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“La parabola del consumismo”, incontro con Mirco Rossi

Salve a tutti, e ben ritrovati.

Siamo lieti di riprendere l’attività autunnale con il ritorno a Gruaro del nostro amico Mirco Rossi, che ci presenterà il suo nuovo libro: “La parabola del consumismo. Memorie di un ragazzo al tempo della sobrietà.”

Dalla scheda dell’autore:

locandina_parabola-consumismoIn Italia la maggior parte della popolazione appartiene a due generazioni che, a partire dagli anni del “miracolo economico”, hanno conosciuto e partecipato a una fase di crescita eccezionale. Nella storia umana mai in precedenza era stato possibile disporre di risorse in quantità e qualità così straordinarie. (…)
Un tempo la trasmissione del vissuto delle generazioni precedenti avveniva principalmente all’interno della struttura familiare. Durante gli ultimi quarant’anni la famiglia è esplosa cancellando la possibilità del rapporto quotidiano tra generazioni lontane, vero e proprio canale naturale di collegamento tra culture. (…)
Con un racconto punteggiato di spunti autobiografici della mia prima infanzia, il libro offre un panorama di esperienze e di valori da riconsiderare e da “riciclare” nell’oggi. Dove potrebbero costituire elementi essenziali di nuove ipotesi di organizzazione sociale e produttiva. (…)
Sobrietà e consumismo sono antitetici, incompatibili. Il secondo è uno stile di vita che, al di là di scelte di natura ideale, dovrà essere necessariamente abbandonato perché non sostenibile da punto di vista energetico e ambientale. Ritornare alla sobrietà potrebbe non bastare, ma rappresenta la giusta direzione verso cui muovere.
Questo scenario in molti suscita atteggiamenti di rifiuto e di paura, sia razionali che irrazionali. La realtà però non cambia ignorandola. Per questo motivo dimostrare che sobrietà non è sinonimo di povertà e di indigenza ma un valore da riconquistare è lo scopo centrale del libro.

Mirco Rossi, studioso veneziano, esperto divulgatore in problemi energetici, socio di ASPO Italia, (sezione italiana di ASPO International, The Association for the Study of Peak Oil) e membro del Comitato Scientifico della rivista Ambiente-Risorse-Salute edita a Padova dal Centro Studi l’Uomo e l’Ambiente. Svolge da molti anni un’intensa attività di divulgazione in ambito scolastico e sul territorio nel centro-nord Italia.

Lo ospiteremo venerdì 27 settembre 2013 alle ore 20.45, presso la Villa Ronzani di Giai di Gruaro.

Allego la locandina dell’evento e vi invito come sempre a segnalare la serata. Vi attendiamo numerosi!

-Comunicato Stampa dell’Editore-

  'La parabola del consumismo' di Mirco Rossi (385,2 KiB, 27 download)
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La crisi economica, in Italia

Tra i tanti stimoli che l’attuale crisi economica propone, due sono le riflessioni che mi vengono in mente per analizzare la situazione in cui ci troviamo.

La prima è la necessità di discernere -tra le molteplici- le opinioni realmente competenti, o ragionevolmente fondate, dell’economia capitalista e finanziaria che abbiamo creato e di cui viviamo. E da marxista (eterodosso) credo che il modo migliore sia quello di leggere e studiare gli interventi di chi si occupa professionalmente ed attivamente di queste tematiche, in particolar modo gli economisti cosiddetti “liberisti” (*).

Se è vero infatti che l’economia (come la medicina, peraltro) non è una scienza esatta, è altrettanto vero che non è una disciplina semplice, e dunque incomprensibile, se non si tenta almeno in parte di cogliere gli elementi o gli strumenti di base fornibili da coloro che si occupano professionalmente, o semplicemente studiano, questi temi. I modelli economici e macroeconomici di oggi in particolare si sono fatti molto complessi e variamente interpretabili. Le soluzioni non sono mai completamente risolutive ed i modelli predittivi non sono degli assoluti. Altrettanto vero è che viviamo in un mondo complesso, in cui i bisogni e le variabili mutano continuamente, e dunque risulta difficile, anche per attenti studiosi, capire i comportamenti dei mercati finanziari o le scelte dei governi politici.

Sgombriamo dunque il campo dai dubbi: non esistono “bacchette magiche” ed ogni scelta di politica economica rischia di non essere definitiva, ma di dover essere integrata e commisurata alle conseguenze che comporta, e spiegata chiaramente ai cittadini che la subiscono o la invocano.

