far esplodere! – Probabilmente è da quella volta che i ragazzi “buoni”, quelli che non rompono le scatole e non disturbano col disturbo e la parola, sono diventati un motivo di profondo interesse, e spesso, quando siamo riusciti (anche a fatica) ad accendere un dialogo, quasi sempre sono usciti storie di tormenti, problemi di anaffettività e svariati accenni che toccavano il male di vivere.

Pino Roveredo

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Un Sillabario per il Sillabo

“… e liberamente vuol dire di non essere costretto a mandarli a scuola in una scuola di Stato dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli educandoli nell’ambito della loro famiglia” (Silvio).

– L’errore XLV
Svelato l’arcano dell’ostinazione con cui si susseguono da anni le riforme epocali della scuola: si tratta di correggere errori, emendare abbagli, mondare storture. Ce lo dicevano, del resto, già dal 1864 che è “uno dei principali errori dell’età nostra” quello di ritenere che “l’intero regolamento delle pubbliche scuole, nelle quali è istruita la gioventù dello Stato […], possa e debba essere attribuito all’autorità civile; e talmente attribuito, che non si riconosca in nessun’altra autorità il diritto di intromettersi nella disciplina delle scuole, nella direzione degli studi, nella collazione dei gradi, nella scelta e nell’approvazione dei maestri” (Enciclica “Quanta cura”, Sillabo di Pio IX, errore XLV).

Il nostro Presidente, giustamente, non vuol passare alla Storia come “cavaliere errante” (cioè come uno di quei miseri che perseverano nell’errore), vuol anzi essere nostra guida e nostro aiuto nella sconfitta dell’errore stesso e del disordine. In modo persino accorato, egli ci ricorda dunque come sia assurdo che le pubbliche scuole siano rette dall’autorità civile, come sia assurdo pensare che non vi debba essere un’autorità morale superiore, la quale per sua natura non può esimersi dall’indirizzare gli studi, regolarne la progressione, scegliere e approvare i maestri: “non est enim potestas nisi a Deo”.

Facciamo barriera dunque all’errore, ripristiniamo l’antica verità: philosophia ancilla theologiae!

L’affermazione che segue grida infatti vendetta al cospetto di Dio:

“L’ottima forma della civile società esige che le scuole popolari, quelle cioè che sono aperte a tutti i fanciulli di qualsiasi classe del popolo, e generalmente gl’istituti pubblici, che sono destinati all’insegnamento delle lettere e delle più gravi discipline, nonché alla educazione della gioventù, si esimano da ogni autorità, forza moderatrice ed ingerenza della Chiesa, e si sottomettano al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica secondo il placito degli imperanti e la norma delle comuni opinioni del tempo.” (Errore XLVII).

In un articoletto di un certo Paolo Deotto, sul sito web Riscossa cristiana. Sito cattolico di attualità, cultura, ecc., si legge tra l’altro “Ora Berlusconi ne ha fatta un’altra delle sue, ossia ha detto un’altra cosa arcinota, ma che si deve tacere. Ha detto che la scuola pubblica non educa…”

È arcinoto, dunque, che gli insegnanti nella scuola statale vogliono inculcare principi che sono il contrario di quello “che i genitori vogliono inculcare ai loro figli”. E la cosa è evidentemente dovuta al fatto che non c’è più un’autorità indiscutibile che vagli e approvi i maestri; non c’è più nessuno, oltre all’autorità civile, che si intrometta nella disciplina delle scuole…: ecco perché questi insegnanti della scuola di Stato possono impunemente “introdurre con violenza”, nelle menti dei giovani, principi contrari a quelli delle famiglie del nostro presidente.

E non c’è collega illuminato, o dirigente scolastico o genitore, che possa intervenire, chiedere, discutere con tali “inculcatori” al servizio dell’eresia: bisogna liberare gli Italiani dalla costrizione che li priva della libertà di educare i propri figli, dall’imposizione della scuola di Stato.

Certo è però che non si capisce come mai nella scuola di Stato (in questa sorta di Babilonia contro natura) ci siano anche tanti insegnanti certificati dall’autorità diocesana (25.694), e tanti insegnanti che si indebitano (magari usufruendo oggi di qualche sconto) per mandare i propri figli in quella stessa scuola “libera” in cui non hanno scelto di insegnare: fanno parte anch’essi di quelli che “non educano” e inculcano?

