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Com’è morto Stefano Cucchi?

“Ho avuto modo di vedere le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata. È inconfutabile che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi – come testimoniato dai genitori – è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi  nella regione palpebralebilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni. È inconfutabile che, una volta giunto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto – anche solo sotto il profilo deontologico – di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. È inconfutabile che l’esame autoptico abbia rivelato la presenza di sangue nello stomaco e nell’uretra. È inconfutabile, infine, che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture statuali (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere, senza che una sola delle moltissime circostanze oscure o controverse di questo percorso che lo ha portato alla morte sia stata ancora chiarita.”

Luigi Manconi

Quando mi è stato chiesto di scrivere  per la Ruota, mi si è posto un problema: cosa scegliere fra i problemi della cultura sottoposta a faziosità politica, della  politica concentrata sul sesso e sulla sua richiesta di disuguaglianza istituzionale, dell’affondamento della democrazia e della libertà di espressione, dei drammi idro-geologici in quanto cronache di morti annunciate o della bella ripresa di potere della mafia che continua a “trattare” con i Governi eletti da decenni.

Tuttavia, osservando l’elenco appena steso, mi sono reso conto che  la morte di Stefano Cucchi poteva rappresentare la quintessenza, la somma di quanto citato prima: l’inesistenza dello STATO DI DIRITTO.
Cucchi era un ragazzo senza potere, senza soldi, senza amici alto locati, senza amici mafiosi. Esattamente come la stragrande maggioranza di noi. Entrato in una caserma per un reato minore  sulle proprie gambe, in buona salute, è uscito poco dopo da un ospedale morte per gravi contusioni e fratture vertebrali non sottoposte ad adeguate cure.

Stefano è morto come tanti altri nelle prigioni di Pinochet, come nella famigerata Lubjanka del KGB, trattato come i prigionieri di Guantanamo o i fellagha della guerra d’Algeria. Ma dove siamo? A Guantanamo?
No, siamo in Italia, dove un’altra morte  di prigioniero non dovrebbe essere messa a tacere come quella del povero vigile trasportato d’urgenza dalla Sardegna, per una scazzottata, con tanto di elicottero militare, caduto in mare prima del suo arrivo in carcere!

Domande:

  1. Ricordando lo scandalo  provocato dalle manette messe ad un parlamentare ai (bei) tempi di Mani Pulite, come posso accettare che un cittadino non solo venga ammanettato, ma anche ucciso da chi lo ha fermato?
  2. Il ragazzo è stato duramente picchiato: da chi? Ma la domanda altrettanto importante è: che non ci sia nemmeno un solo testimone che abbia tentato di impedirlo, di salvarlo? Insomma una giustizia di “branco”?
  3. Chi ha colpito rappresenta lo Stato, che dovrebbe essere il mio garante?
  4. Portato in ospedale, non è stato sottoposto a cure e lasciato morire. I medici cosa o chi stanno coprendo?
  5. Il ragazzo non ha nemmeno potuto contattare la famiglia. Una famiglia che affida il suo ragazzo allo Stato e lo recupera sfigurato e con sangue nello stomaco e nell’uretra (calci nella pancia e sicuramente nel basso ventre) Ma che razza di medico lavora in quelle Istituzioni!!!? Per fortuna che il detenuto era ricoverato nella struttura sanitaria del Fatebenefratelli!!! Hanno fatto bene le cose, certo!

La lettura delle varie domande non lascia spazio a dubbi: siamo in uno Stato che non riconosce l’uguaglianza dei cittadini: c’è chi  è rispettato e chi non lo è.

Quali sono i parametri di rispettabilità in Italia?
Siamo in uno Stato che è rappresentato in da persone indegne, persone che dovrebbero loro essere dietro le sbarre. Che ci finiscano.
Siamo quasi certi che mai la luce completa sarà fatta. Solo uno Stato forte ammette le proprie colpe. Qui abbiamo solo uomini forti che usano uno Stato debole.
Che sia un dramma annunciato? Quando si sa che la mafia  tratta con i Governi per gestire le carceri e la disciplina interna, mi sembra ovvio.
L’evento sarà rapidamente insabbiato sotto una crosta di scandali politici a base di soubrette, di partite di calcio,  di gare di auto ed eventi porno mondani, ciò che proverà non solo il controllo politico della Giustizia, ma anche la scarsa libertà di espressione, confermata dalla nostra 77esima posizione in materia nella graduatoria internazionale.