La seconda riflessione è relativa alle definizioni di alcune “parole chiave” che si sentono spesso citare a sproposito nel dibattito politico-economico:
1) i “mercati” e (alternativamente) la “finanza” come Sauron, l’oscuro signore di Mordor, assolutamente tendenti al Male e bramosi di muoverci guerra per distruggerci;
2) il “debito pubblico” come una variabile indipendente, discesa dal cielo e del quale non abbiamo responsabilità passata o futura (“perchè dovrei preoccuparmi dei posteri, cos’hanno fatto i posteri per me?”);
3) lo “stato sociale” (pensioni, sanità, istruzione e tanto altro) come qualcosa di indefinitamente eterno, per i quali non bisogna lottare o sacrificarsi;

Precisando che non ho alcuna simpatia per le banche o per i mercati finanziari, o più in generale per il sistema fin qui costruito, ma che abbiamo NOI costruito attraverso ben definite scelte politiche ed individuali, vorrei chiarire quanto segue:

1) i “mercati” siamo noi, per il semplice fatto di vivere in una società dei consumi.

Nel momento in cui decidiamo di investire dei risparmi (se ne abbiamo) in un’operazione finanziaria (titoli di stato, obbligazioni, azioni, autonomamente od affidandoli ad un terzo), immobiliare (una casa, un appartamento, un terreno) od imprenditoriale (una fabbrica, uno studio, un negozio, un’attività di qualsiasi tipo), prendiamo parte al “mercato”. Anche se non siamo risparmiatori, imprenditori, inquilini, proprietari di casa o lavoratori, nel momento in cui decidiamo di soddisfare un bisogno economico (sia uno di base come quello di mangiare, od uno più lieve come fare una vacanza) acquistando un bene, accettiamo l’idea di essere in un “sistema di economia di mercato”. Assurdo negarlo.
Per inciso, una reale opposizione a tale sistema economico la dispose Stalin in Unione Sovietica, con l’abbandono della NEP, ma anche Mao o altri politici comunisti, nella storia e nel mondo.

La “finanza” è un meccanismo generato da, ed indispensabile a, questo sistema di economia di mercato. Nel momento in cui attribuiamo un valore al denaro-merce (valutabile in un certo interesse), abbiamo bisogno di enti (banche, finanziarie, assicurazioni) e strumenti (mutuo, finanziamento, cessione di credito, titolo di Stato, emissione di obbligazioni, collocamento azionario) per gestire  questo denaro; e abbiamo anche la possibilità (anche qui per PRECISE scelte politiche) di “giocare” con questo denaro in maniera sempre più complessa (derivati, vendite allo scoperto, opzioni…). Da ogni operazione può o non può derivare un guadagno (rendita finanziaria), che, tassato per un certo importo, rientra in parte anche nelle casse dello Stato.
La signora anziana che comprava i BOT negli anni ’70 è parte di questo sistema tanto quanto la FIAT od altre aziende industriali quotate in borsa che si reggono sugli andamenti dei mercati finanziari (FIAT sarebbe fallita da tempo senza l’utilizzo di efficaci strumenti finanziari…). Se non teniamo conto che la finanza è INTRINSECAMENTE indispensabile e legata al nostro sistema, non possiamo avanzare nessuna proposta alternativa.

All’interno della finanza vi sono e vi sono state innumerevoli storture ed incongruenze (la reale efficenza delle famose agenzie di valutazione, i compensi multimilionari dei top-manager di società e banche, l’utilizzo di strumenti per evadere il fisco, la tassazione delle rendite inferiore rispetto al reddito, le innumerevoli truffe da parte di bancari e agenti assicurativi nel consigliare investimenti sbagliati o rischiosi), ma tutte consentite da precise SCELTE politico-ideologiche di “liberalizzazione” e “deregolamentazione” dei mercati e servizi finanziari. Ciò, unito ad una politica monetaria (cioè delle Banche Centrali, cioè degli Istituti che battono moneta) a dir poco dissennata, con l’eccessiva circolazione di denaro a basso tasso di interesse, ha aggravato e contribuito alla crisi attuale.
Una delle caratteristiche principali della finanza, contrariamente alla cosiddetta “economia reale”, è di essere un gioco a somma zero (anche se il dibattito in materia è aperto), cioè un sistema che non crea ricchezza, ma che semplicemente la sposta.