***

– “Principi contrari a quelli che le famiglie vogliono inculcare”
Sono le parole finali, precise precise, delle cose arcinote divulgate dal Cavaliere alla platea dei Cristiano Sociali: applauditissime.

Ma le famiglie devono poter “inculcare” ciò che vogliono ai loro figli?
Certo! Tutte le più moderne teorie pedagogiche sono infatti concordi nel ritenere che alle famiglie, e solo alle famiglie, spetti il compito di “inculcare”: solo ad esse è lecito, se non doveroso e giusto, “introdurre a forza” e “spingere dentro col calcagno”, nella testa dei loro figli, i “principi che vogliono”.

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La scuola è finita

E’ ovvio che il titolo dell’articolo e la foto sono provocatori.

Ultimamente però mi sono chiesto se la scuola è finita chiedendomi così se essa adempie ancora ai suoi scopi.

NEL DIZIONARIO ON LINE ALLA VOCE SCUOLA si legge: istituzione organizzata sistematicamente a scopo di istruzione ed educazione.
Quanto quindi, oggi, la scuola riesce a istruire e a educare???

Alcuni mesi fa pubblicai un’articolo (lo trovate nelle note di questa pagina) in cui favevo riferimento a un documento che mi aveva fatto conoscere un nostro INESTIMABILE COLLABORATORE Enzo Guidotto (presidente dell’osservatorio veneto sul fenomeno mafioso): EDUCAZIONE ALLA LEGALITA’.

Tale documento, da lui scritto, è tratto dalle linee di indirizzo del Ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni del 23/05/2007 “nate” a seguito del Comitato Nazionale “Scuola e Legalità”.
In tali linee di indirizzo si legge: l’educazione alla legalità finalizzata alla lotta alle mafie  deve passare attraverso la necessità di far conoscere agli studenti la storia e le caratteristiche del fenomeno mafioso al fine di promuovere nei giovani il senso di responsabilità civile e democratica per spronarli ad un costante impegno sociale.
Morale si da, per iscritto, anche alla scuola il compito di “parlare di mafia” e gli si riconosce, così, il suo “potere educativo”.

Alcuni di voi sapranno quanto ritango  FONDAMENTALE parlare di mafia ai giovani specialmente al nordest.
A tal proposito anche negli incontri del 22 e 29 ottobre abbiamo più volte sollecitato le scuole, i professori e i genitori a far si che la scuola organizzi dei “percorsi di legalità magari attraverso degli incontri così da  attuare le sopra citate linee guida. Oltre a ciò avevo contattato telefonicamente alcuni professori per proporgli delle mie idee in merito.
RISULTATO? SILENZIO TOTALE se non dei NO-MI SPIACE motivati dal fatto NON ABBIAMO SOLDI (che non servono se è l’associazione a promuovere la cosa) !!!!!

Accogliendo così l’invito del prof. Guidotto ho deciso di scrivere tramite raccomandata (saranno spedite a giorni ndr) a tutti i Presidi delle scuole Superiori di PN, in copia al provveditore, invitandoli a organizzare degli incontri tra studenti e magistrati o scrittori o famigliari di vittime innocenti di mafia o presidenti di associazioni “antimafia”.

Non so se riceverò una risposta a tali richieste e ovviamente non chiedo-pretendo che questa associazione rivesta un ruolo attivo in tutto ciò anzi: CIO’ CHE CONTA E’ PARLARE BENE DI MAFIA, NON CHI LO FA!
Semplicemente tra gli obbiettivi dell’associazione c’è quello di promuovere la conoscenza e la comprensione del fenomeno mafioso soprattutto tra le giovani generazioni e, per me in particolare, sarebbe un sogno vedere gli studenti ascoltare l’eventuale relatore come ascoltai io Rita Borsellino ad Aviano circa 15 anni fa.