In teoria, la speranza dovrebbe nascere da una presa di posizione chiara, forte,  inderogabile di una Chiesa che si dice  protettrice dei deboli. Purtroppo nemmeno da questa parte sento parole dure e richieste di indagini immediate.

Cucchi è morto. Speriamo che non si  “accerti” che è caduto dalle scale o che si è suicidato.
La prima ricostruzione assolverebbe lo Stato e la seconda chi fa più politica che applicazione del Vangelo.

il blog di Ilaria Cucchi

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Umiliate e offese

Perché tanta violenza sulle donne? Come mai si ripetono con tanta frequenza gli stupri? Forse che noi donne siamo diventate le prede su cui sfogare l’aggressività primordiale da parte dei maschi?

Sono passati invano gli anni della rivoluzione sessuale e dell’emancipazione femminile! Non si parla dei soli uomini “datati”, ma delle nuove generazioni che sembrano affette da un “male incurabile”: la sottocultura emotivo-affettiva.

Dagli anni ’80 in poi si è registrata una latitanza, un vuoto educativo in famiglia e nella società tutta, attente soprattutto alla  tensione lavorativa e alla legittima ricerca del benessere.
Probabilmente le conquiste femminili hanno dato per scontato l’aspetto educativo nella falsa illusione che la legislazione potesse in qualche modo sostituire “naturalmente” il ruolo della famiglia.
Inconsapevolmente questo compito spesso è stato delegato ad altri sostituti, prima fra tutti, la Tv che come stiamo verificando quotidianamente, ci dà, della donna, un’immagine pessima, vista solo come oggetto di “consumo”.

Purtroppo la maturazione culturale e la responsabilità personale non si evolvono con gli stessi tempi dell’evoluzione sociale e dello sviluppo tecnologico. L’individuo ha percorsi più lunghi e complessi per poter sperare che si autoeduchi.
Si sente spesso parlare di valori da parte di tutti: psicologi, sociologi, religiosi, politici, ma in realtà ciò che viene trasmesso e recepito dai più è il degrado che parte dall’alto: la politica stessa chedovrebbe fungere da motore nel promuovere linguaggi, comportamenti e legislazioni rispettosi della dignità di tutte le categorie sociali, si presenta ipocritamente guidata da sole mire di potere o con battute tipo:- Dovremmo avere tanti soldati quante sono le belle donne in Italia!

C’è da stupirsi anche della modesta reazione da parte dei movimenti femminili e soprattutto delle giovani generazioni delle quali si vuol far passare solo l’inseguimento del facile successo su modelli veicolati dai “mass-media”; non esenti quest’ultimi dal riportare  pure fatti violenti con una certa morbosità.
La riflessione sui valori riporta anche al ruolo del cosiddetto branco, poiché frequentemente la violenza sulla donna e sul debole, è frutto di “bravate” di gruppo proprio perché in questo modo viene a mancare la responsabilità individuale. Quest’ultima infatti costa in quanto comporta il porsi delle domande, il dover valutare e scegliere, perciò risulta più facile delegare e scaricare su altri la responsabilità.

Non  possiamo continuare ad attribuire alla sola società tutti i mali che ci affliggono, non dobbiamo rifugiarci nel nostro piccolo mondo sperando che a noi le cose vadano sempre bene poiché ciascuno di noi è società e ciò che accade all’altro sempre prima o poi ci coinvolgerà.

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Cos’è il testamento biologico, ovvero “dichiarazione anticipata di volontà”

Oggigiorno la medicina è talmente progredita, che può mantenere in vita persone gravemente malate che soffrono dolori atroci e destinate a morire perché senza possibilità di contenere la malattia, tanto meno di guarire. Sono pazienti idratati, alimentati artificialmente, spesso stimolati nella funzione cardiaca e respiratoria da macchine sofisticate; malati che esistono in uno spazio intermedio tra vita e morte (di cui poco si sa ancora) non per scelta e senza alcuna tutela giuridica dei loro interessi.

Il testamento biologico consiste in una dichiarazione anticipata di volontà: un atto che permette a chi lo vuole,  finché si è nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, di dare disposizione riguardo a futuri trattamenti sanitari nel caso in cui tali facoltà venissero meno. Disposizioni che devono risultare vincolanti per gli operatori sanitari anche se non in contrasto con la deontologia medica e con la realistica previsione di cura.

