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La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

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Mille anni di storia e arte nelle chiese di Venezia, maggio-ottobre 2007

Luisella, Gioia e Gigliola sono sempre “a caccia” di idee e iniziative da proporre ai propri amici e soci.
Immagino che durante una delle loro riunioni serali del martedì Gioia abbia lanciato la proposta di organizzare una serie di uscite giornaliere a Venezia per visitare le chiese del “circuito Chorus”.

Gioia da tempo collabora con “Dimensione Cultura”, la mia associazione che ha sede a Concordia Sagittaria, ed ha pensato di coinvolgermi nell’iniziativa sapendo che da qualche anno sono impegnata nello studio dell’immenso patrimonio storico-artistico della Serenissima Repubblica veneziana.
Una volta steso il calendario e sottoposto all’attenzione dei soci sono arrivate subito le adesioni. Tutto confermato: si faranno quattro uscite il sabato a partire dal mese di maggio, per concludere ad ottobre.
“Chorus” è un’associazione veneziana impegnata nella gestione e valorizzazione di alcune delle più importanti chiese di Venezia.

Sono ben sedici gli edifici sacri compresi nel “circuito Chorus”: noi li abbiamo divisi con un criterio territoriale, nei sestieri veneziani. Le nostre uscite infatti non hanno avuto solo lo scopo di conoscere le chiese, ma sono state anche l’occasione di passeggiare con tranquillità, tra amici, per chiacchierare e gustare angoli veneziani più o meno conosciuti.

Sabato 19 maggio ci siamo trovati alla stazione ferroviaria di Portogruaro per partire insieme. Dopo una prima fase di presentazioni e di “controlli” da parte di Luisella, perfettamente organizzata nella gestione di biglietti e prenotazioni, siamo partiti per la nostra avventura…
Le chiacchiere piacevoli durante il viaggio in treno mi hanno permesso di conoscere l’associazione “La Ruota” e di cominciare ad entrare in confidenza con il gruppo; una confidenza che è diventata amicizia nel corso delle successive uscite.

Durante la prima escursione non abbiamo camminato molto in quanto le quattro chiese visitate sono le più significative del sestiere di Cannaregio.

La rinascimentale San Giobbe che custodisce un’opera unica nel suo genere a Venezia: la cupola in terracotta della cappella Martini realizzata dal toscano Luca della Robbia.

La chiesa di Sant’Alvise esempio di architettura gotica conventuale e custode di tre importanti opere di Giambattista Tiepolo con scene della passione di Cristo.

La terza tappa ci ha portato alla chiesa della Madonna dell’Orto, non lontano dalle Fondamenta Nuove affacciate sulla laguna nord; si tratta di uno degli esempi più celebri dell’architettura gotica veneziana e la sua fama è ulteriormente accresciuta dalle opere pittoriche che conserva. Credo che il dipinto più emozionante sia l’enorme pala di Jacopo Tintoretto con la Presentazione della Vergine al tempio, dai caldi e vibranti effetti luministici.

Dopo il momento conviviale del pranzo, una breve camminata ci ha portato di fronte alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, uno splendido scrigno rivestito di marmi policromi e raffinate sculture: indubbiamente uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale realizzati in città dalla bottega dei Lombardo, architetti e decoratori del secolo XV.

Il gruppo degli appassionati si è ripresentato puntuale sabato 16 giugno, ancora ignaro della lunga passeggiata che avrebbe fatto.

Arrivati alla chiesa di Santo Stefano, abbiamo potuto osservare solo l’esterno dell’edificio in quanto stava per iniziare la celebrazione di un matrimonio. Siamo comunque entrati per la visita dell’interno nel corso dell’uscita di ottobre: non potevamo tralasciare la sagrestia della chiesa con le tele di Jacopo Tintoretto.

Dopo aver fatto tappa nella chiesa di Santa Maria del Giglio, fastoso esempio di architettura barocca del XVII secolo, un altro matrimonio ci ha bloccato all’ingresso della chiesa di Santa Maria Formosa. Nessun problema, abbiamo continuato la camminata fino all’isola di San Pietro di Castello, all’estremità est di Venezia per visitare l’omonima chiesa, importante nella storia della città in quanto è stata per secoli sede vescovile. E’ piaciuta l’atmosfera del sestiere di Castello, che alcuni non conoscevano, in quanto meno turistico e più “veneziano”.

Dopo la pausa pranzo conclusa con un fresco gelato, invece di rientrare con il vaporetto come previsto, ci siamo rimessi in marcia per fare di nuovo tappa, sulla via del ritorno, a Santa Maria Formosa, una delle opere architettoniche più celebri dell’architetto rinascimentale Mauro Codussi.

L’escursione fatta alla fine di settembre è stata la più impegnativa, per il numero e per l’importanza delle chiese.

Dopo un caffé ed una breve camminata siamo entrati nella chiesa di San Giacomo dell’Orio per ammirare in particolare il ciclo realizzato Jacopo Palma il Giovane nella sacrestia vecchia.