Siamo sempre pronti a dire che il futuro è dei giovani quasi per scaricare a loro le nostre responsabilità-mancanze. Io credo invece che siano i meno giovani a dover fornire ai figli, amici o studenti tutte quelle informazioni, esempi e strumenti che possano portare ad una cultura della legalità e la scuola, in tutto ciò, gioca un ruolo fondamentale.

Ovviamente se qualcuno di voi lettori volesse prendere esempio da me, approfondire la cosa o avere dei suggerimenti è per me un dovere e un piacere essere a vostra disposizione.
Sono sicuro che tra di voi lettori ci sono genitori con figli a scuola e magari anche qualche insegnante.  Vi chiedo quindi: E’ UTILE SECONDO TE/VOI/LEI PARLARE SERIAMENTE DI MAFIA NELLE SCUOLE? COSA HA/HAI/AVATE FATTO IN MERITO?

Vi terrò aggiornato sull’esito delle raccomandate.

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“Epocale”. La musica delle alte sfere

Non c’è alcun dubbio riguardo all’aggettivazione: si tratta proprio di un’altra riforma epocale, anche perché così se l’è definita il Ministro.

Con i governi Berlusconi si fanno solo cose epocali…, o non se ne fa nulla!

Dopo quella – pur essa “epocale” – della Brichetto Arnaboldi, (ai più nota col cognome del marito, tal Moratti), i tempi son di nuovo maturi: l’evo muta ancora.
Dopo più di mezzo secolo di quasi totale glaciazione, oggi nella scuola le ere si susseguono affannosamente accavallandosi l’una sull’altra. Dalle tre “i” per un solo alfabeto, che contrassegnavano i tempi delle vacche grasse, si passa alle odierne – epocali – vacche magre gelminiane: niente “i”, in tempo di crisi.
E meno “a”, meno “b”, meno “c”…

Ma, soprattutto, niente “m”!
La musica è completamente sparita da tutti gli indirizzi della scuola superiore.
Ma come? E il liceo musicale, il fiore all’occhiello dell’epocale?

Il Corriere della sera di sabato 10 aprile intitola un suo articolo sul fondo della prima pagina “Il liceo musicale fa il tutto esaurito”. Poi, offrendo la spalla alla réclame di governo, scrive: “Molto bene lo scientifico senza latino. Così così il nuovo artistico. Tutto esaurito al musicale e al coreutico […]”.
Ventotto licei in tutta Italia, per una disponibilità di massimo ottocento posti su una platea di più di cinquecentomila studenti in uscita dalla scuola secondaria di primo grado: solo uno studente e mezzo su mille può ambire a frequentare una prima classe di liceo musicale.
Sarebbe una notizia da prima pagina se “non” ci fosse il tutto esaurito!

Eppure a pagina 31 dello stesso numero del Corriere, si fa dire ad Harding (il celebre direttore d’orchestra) che “l’Italia è all’avanguardia”. Ma proseguendo nel testo, Harding afferma poi: “So quanto sia importante lo spazio riservato alla musica nella cultura italiana e questo per me è sempre stato fonte di ispirazione […]. Senza musica non esisterebbe cultura […]”.

Appunto: in Italia nel prossimo anno scolastico, con tutta questa musica, avremo dunque uno 0,16 per cento di cultura (non in più, in totale: tale è la percentuale ottimistica dell’incidenza del Liceo musicale nel panorama delle scelte possibili). Maestro Harding: è questa l’Avanguardia che tanto ci invidia?
In compenso non si sanerà assolutamente l’ignoranza musicale degli altri licei: si è anzi provveduto ad eliminarne l’insegnamento dall’unica scuola secondaria superiore in cui resisteva, il liceo psico-pedagogico.

E così, per esempio, il futuro studente del Liceo artistico ad indirizzo audiovisivo (si noti l'”audio”) e multimediale non dovrà naturalmente acquisire competenze musicali specifiche. Ma perché mai dovrebbe?, son tutti capaci di suonarsi quattro accordi sulla chitarrina o di strimpellare sulla tastiera le prime tre note di “Per Elisa”.
La musica è come le escort: poco dignitosa; se la si vuole, che la si paghi.
Non è necessaria. È un di più. Da tenere nascosta. Tutt’al più un riempitivo pubblicitario.