Si tratta di un atto che può essere revocato in qualsiasi momento e che può prevedere l’indicazione di un fiduciario.

Con il testamento biologico si possono intendere cose diverse: dal solo rifiuto dell’accanimento terapeutico, o di determinate terapie, o alla richiesta di interruzione delle cure in caso di gravi patologie; tutte garantiscono la consapevolezza del singolo e l’autodeterminazione individuale. Da sottolineare che tale atto niente a che vedere con il procurare la morte, poiché interessa piuttosto la salvaguardia di un confine naturale della vita intesa, non come tempo protratto, bensì come una vita degna di essere vissuta, una vita che abbia un senso e che non si esaurisca in un dolore intollerabile ed irreversibile.

Il testamento biologico in Italia,  non è ancora legge per una serie  di ragioni:

  • Nella cultura cattolica la sofferenza è ancora vista come espiazione del male e quindi quale mezzo di salvezza futura.
  • Lo squilibrio storico tra medico e paziente, per cui prevalgono gli obiettivi del medico su quelli del malato: solo il medico sa e dunque solo il medico può decidere.
  • La difficoltà di affermare il primato della libertà individuale nel nostro ordinamento e nella nostra vita associata. Se la libertà del soggetto ha come unico limite il rispetto della libertà altrui, la facoltà di decidere del proprio corpo deve trovare garanzia di inviolabilità nel diritto pubblico.
  • Si attribuisce alla Chiesa cattolica italiana, la responsabilità della mancata approvazione di una legge sul testamento biologico. Questo dato, pur fondato, è contraddittorio. La Chiesa teme che, con una legge si metta in discussione il principio dell’indisponibilità della vita umana; resta il fatto che la dottrina della Chiesa da molti anni si sia pronunciata contro l’accanimento terapeutico. (“L’interruzione di procedure mediche dolorose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati ottenuti, può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia dell’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o altrimenti da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente”, dal Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica- giugno 2005).

La legge sul testamento biologico, in corso di approvazione dall’attuale maggioranza, probabilmente escluderà la nutrizione e l’idratazione artificiale dalle scelte sulle quali il malato potrà esercitare la sua volontà. Si avrebbe così una legge più arretrata rispetto all’attuale vuoto legislativo a cui  la magistratura deve supplire.

Da aggiungere che purtroppo il Parlamento che dovrebbe legiferare su materie eticamente sensibili è stato desautorato, privato pertanto del libero confronto che si dovrebbe svolgere al di là dell’appartenenze e maggioranze politiche, come avvenne per le leggi sul divorzio e sull’aborto.

Credo comunque che la classe politica italiana, arroccata in posizioni di principio, in una società che si evolve,  sia ancora troppo lontana dai reali bisogni e dalle concrete richieste dei suoi cittadini.

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Nichilismo e speranza: riflessione sui giovani

Con il termine nichilismo, dal latino nihil cioè nulla, viene inteso solitamente l’atteggiamento, o la dottrina, che nega in modo definitivo l’esistenza di qualsiasi valore in sé e l’esistenza di una qualsiasi realtà oggettiva.
Si tratta di un atteggiamento che ha attraversato la storia dell’umanità, dai Greci (con Gorgia) fino ai giorni nostri (Heidegger, E. Severino) e che ha assunto nei secoli forme diverse e contestualizzate allo spirito di ogni epoca.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al nichilismo russo che si espresse prevalentemente in forma narrativa anziché concettuale, il termine divenne di uso comune. A dargli il nome fu lo scrittore I. S. Turgenev, l’autore di “Padri e figli” (1862).
Da qui il nichilismo esce dall’ambito propriamente filosofico e incomincia a contaminare il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ad animare l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, proclama, con Nietzsche, la morte di Dio e apre alla cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.
Il nichilismo, l’ospite inquietante che è entrato nelle nostre case e che fatichiamo a riconoscere, si aggira tra i giovani, “penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca le loro anime, intristisce le passioni rendendole esangui” (U. Galimberti).