(segue a pag. 2)

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Questi anni difficili

La nostra economia è così legata al mondo che non poteva non essere pesantemente coinvolta da quanto accaduto nel 2008 con la crisi finanziaria  e la conseguente caduta della domanda globale (crollo del commercio internazionale, riduzione della produzione), già fiaccata, tra il 2007 e il 2008, dalla crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime.

E’ sufficiente ricordare, per aver un’idea della forza di questi legami, che circa 1/3 di quello che in Italia produciamo viene esportato e, d’altro canto, circa un terzo di quello che utilizziamo per consumi e investimenti viene comprato all’estero (dati Istat, contabilità economica nazionale). E’ come dire che su un ipotetico salario medio di 1.500 euro, 500 dipendono dalla domanda estera di nostri prodotti, e – corrispondentemente – circa 500 euro di quel salario saranno spesi per comprare prodotti e servizi costruiti e pensati all’estero.

La crisi partita da Wall Street è perciò arrivata in pieno e velocemente anche all’economia delle nostre piccole imprese, dei nostri distretti industriali, attraverso le “cinghie di trasmissione”. La prima cinghia è stata la riduzione degli sbocchi per le nostre esportazioni. Veneto e Friuli insieme hanno esportato per 24 miliardi nei primi 6 mesi del 2009 contro i 30 miliardi realizzati nei primi sei mesi del 2008: – 20% (dati Istat, contabilità economica regionale). A funzionare da seconda cinghia sono state le difficoltà di accesso al credito e il mutamento delle aspettative degli imprenditori (che hanno molta meno voglia di investire): ciò ha determinato un forte calo negli investimenti e quindi nella domanda di beni intermedi (da qui la crisi di molte piccole imprese del settore meccanico). Infine anche le imprese che producono per il mercato finale, vale a dire per i consumi finali delle famiglie, hanno dovuto fare i conti con la loro minor capacità di spesa, provocata sia dalla contrazione dei redditi di quelle famiglie (non poche) che hanno dovuto fare i conti con la perdita del lavoro per uno o più dei loro membri, sia dalla diffusione di un clima di preoccupazione per il futuro che ha indotto in molti a preferire il risparmio. Meno export, meno investimenti, meno consumi, vuol dire alla fine meno occupazione.

Rispetto ai livelli complessivi pre-crisi si può stimare che in Veneto e Friuli siano stati cancellati almeno 70-80.000 posti di lavoro, ma solo a fine anno sarà possibile tracciare un bilancio compiuto e sarà assai probabilmente peggiore rispetto a queste stime parziali. Di certo sono stati colpiti, soprattutto nella prima fase, i posti di lavoro nel settore industriale (manifattura e costruzioni): quindi lavoratori maschi e spesso stranieri. Sono aumentati i licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2009 oltre 30.000 sono risultati i lavoratori interessati in Veneto e Friuli da un licenziamento (individuale o collettivo) e perciò inseriti nelle apposite “liste di mobilità”: più del doppio rispetto all’anno precedente.
Sono aumentate le sospensioni: nessuno sa di preciso quanti lavoratori in Veneto e Friuli siano stati collocati, per periodi più o meno lunghi, in cassa integrazione, ma si può azzardare una stima, per il 2009, di almeno 100.000 persone (dati Veneto Lavoro).

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Il potere, le regole e… la crisi

Può sembrare pretestuoso affrontare un argomento così impegnativo e complesso nelle poche righe del nostro foglio. Ma anche il nostro piccolo foglio senza pretese ha il dovere di proporre qualche riflessione soprattutto se stimolata dalla drammaticità dell’attuale crisi economica e finanziaria. Dunque, consapevoli delle inevitabili semplificazioni, accantoniamo i timori e incominciamo.

Esiste una relazione fra il potere politico, le sue regole e la crisi economica? Se la relazione esiste, la crisi economica significa anche crisi del potere politico?

È noto che il potere è strettamente connaturato all’organizzazione sociale che gli uomini hanno costruito nel corso della storia: ogni organizzazione sociale si articola e si sviluppa secondo regole che vengono date, e gestite, da un gruppo ristretto di individui che detengono il potere.
Perché questo gruppo ristretto di individui detiene il potere? In termini specifici: chi, o che cosa, legittima il potere? La risposta potrebbe essere questa: il potere è legittimato dalle regole che vigono in quel momento e quindi chi determina le regole detiene il potere.