E pensare che a noi, delle basse sfere, bastava per esempio che si facessero funzionare i Laboratori musicali territoriali: opportune convenzioni tra gli Istituti superiori di una determinata area geografica avrebbero permesso la diffusione della cultura musicale ben oltre la torricciuola d’avorio di questo Liceo musicale. Qualsiasi studente di scuola superiore avrebbe potuto arricchire il proprio curriculum accedendo ad una struttura che non aveva bisogno di essere inventata ex-novo, ma solo di essere organizzata ed integrata nel complesso dell’istruzione secondaria.

Certo, alla base di tutto c’è anche l’arrogante presunzione che qualsiasi innovazione possa essere “senza oneri aggiuntivi”: tutti son capaci di far belle cose spendendo e spandendo.
Ma in tal caso non sarebbero certo cose “epocali”!

E a quelli delle alte sfere interessano solo le egregie cose capaci di eternare il loro nome nella memoria dei posteri: tra qualche anno – nell’epoca prossimo-ventura che già incalza – il nome di Beethoven sarà definitivamente scomparso e finalmente potrà sovranamente brillare, nella sfera più elevata, quello di Maria Stella!

Noi potremo solo uscire a guardare, muti e attoniti, là in alto.

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Scuola: la nuova resistenza

Proponiamo un estratto dell’intervista della giornalista Simonetta Fiori ad Alberto Asor Rosa, già direttore del Dipartimento di Studi filologici, linguistici e letterari dell’Università “La Sapienza” di Roma, pubblicata dall’Editore Laterza nel volume “Il grande silenzio – intervista sugli intellettuali” – edizione 2009.

I paragrafi sono preceduti dalle sillabe D ed R ovvero “Domanda”, “Risposta”. Le domande sono riportate in corsivo.

D. E’ cambiato il senso degli italiani su fascismo e antifascismo. Il “berlusconismo” si connota come azzeramento del senso storico. Avanza numerosa la tribù dei nuoveax reactionnnaires. Siamo in presenza di un’egemonia culturale di segno radicalmente diverso?

R. Su questo io avrei qualche dubbio. E’ vero che a questa lettura storica rovesciata, o all’ideologia onnivora del presente, non si contrappongono efficacemente né grandi organismi collettivi come i partiti né i tradizionali artefici dell’opinione pubblica. Tra i giornali, alcuni sono consenzienti, altri non sufficientemente avvertiti. Sono pochi i quotidiani che tentano di opporsi a un uso pubblico della storia distorto e strumentale. Ho l’impressione che non vi sia lucida consapevolezza intorno a una fenomenologia che pure è allarmante. Quindi l’operazione in apparenza conosce pochi ostacoli. Sono persuaso però che nel paese vi siano ancora zone di resistenza molto forti, ed è da queste che dovremmo ripartire, quando avremmo deciso di iniziare il nuovo “percorso”.

D. Quali sono queste “zone di resistenza”?

R. Guardi, sono perfettamente consapevole di non essere in grado di farle un elenco ragionato. Del resto, se non fosse così, la diagnosi non sarebbe così pessimistica. Penso dunque che sia più utile parlare in questa fase di “zone di resistenza” che, nonostante tutto, si annidano pressoché ovunque all’interno dell’opinione pubblica, rifiutandosi di farsi coinvolgere nell’operazione corruttrice del berlusconismo. Naturalmente non parlo di operazioni strictu sensu politiche che richiederebbero un discorso tutto diverso. Continuo ad aggirarmi, sia pure in un’ottica diversa, nel campo delle funzioni intellettuali, che hanno il peso più rilevante in questa storia. Siccome non è più lecito aspettarsi granchè dai tradizionali maitres à penser, dobbiamo pensare ad aree di “pensiero diffuso”, spesso organizzate istituzionalmente, con funzioni pubbliche storicamente definite. Da tempo penso di scrivere qualcosa che cominci con questa frase: “Vorrei parlar bene della scuola italiana”. Unità nazionale, spirito critico, modelli culturali: da Sondrio a Capo Pachino non c’è altro tessuto che possa sostituire questo. Funziona male? Funziona, io penso, a macchia di leopardo, come qualsiasi macchina istituzionale comporta. Ma complessivamente è ancora un baluardo di dimensioni difficilmente espugnabili. E tuttavia, non casualmente, hanno già cominciato a provarci. L’accanimento con cui in questi mesi s’è tentata una disarticolazione pesante della struttura scolastica italiana, non a caso ripensata e ridimensionata, è segno rivelatore che in questi luoghi formativi il messaggio “neorevisionistico” o il nuovismo berlusconiano non sono penetrati. Naturalmente parlo sulla base di percezioni limitate e settoriali, che forse varrebbe la pena di approfondire. Come la pensano i professori di storia, di  italiano, di latino, di filosofia, di scienze, di matematica, di arte su questa fase della vita pubblica nazionale? Da quel che avverto, l’egemonismo della nuova cultura è rimasto fuori dalle aule scolastiche.