Genericamente parliamo, leggiamo e ascoltiamo di disagio giovanile: quasi un luogo comune percepito nella nostra società senile come un rimbrotto paternalistico e comunque limitato alla sfera esistenziale. Ma il disagio non è esistenziale, bensì culturale: Dio è morto e con lui la visione ottimistica della storia che vedeva il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza.
La cultura occidentale, abbandonata la visione pessimistica degli antichi greci e abbracciata la tradizione giudaico – cristiana, ha guardato al futuro sorretta dalla convinzione che la storia dell’umanità è una storia di progresso e quindi di salvezza. Ma anche l’omologa moderna della triade male – redenzione – salvezza e cioè scienza – utopia – rivoluzione ha mancato la promessa. Disuguaglianze sociali sempre più evidenti, disastri economici, inquinamenti di ogni tipo, comparsa di nuove malattie, intolleranze e fanatismi, pratica abituale della guerra testimoniano il venir meno della promessa.

La positività della tradizione giudaico – cristiana è stata sostituita dalla negatività di un tempo inconsapevole, dominato da una casualità senza direzione e orientamento, medioevo tecnologico popolato da imbonitori televisivi, alchimisti finanziari che promettono elisir di lungo profitto, predicatori che arringano le anonime moltitudini che non hanno saputo riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa delle classi sociali e ormai occupato da oligarchie corporative.
La mancanza di senso, di fine e di scopo ha ridotto l’orizzonte a un deserto pietrificato dove dominano i miraggi. Così la nostra società contemporanea è pervasa dalla tristezza diffusa e percorsa dal sentimento permanente della precarietà e dell’insicurezza.
Il futuro come promessa è scomparso e questo determina l’arresto del desiderio al presente. Con il rischio che, negli adolescenti, non si verifichi più il naturale passaggio dall’amore di sé all’investimento sugli altri e sul mondo con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
Genitori e insegnanti sono disorientati perché la mancanza del futuro come promessa li priva dell’autorità di indicare la strada.

Questa circostanza induce l’instaurarsi di un rapporto contrattuale, quindi egualitario, fra genitori e figli, insegnanti e allievi. Ma questa relazione è lungi dall’essere paritaria perché priva l’adolescente dei riferimenti necessari a contenere, con equilibrio, le proprie pulsioni e l’ansia che ne deriva.

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Il colpo della strega!

Da straniero, non conoscevo questa espressione ma mi è bastato ben poco per capirla: era sufficiente guardare la faccia del colpito e la sua posizione “sbilenca”.

In parole povere questa patologia si chiama “lombalgia”, ossia dolore nella zona lombare. Una definizione  molto generica che  comprende una notevole varietà di casi e gravità secondo le strutture responsabili di quel dolore e di quella posizione “storta”, che non è che una attitudine di difesa adottata dalla persona per  evitare di  soffrire, per quanto sia possibile.

Spesso il paziente non solo soffre, ma è anche molto inquieto perché ha sentito parlare, e sparlare, di ernie al disco e di intervento chirurgico. Questo articolo tenterà di chiarire le idee spesso sbagliate non solo della gente, ma purtroppo anche di molti medici che di conseguenza non riescono ad indirizzare verso la cura corretta.

Per prima cosa, il dolore: da cosa è causato? Semplice: da un malfunzionamento delle strutture della colonna. Il malfunzionamento può essere il risultato di una struttura alterata dall’artrosi  oppure da uno spostamento anomalo del disco che si trova fra le vertebre. Anche uno spazio ridotto fra due vertebre può ugualmente provocare il dolore. Perciò ci sono delle cause sia strutturali sia biomeccaniche che, come conseguenza, irritano le strutture nervose che fuoriescono dalla colonna.

Se l’irritazione è relativamente leggera, il dolore rimane localizzato alla schiena. Se invece un nervo viene colpito e s’infiamma, il dolore si propagherà nella zona di cui esso è responsabile. La più famosa infiammazione è quella del nervo sciatico che provoca dolore dietro la coscia e si propaga sulla fascia laterale esterna della gamba. Non è raro che un movimento della schiena provochi uno spostamento anomalo del disco e non è nemmeno raro che questo disco, dopo aver urtato il nervo corrispondente, torni al suo posto fisiologico. Di conseguenza, la persona presenta una sciatica, senza alcun blocco vertebrale, settimane dopo aver sentito certo un dolore acuto ma senza essere mai stato impedito nei movimenti. In generale però, le persone che soffrono di mal di schiena adottano una postura assai storta. La cura medica è praticamente sempre la stessa: una buona dose di antinfiammatori associati ad un rilassante muscolare senza alcuna visita clinica per scoprire il livello in crisi. Se non funziona, si passa al cortisone e se non passa ancora, alla visita ortopedica, alle radiografie di vario tipo.