È appena il caso di sottolineare che storicamente la prima regola è stata la violenza: il più forte dominava sugli altri (fatte le debite considerazioni va constatato che, purtroppo, è così anche oggi in molte parti del mondo dominate da regimi totalitari). Ma la sola violenza non è di solito sufficiente e funzionale, nel lungo periodo, al mantenimento del potere perché esso ha la necessità di essere accettato da chi gli è sottoposto.

La religione, per questo, ha svolto un ruolo formidabile: nell’antico Egitto il Faraone era figlio di Ra, il dio sole, e quindi la sua legittimazione derivava direttamente dalla divinità; Mosé, capo del popolo ebraico errante, ricevette direttamente da Dio le tavole della Legge, come se Dio gli avesse delegato il compito di far applicare le sue leggi. Quindi Mosé, applicando quelle regole, era direttamente legittimato da Dio. Dopo il periodo oscuro seguito alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente la dinastia dei Merovingi, i cui discendenti reggono ancora oggi le residue monarchie europee, fu storicamente considerata diretta discendenza di Cristo.
La corona ferrea, così nominata perché secondo la tradizione contiene al suo interno un chiodo della croce di Cristo, fu solennemente posta dai papi sul capo degli imperatori, a partire da Carlo Magno. Anche in questi casi, e per secoli, la legittimazione del potere derivava direttamente da Dio.

Il lungo processo storico, culturale e politico che ha determinato la formazione delle moderne democrazie, ha avuto come risultato l’individuazione del popolo quale soggetto legittimante il potere. Il popolo possiede la sovranità ed esercita questa funzione delegando ai suoi rappresentanti democraticamente eletti la funzione legislativa, ovvero la determinazione delle regole.
Le regole, quindi, sono il prodotto della volontà popolare espressa attraverso i suoi rappresentanti.
La rappresentanza come metodo democratico ha potuto concretizzarsi, nell’ultimo secolo, grazie a quelle organizzazioni sociali costituite da aggregazioni di persone che condividevano ideali, valori e interessi: i partiti politici.

La combinazione fra crisi del sistema dei partiti e dei meccanismi di rappresentanza (in sostanza: la legge elettorale) ha influito in maniera significativa sulla crisi del sistema delle regole e quindi, in ultima analisi, sulla legittimazione del potere. Infatti se il potere è legittimato dalla volontà popolare espressa attraverso l’elezione dei suoi rappresentanti e il sistema della rappresentanza va in crisi, ciò non può non avere conseguenze sulla legittimazione stessa del potere. Il quale continuerà a produrre nuove regole, o a modificare quelle esistenti, al di fuori dell’effettivo controllo popolare e con lo scopo di conservare sé stesso o di elargire benefici alle oligarchie e favori a gruppi di cittadini a scapito di altri.

La progressiva perdita di significato di parole quali diritti, doveri, ideali, valori sostituite da termini come favori, delega, opportunità, convenienza, rappresenta un indicatore significativo della nostra modernità, che Z. Bauman definisce “liquida”. Ciò che sta nella modernità liquida muta continuamente i propri riferimenti in funzione del contesto che, a sua volta, muta continuamente privando così il tutto di qualsiasi riferimento. Paradossalmente le uniche costanti si chiamano oggi precarietà e flessibilità.

Il delicato e sottile equilibrio che sta alla base della democrazia, consenso popolare – rappresentanza – regole – gestione del potere per il bene comune – è ormai compromesso. L’unica speranza potrebbe essere rappresentata dall’acquisizione di consapevolezza da parte dell’opinione pubblica. Ma la manipolazione dell’informazione permea il vivere quotidiano e impedisce così il riscatto delle coscienze.

E l’economia? Incominciamo con il dire che l’economia è una scienza anomala che in certi periodi o in certe collocazioni geografiche viene applicata in base al furore ideologico. Se dal punto di vista teorico, infatti, lo scopo del mercato è quello di aumentare il benessere (cioè il soddisfacimento dei bisogni) dell’universalità degli individui, secondo la teoria della “mano invisibile” di A. Smith, dal punto di vista pratico tutti noi assistiamo all’iniqua distribuzione delle risorse fra individui di una nazione e fra nazioni diverse.