D. Sta dicendo che l’ideologia della “civiltà che avanza” ha trovato un bastione di resistenza nella scuola più che altrove?

R. Non è un fattore secondario se consideriamo il ruolo formativo svolto da queste strutture sulle generazioni più giovani. Recentemente sono stato tentato di scrivere un “elogio della scuola italiana” proprio per questa attenzione ai valori civili che altrove sembrano calpestati. Tra gli insegnanti, più che in altri settori della vita nazionale, persiste un livello di autonomia molto alto. Rispetto alla sciagurata smemoratezza dilagante nel paese, ai vuoti di memoria che contagiano pesantemente anche la sinistra, allo spirito del tempo celebrato da Berlusconi, la scuola è l’ultima frontiera: le sue strutture, i suoi docenti, i suoi libri di testo rimangono saldamente ancorati alla tradizione storica italiana. L’homo novus italico – plasmato dai Grandi Fratelli e dalle lusinghe della “civiltà montante” – s’imbatte qui in un grosso ostacolo.

D. Ed è per questo che si cerca di indebolire la scuola?

R. Il disegno mi sembra abbastanza evidente. Per il nuovo potere dominante, questo spazio formativo non ancora omologato allo “spirito del tempo” risulta intollerabile. Non è casuale l’attacco parallelo all’altro polo autonomo per decisioni e scelte, ossia la magistratura. Scuola e magistratura sfuggono al pensiero unico che si vorrebbe egemone: per questo devono essere smantellate.

D. Perché la scuola pubblica italiana riesce oggi ad assolvere una funzione del genere?

R. La scuola pubblica italiana è un’istituzione più che secolare, che ovviamente ne ha viste di tutti i colori, ma che neanche sotto il fascismo si è degradata ad ancella del regime. Del resto la riforma “fascista” della scuola era più una riforma idealistico – umanistica che non una riforma totalitaria, subalterna del regime, e portava il nome di uno che si chiamava Giovanni Gentile. Gentile, non Gelmini, mi spiego? Dopo l’antifascismo e la Resistenza, la scuola pubblica italiana s’è conformata allo spirito pubblico per decenni dominante, e per molti versi ha attinto alle culture migliori del periodo, quella cattolico – democratica, quella liberalsocialista e quella comunista; e poi, per una fase più vicina a noi, alle istanze progressiste, laiche, egualitarie e libertarie degli anni Sessanta e Settanta. Una miscela del genere può difficilmente essere devitalizzata. Poi, come sua caratteristica strutturale, la scuola ha a che fare con i processi formativi e con le giovani generazioni: un meccanismo che per sua natura rilutta all’incasellamento nelle maglie strette del “pensiero unico” e della dittatura mediatico – politica del berlusconismo. Uno non ci pensa mai, o ci pensa poco, ma dove altro mai gli italiani, i giovani italiani, hanno la possibilità di conoscere e praticare una cultura anch’essa di massa, ma non mediatica, e sufficientemente compatta e omogenea, se non nella scuola? Forse nelle famiglie? Lo escludo nel modo più assoluto. Anche qui si potrebbe osservare, sia pure marginalmente nell’ambito del nostro discorso: possibile che la “politica di sinistra” non se ne sia accorta, privilegiando fino in fondo il discorso su questo fondamentale bastione di resistenza?