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Delle “invasioni barbariche” (ovvero, nuove forme di povertà)

Essendo donna e lavoratrice (pensate quante cose si possono fare a questo mondo) ogni mattina inforco la mia utilitaria, vado al lavoro e accendo la radio, tanto per non prender sonno al primo semaforo.

L’altro giorno, una botta di vita. Dal profondo del mio stadio larvale, sento una notizia effetto sveglia. Un intelligentone, pare pure al governo del suo territorio, dice che per ogni torto subito da un cittadino italiano, dieci extra comunitari dovrebbero venir puniti (mancava solo un “Ja wohl!” per connotare meglio il suo intervento).

In un primo momento resto allibita, dopo penso se indignarmi o no, perché esternazioni del genere non si dovrebbero neppure commentare, visto che non han senso di esistere. Poi, quando nei successivi tre chilometri rischio di tamponare più volte l’auto di fronte a me, decido di indignarmi: riguardo certe cose non si può far finta di niente. Toccano corde profonde nel cuore e nel cervello.

Mi lascio quindi andare ad alcune riflessioni di tipo politico (ma chi l’avrà scelto questo individuo?), religioso  (non esiste una giustizia divina che fulmini all’istante chi proferisca parole del genere?) e legale (non esistono i crimini umanitari?).

Secondo questa corrente di pensiero dobbiamo guardarci dalle invasione del barbaro straniero. Siamo forse alle soglie di un nuovo Medioevo? L’impero sta andando a rotoli? Meno male che c’è chi ci illumina, ci protegge e ci guida. E soprattutto trova capri espiatori.

Crolla l’economia? Colpa dei cinesi. Aumenta la criminalità? Colpa degli albanesi e rumeni. La famiglia va a catafascio? Colpa degli omosessuali. Si surriscalda il pianeta? Colpa degli eschimesi….
Caro amico della porta accanto, guarda che c’è qualche cosa che non va. Troppo facile e comodo cadere in queste mistificazioni. Non offendiamo l’intelligenza delle oneste persone. Andiamo oltre.
Viviamo sicuramente nella società del benessere, ma siamo molto vulnerabili sul piano dell’educazione emotiva. Percepiamo forme di malessere intorno a noi, c’è carestia di valori, di significati e di sicurezze. In questo senso sì ci troviamo di fronte ad un nuovo Medioevo e posso capire che, come le streghe all’epoca, si cerchino i responsabili in chi è più esposto ed emarginato; ciò accade perché sta emergendo una nuova forma di povertà non economica ma più pericolosa: quella emotiva, relazionale e culturale.

La fiducia nell’altro è lacerata perché si sono interrotti i canali comunicativi più importanti, cioè quelli che si basano sul concetto di accettazione; manca la volontà di rispettare come interlocutore chiunque, soprattutto chi è diverso, perché riconoscere i bisogni degli altri, significa ridimensionare i propri. Si è stabilita invece una relazione basata sull’imposizione di autorità e forme di potere  in risposta ad episodi di violenza che comunque vanno condannati. Ma chi delinque lo fa perché assume comportamenti errati e non perché è cinese, albanese, rumeno, omosessuale o, peggio ancora, eschimese.

I conflitti vengono risolti trincerandosi in biechi meccanismi di difesa come l’accusa o la generalizzazione reciproche, non si accetta più la mediazione che salva e dignifica le individualità a confronto.

E perché?

  • E’ difficile comunicare perché significa uscire dal proprio egocentrismo.
  • E’ difficile comunicare perché le proprie sicurezze entrano in crisi.
  • E’ difficile comunicare perché significa cambiare, cosa che all’essere umano costa fatica e frustrazione.

Perciò quando sentiamo certe “sentenze” dette, fatte, mostrate ogni giorno in ogni luogo, non affrontiamole con superficialità o peggio indifferenza. Indignamoci, perché l’indignazione viene da dentro ed è solo dentro di noi che possiamo trovare  gli strumenti per modificare le cose.

Come ha detto di recente qualcuno che di questo se ne intende: “il vero nemico non è molto lontano, spesso è seduto sul divano di casa tua … e non ha gli occhi a mandorla”.

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Voci dal pianeta immigrazione – Storia di Silvia M.S., badante

La storia di questa giovane donna ucraina è simile a quella di tante altre che sono arrivate in Italia spinte dalla necessità perché assediate dalla povertà del loro Paese dopo la fine dell’U.R.S.S. avvenuta in seguito al crollo del muro di Berlino nel 1989. Questo è il racconto che lei stessa fa della sua esperienza.