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Ricordi di scuola…

“Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”

A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.

L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.

La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”

La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).

Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.

Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.

C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.

Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.

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Dall’università alla ricerca: amarcord ed esperienze rivisti a mente fredda

E’ con piacere che approfitto dell’occasione offertami di poter parlare della mia esperienza nel mondo dell’università, ora che, trascorsi ormai quasi due anni dal giorno della mia laurea, mi trovo nella miglior posizione per valutarla a tutto tondo senza condizionamenti.
Anzi, ora che ho fatto il salto “dall’altra parte della barricata” passando dall’università alla ricerca, posso ancor meglio valutarne i punti deboli e di forza e poter capire se davvero i cinque anni trascorsi tra corsi, esami e laboratori mi hanno lasciato in eredità la preparazione di cui ho bisogno adesso.

Sono trascorsi ormai più di 7 anni da quando, nel settembre del 2001, mi iscrissi all’università; la sede scelta, per ragioni logistiche oltre che per qualità rinomata, Trieste, il corso di laurea Fisica.
Nonostante la mia formazione prettamente umanistica e classica che poteva far sembrare strana o quantomeno azzardata la mia scelta, nessuno di quanti mi erano vicini mi fece mai pesare questo aspetto, ma anzi un unanime coro di sostegno mi diede l’energia necessaria per iniziare un percorso che, di certo, non di prospettava come il più semplice possibile. E così infatti fu.

I primi mesi non furono per nulla semplici, non tanto per il carico di lavoro che la nuova realtà mi imponeva quanto per il notevole gap che mi divideva dalla maggior parte dei miei compagni di corso che, provenendo da background già di impronta scientifica, mostravano di trovarsi sin da subito a proprio agio nella nuova realtà, o almeno così credevo io.
Non mi sono però lasciato scoraggiare dalle prime difficoltà e sono andato avanti per la strada che mi ero prefisso cercando di colmare le mie lacune iniziali passando lunghe ore su libri ed appunti. A lungo andare, i risultati furono dalla mia parte e nel corso degli anni mi sono lasciato alle spalle o addirittura ho perso di vista compagni che ritenevo molto più quotati di me, i quali però peccando di supponenza o semplicemente incontrando maggiori difficoltà di quelle preventivate, non sono stati risparmiati dalle falci degli esami di fine trimestre.

In ogni caso, siccome mi è stato chiesto di parlare a tutto tondo della mia esperienza universitaria, non posso esimermi dallo spendere qualche parola su quello che, molto e forse troppo spesso, è uno degli aspetti più delicati nella vita universitaria dello studente, ossia il rapporto con l’organizzazione del proprio corso di laurea e con la “burocrazia”:  professori, lezioni, segreterie, moduli… a volte ce n’è abbastanza per un vero teatro dell’assurdo. E le testimonianze di generazioni di studenti stanno li a dimostralo.
Ebbene, contrariamente all’esperienza di molti altri studenti in altre facoltà della mia università o in altre università, la mia esperienza in tal senso è stata tutto sommato positiva, in alcuni aspetti anche molto positiva. In oltre 5 anni, gli orari delle lezioni e le date degli esami sono state sempre rispettati e, nelle rarissime occasioni in cui non lo sono stati le comunicazioni al riguardo erano sempre tempestive e puntuali.

Molti dei miei professori non hanno mai avuto un orario di ricevimento fissato ma sono sempre stati disponibili a ricevere gli studenti pressoché in qualsiasi momento, e non ricordo di aver mai dovuto fare i salti mortali per poter parlare con un docente per chiarimenti, domande o fissare la data di un esame.
Ritengo che una fetta significativa di questo merito vada attribuito al fatto che il corso di laurea in Fisica non si è mai distinto per un numero spropositato di studenti iscritti, e pertanto il buon senso ha prevalso nel momento in cui si è capito che è bene tenersi vicini quei pochi studenti che ci sono onde evitare di ritrovarsi, entro qualche anno, con un corso di laurea senza iscritti.

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Calamandrei, chi era costui?

Piero Calamandrei nasce a Firenze il 21 Aprile 1889 dove muore il 27 Settembre 1956.