“Sono giunta qui nel 2001, non avevo ancora 30 anni. Avevo sentito parlare dell’Italia da una mia amica al suo rientro in Ucraina per le ferie estive. Lei mi raccontava che qui si trovava bene e che anch’io avrei potuto fare lo stesso.
Io non avevo però i soldi per il viaggio e così la mia amica si è offerta di aiutarmi. Anche lei lavorava prima come badante e poi come collaboratrice familiare. Il mio ingresso in Italia è avvenuto da turista; arrivai a Salerno, ospite dell’amica per circa un mese. Io non conoscevo l’italiano, né gli Italiani, comunque trovai occupazione come badante di una signora anziana invalida. Sono rimasta con lei 7 mesi fino alla sua morte.

Avevo un cognato a Milano che mi ha dato ospitalità e mi ha trovato un lavoro come badante in un paese in provincia di Pavia.
Il datore di lavoro di Milano mi ha fatto avere il permesso di soggiorno e mi ha regolarizzata. Quando la signora è mancata, sono tornata a casa per due mesi. Volevo tornare a Milano, ma un’altra amica che vive tuttora a Cordovado e ha una casa in affitto, mi ha fatto venire qui. Dopo tre giorni dall’arrivo, mi hanno assunto i sig. Bortolussi per assistere la loro mamma, la signora Maria, con la quale sono rimasta tre mesi fino alla sua fine. Su indicazione della signora Denise ho conosciuto la famiglia Stefanuto e ancora oggi seguo il signor Ferruccio con cui vivo da tre anni.

Qui mi trovo benissimo come mi sono trovata sempre bene con tutte le persone che ho conosciuto. Non ho mai avuto problemi: sono assunta regolarmente e sono sempre stata pagata.
Gli Italiani sono come tutta la gente del mondo: bravi e meno bravi; ho notato una differenza tra quelli del Sud e voi del Nord: i primi sono più estroversi ed allegri, mentre qui la gente è sempre presa dal lavoro.

In Ucraina avevo lasciato la mia famiglia: mio fratello di 28 anni sposato con una bimba, mia madre di 53 anni vedova e mia figlia, dalla quale mi ero separata con tanta sofferenza. Sono venuta qui per poter realizzare un sogno: avere una casa mia perché ora viviamo ancora tutti insieme nella casa della mamma.
Il mio paese è Gagor in provincia di Cernivzi e si trova nel sud dell’Ucraina a 300 Km circa da Odessa.

Lo Stato è povero e la situazione economica è peggiore del tempo in cui eravamo una repubblica russa; i prezzi sono come quelli europei, ma il salario medio è di circa 200 euro mensili. E’ tanto dura! Al tempo della Russia almeno la gente lavorava in fabbrica e si aveva quanto bastava per vivere. Adesso tantissimi giovani vanno all’estero a cercare lavoro.
Da noi ora ci sono tanti ricchi, ma anche tanti poveri che fanno la fame; quando sono tornata in Ucraina questa estate, vicino alla mia casa che sto costruendo con i risparmi del mio lavoro, sono sorte tante ville.
Da dove vengono i soldi?

Le difficoltà economiche spingono molte ragazze verso l’Italia, disposte a tutto pur di guadagnare tanto, magari in breve tempo. Per questo spesso diventano vittime di trafficanti senza scrupoli che le avviano alla prostituzione.
Io sono stata fortunata perché ho trovato sempre persone oneste che mi hanno aiutata.
Devo rinnovare il permesso di soggiorno ogni 2 anni, però nel 2008 potrò ottenere un permesso a tempo indeterminato.

A livello affettivo non ho nessuno; sono ancora provata dal divorzio dal padre di mia figlia Cristina, che sono finalmente riuscita a portare in Italia dopo gli ostacoli impostami dal mio ex marito che, pur vivendo in Russia con una nuova famiglia, non voleva concedermi il permesso a tempo indeterminato.
Mi sono sposata a 21 anni e Cristina è nata subito dopo.
Ora mi sembra di essere in paradiso, perché mia figlia è tranquilla, dopo la lunga separazione e la sofferenza per il divorzio. Qui frequenta la 2° media e mi pare ben inserita nel contesto scolastico.

Ho nostalgia della mia famiglia, soprattutto della mamma che, a 53 anni, si ritrova vedova e che comunque continua a lavorare. Gli uomini spesso sono dediti all’alcool e le donne devono affrontare da sole il peso della sopravvivenza.
Per ora penso di restare qui ancora 5/6 anni perché il mio obiettivo primario è quello di finire la mia casa e di ritornare in Ucraina anche se… non si può mai dire quello che avverrà.”

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Voci dal pianeta immigrazione – Storia di Silvana V., collaboratrice domestica

La storia di Silvana è una storia di immigrazione “normale”, meno “disperata” di quelle, ad effetto, che ci propongono i mezzi di informazione. Manca in essa l’aspetto drammatico della clandestinità, ma come ogni storia di emigrazione ha in sé il risvolto del distacco, di scelte a volte dolorose, di precarietà.

Silvana è argentina ed arriva in Italia con il marito, italo -argentino, nel 2004, spinta dalla grave crisi economica che ha colpito il suo paese, portandolo sull’orlo della bancarotta.
Silvana, in Argentina, lavorava in banca: trattava con i clienti e il suo posto di lavoro era un osservatorio privilegiato e sensibile di quanto stava accadendo attorno. Lei ricorda ancora come particolarmente difficile e doloroso quel periodo in cui doveva affrontare le persone allo sportello e riferire loro che le condizioni generali erano cambiate e che la banca non poteva aiutarli e venire incontro alle loro necessità e, davanti a quelle facce deluse a volte disperate, vedeva infrangersi quel rapporto di fiducia  e cordialità che si era andato instaurando nel corso degli anni, 11 per la precisione.

Queste difficoltà, unitamente al fatto che la banca riduceva il personale e raddoppiava la buonuscita per chi lasciava volontariamente e al fatto che il marito, italo-argentino con passaporto italiano, aveva saputo da alcuni parenti residenti in Italia che potevano esserci per loro possibilità d’impiego, la inducono ad emigrare.

Ottenuto un visto dal Consolato italiano ed un permesso di soggiorno, si trasferisce nel nostro paese. Le difficoltà non mancano: non conosce la lingua, la gente,  pur disponibile e cordiale, le si rivolge in dialetto, il che accresce il suo disorientamento, ha difficoltà a trovare un lavoro qualificato, fisso e adeguato al suo titolo di studio, ma si adatta e diventa collaboratrice domestica; anche il marito, nel frattempo ha trovato impiego come autista.

Il problema del lavoro è così risolto, rimane quello dell’inserimento nella nuova realtà sociale, che avviene con più lentezza e che è condizionato da tutta una serie di fattori di tipo lavorativo, culturale e di non condivisione di esperienze. Silvana non dispera che questo possa accadere al più presto anche se considera, quella italiana, una parentesi della sua vita, parentesi  tutto sommato positiva ma a termine, spera infatti di ritornare, appena le cose si saranno sistemate, in Argentina.

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Centro socio-riabilitativo “Amedeo Pellegrini”

Che cos’è il centro socio riabilitativo che ha sede nella ex scuola elementare di Bagnara?
Forse anche altri Gruaresi si sono posti questa domanda, che abbiamo girato alle responsabili del Centro, le signore Michela Corte, responsabile del centro diurno e della comunità, e Rosanna Rubin, Vice-presidente della Cooperativa nonché responsabile gestionale, che gentilmente ci hanno dato le informazioni che riportiamo a seguito.

L’edificio, di proprietà del Comune, è stato ceduto all’A.S.S.L. n° 10 che l’ha ristrutturato per adibirlo a centro di accoglienza per portatori di disabilità.
La stessa ha affidato, con una convenzione, il servizio alla nostra cooperativa “Alba”, che offre le migliori garanzie e affidabilità e che da tempo lavora nel mondo dell’handicap.
Il centro è diventato operativo nel 1999.
Oggi vi lavorano 10 operatori socio-sanitari, 1 accompagnatore, un autista e una signora che si occupa delle pulizie.
Il personale è tutto formato, secondo gli standard regionali, da figure professionali adatte alle esigenze degli assistiti.

Gli ospiti sono disabili che vivono nel territorio e il servizio si articola in due ambiti:

  • Centro diurno
  • Comunità alloggio.