Dopo la laurea in giurisprudenza, divenne professore di procedura civile in varie università: Messina, Modena, Reggio Emilia, Siena e Firenze. Prese parte alla prima guerra mondiale come ufficiale volontario. Lasciò l’esercito per continuare la sua carriera accademica. Della sua vasta produzione giuridica si ricorda soprattutto “Introduzione allo studio delle misure cautelari” del 1936, un trattato d’avanguardia che farà compiere un grande balzo in avanti alla scienza processuale italiana.

Politicamente impegnato a sinistra, partecipò con Dino Vanucci, Ernesto Rossi, Carlo e Nello Rosselli alla direzione di “Italia Libera”, un gruppo clandestino di ispirazione azionista. Manifestò sempre la sua avversione alla dittatura di Mussolini, aderendo nel 1925 al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce. Contrario all’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel 1941 aderì al movimento Giustizia e Libertà ed un anno dopo fu tra i fondatori del Partito d’Azione insieme a Ferruccio Parri, Ugo La Malfa ed altri.

Fu membro della Consulta nazionale, della Costituente e della Camera dei Deputati e si batté sempre per un rinnovamento morale e civile della vita politica italiana.

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A proposito di scuola: l’ipotesi di Calamandrei

“Facciamo l’ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuole fare la marcia su Roma e trasformare l’aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.

Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito? Si accorge che le scuole di Stato hanno difetto di essere imparziali. C’è una certa resistenza; in quelle scuole c’è sempre, perfino sotto il fascismo c’è stata. Allora il partito dominante segue un’altra strada (è tutta un’ipotesi teorica, intendiamoci). Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito. Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A “quelle” scuole private. Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata.

Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare prevalenza alle scuole private. Attenzione, amici, in questo convegno questo è il punto che bisogna discutere. Attenzione, questa è la ricetta. Bisogna tener d’occhio i cuochi di questa bassa cucina. L’operazione si fa in tre modi: ve l’ho già detto: rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette.

Dare alle scuole private denaro pubblico. Questo è il punto. Dare alle scuole private denaro pubblico.

Discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III congresso dell’Associazione a Difesa della Scuola Nazionale, a Roma l’11 febbraio 1950.

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Sempre a proposito di scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

Caro diario,
la scuola è cominciata da più di quattro mesi e ti confesso che sono cambiate un po’ di cose.

Il mio primo giorno di scuola, il mio primo giorno alle medie, perchè questa è la novità, non è stato brutto, a dire il vero lo pensavo peggio.
Arrivata a scuola, stavo aspettando, un po’ intimidita, di entrare in classe.
Non sapevo come funzionava, quindi mi guardavo attorno per capire cosa avrebbero fatto gli altri per poi imitarli.

Ad un tratto una voce gridò: “Mettetevi in fila”.
Io e quelli che sarebbero stati i miei compagni ci dirigemmo, nervosi, verso quella che sarebbe diventata la nostra scuola per i prossimi tre anni.
Entrati in classe, ognuno di noi scelse il posto che preferiva, ben sapendo che i professori, seguendo criteri diversi dai nostri, lo avrebbero cambiato.

In questi quattro mesi, come ho già detto, le cose sono un po’ mutate: sono alle prese con materie nuove, professori al posto delle maestre, compagni e ambiente diversi… il passaggio è stato, e a volte è ancora, faticoso, ma interessante.

Quando ero alle elementari, mi chiedevo sempre come avrei affrontato le medie. Avevo, lo confesso, un po’ di paura, ora posso dire che la mia paura era ed è la stessa di tutti i bambini che, come me, stanno per salire una scala, perché in fondo noi siamo ancora i bambini di 5°, in bilico sopra un gradino con su scritto “non sono né grande, né piccolo”, con addosso il desiderio di essere grande e la paura di non esserne all’altezza.
A questo punto, mi viene in mente il titolo di un libro abbastanza noto, “Io speriamo che me la cavo”, ecco io spero non solo di cavarmela, ma di essere sempre all’altezza di quello che chiedo a me stessa: imparare, imparare ed ancora imparare… ed affrontare serenamente i gradini che dovrò salire durante il mio percorso scolastico.

Un’alunna.

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