La cooperativa non offre solo assistenza a utenti affetti da disabilità serie, ma svolge anche un’attività educativa organizzando laboratori creativi e un’attività riabilitativa con l’intervento di un fisioterapista; ovviamente le proposte riservano maggior attenzione al percorso più che ai risultati, poiché lo scopo principale è quello di tutelare la persona nella sua interezza.
Il diurno funziona dalle ore 8.30 alle ore 16.30 ed è frequentato da una decina di utenti, per i quali è previsto anche il servizio di trasporto.
La comunità alloggio può ospitare al massimo 8 persone che vivono all’interno della struttura anche di notte e sono seguiti sempre dal personale preposto.

Fra gli obiettivi del servizio di comunità alloggio vi è quello di alleviare le famiglie, con figli o parenti diversamente abili, dal carico assistenziale per brevi o lunghi periodi, concordati con le Assistenti Sociali di riferimento. A tal proposito, si segnala che il centro socio- riabilitativo lavora  in costante collaborazione con l’A.S.S.L. e con le famiglie. Queste ultime in particolare rappresentano dei validi “giudici” e degli  insostituibili consulenti.
L’età media degli utenti è di circa trent’anni; spesso, infatti, è questa l’età in cui la famiglia ha più bisogno dell’appoggio della comunità, perché i genitori sono anziani e non sempre sono in grado di offrire al ragazzo un’assistenza adeguata.

Purtroppo i rapporti con il territorio sono scarsi e si limitano a contatti sporadici; il volontariato  non è sempre disponibile nei giorni feriali, quando la gestione del centro ne trarrebbe  un reale vantaggio.
Infatti anche una semplice uscita con le carrozzine (che al diurno costituiscono circa l’80% dell’utenza) richiede la presenza in servizio di quasi tutti gli operatori, cosa non attuabile poiché gli operatori  lavorano a turno.

Per quanto riguarda il rapporto utenti / operatori, la normativa prevede uno standard 1:2,5: vale la pena sottolineare che il personale messo a disposizione va molto al di sopra di tali standard, per una precisa politica di erogazione del servizio da parte della Cooperativa.
Bisogna comunque sottolineare che per svolgere al meglio questo lavoro, non basta la professionalità, ma sono richieste  una sensibilità e una capacità relazionale notevoli.

La cooperativa Alba inoltre svolge un’opera di sensibilizzazione e penetrazione territoriale, affiancando la propria attività assistenziale e riabilitativa con l’organizzazione della “Rassegna di teatro handicap -L’Alba del  teatro” nell’ambito della stagione teatrale 2006/2007 del Comune di San Stino.
Per chi fosse interessato, domenica 25 Febbraio 2007 ore 17, va in scena “Circle Alba”.

Una nota a parte circa il nome del centro “Amedeo Pellegrini”. A. Pellegrini fu, per moltissimi anni, medico e ufficiale sanitario del Comune di Gruaro; era per tutti un riferimento insostituibile, un professionista competente e disponibile, forse un po’ austero e burbero, ma fidato e amato. Un affetto che è stato ricambiato dal “dottore” che ha lasciato a Gruaro la sua cospicua raccolta di libri, ora conservati nella biblioteca comunale.
Il nome del Centro è quindi un giusto riconoscimento della Comunità all’operato di un medico e di una persona corretta e onesta.

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Immigrazione a Gruaro

Il diagramma rappresenta la popolazione straniera (cittadini non Italiani) residente a Gruaro alla fine del 2005, in base al sesso e allo Stato di provenienza. La facile lettura non richiede commenti sui numeri, ma solo alcune considerazioni.

  • Se si fa riferimento al numero dei Gruaresi (2639) si scopre che la popolazione straniera (94) regolarmente residente nel nostro paese rappresenta il 3% su un numero totale di 2733 abitanti.
  • Anche la nostra piccola comunità è coinvolta dal fenomeno dell’immigrazione anche se non visibilmente percepita dai più.
  • Ciò può aver due spiegazioni: sostanzialmente l’inserimento degli stranieri è avvenuto senza sussulti o/e pregiudizi, o può essere indicativo di una marginalità voluta o subìta dagli immigrati stessi.

Relativamente ai Paesi di provenienza:

  • La Romania occupa il primo posto con 18 presenze, seguita in ordine da Serbia-Montenegro con 11 presenze e da Colombia con 10.
  • Le popolazioni africane, che singolarmente sono di numero contenuto, rappresentano complessivamente 37 unità.
  • Assenti gli Albanesi.

N.B. Sono considerati stranieri tutte le persone che non hanno la cittadinanza italiana e che quindi non godono dei diritti civili, cioè non votano in Italia anche se sono sposate con Italiani.

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