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Bagnara

  • BAGNARA: frazione del comune; il nome deriva dal latino “balnearia – bagni, luoghi paludosi”. Esso caratterizzava un territorio paludoso attraversato da numerosi corsi d’acqua ben più consistenti di quelli attuali.
    La struttura geomorfologia del terreno conferma la presenza di affioramenti ghiaiosi oltre ad avvallamenti di chiara origine fluviale. Un’ulteriore conferma, che interessa il nome Bagnara, è la presenza a poca distanza del paese, di Bagnarola. Recenti ipotesi hanno infatti correlato le due località classificandole tra le numerose coppie toponimiche presenti nelle vicinanze.
  • Via Alessandro Manzoni: scrittore italiano (Milano, 1785 – 1873). Figlio del conte Pietro e di Giulia Beccaria.
    Per dissidi fra genitori, il Manzoni fu educato in vari istituti religiosi. L’influenza delle tradizioni familiari e le tristi esperienze scolastiche lo avvicinarono alle idee della Rivoluzione francese. Il periodo tra il 1805 e il 1810 trascorso a Parigi presso la madre, fu molto importante per la sua formazione anche spirituale. Il matrimonio con Enrichetta Blondel, giansenista, lo porterà successivamente, alla conversione al  cattolicesimo.
    La produzione cristiana inizia con gli “Inni sacri” con cui il poeta voleva esaltare le maggiori festività della Chiesa. Seguirono le tragedie “Il conte di Carmagnola” e “L’Adelchi” in cui, di fronte all’ingiustizia terrena, l’uomo si deve affidare alla volontà misericordiosa di Dio. A questo tipo di riflessione appartiene anche l’ode “Il cinque maggio” scritta per la morte di Napoleone.
    “I Promessi sposi” rappresentano il compimento di tutto il suo percorso interiore e letterario.
    La loro complessa struttura narrativa può considerarsi il risultato di quella esigenza di verità e di sentimento religioso che  caratterizza l’uomo e che permea tutta l’opera. L’ultima stesura del romanzo fu pubblicata a dispense fra il 1840 e il 1842. Successivamente il Manzoni si occupò soprattutto di questioni linguistiche in cui cercò di difendere e imporre anche nella pubblica istruzione il modello fiorentino che considerava più adatto all’unificazione italiana.
    La sua vita privata non fu molto felice, rattristata dalla morte in giovane età, della moglie Enrichetta e da gravi problemi familiari. Si risposò nel 1837 con Teresa Borri. Nominato senatore del regno partecipò al voto con il quale si trasferiva la capitale da Torino a Firenze: era sempre stato contrario al potere temporale dei papi. Incontrò Cavour, Garibaldi, Verdi, Vittorio Emanuele e Margherita di Savoia; da tutti era stimato per la sua integrità morale e il suo moderatismo. Morì a Milano il 22 maggio 1873.
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dicembre 2007

  • 12 ottobre 2007: presentazione del libro “Muri, lacrima e za’tar” di Gianluca Solera.
  • 13 ottobre 2007: visita guidata ad alcune chiese del circuito “Chorus” di Venezia.
  • 11 novembre 2007: visita guidata alla mostra “Tiziano ultimo atto”, Belluno.
  • 25 gennaio 2007: in occasione del Giorno della Memoria, lettura scenica di poesie, con l’accompagnamento di musiche ed immagini.
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maggio 2007

Di seguito il sunto delle attività fin qui svolte:

  • 23 marzo 2007: “Immigrazione e globalizzazione: come cambia la nostra società” – Relatore: dott. Bruno Anastasia – Osservatorio “Veneto lavoro”.
  • 13 aprile 2007: “Il clima che cambia: stato di paura o scomoda verità?” – Relatore: dott. Fulvio Stel – OSMER – FVG.
  • 20 aprile 2007: “TFR: informazioni per l’uso” – Relatore: sig. Renzo Moret – INCA CGIL – Portogruaro.
  • 19 maggio 2007: Visita guidata ad alcune chiese del circuito “Chorus” di Venezia.

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Il past (il pranzo di nozze)

Nell’immediato dopoguerra, negli anni che vanno, grosso modo, dal ‘45 al ‘55, sia il rinfresco, sia il pranzo di nozze venivano fatti in casa; naturalmente, per l’occasione si mobilitava tutto il vicinato con richieste di tovaglie, tovaglioli, posate, pentole, piatti, bicchieri e bicchierini, il tutto rigorosamente contrassegnato, onde evitare litigi quando avveniva la restituzione. Le liti però nascevano lo stesso, regolarmente, vista la furbizia delle donne, che non aspettavano momento migliore per poter scambiare, ad es., un tovagliolo macchiato con uno  perfettamente pulito.

I preparativi incominciavano una quindicina di giorni prima della data prefissata; i genitori degli sposi si riunivano e decidevano il menù.

Quello tipo era :

rinfresco:

  • Vermut con savoiardi, caffé, vino bianco, grappa.

pranzo:

  • Antipasto – salame, pancetta, ossocollo, con giardiniera o insalata russa.
  • Primo – minestrina in brodo con pastina (con il passare degli anni arrivarono anche i tortellini).
  • Secondi – lesso di gallina e di tacchina, a volte anche manzo, accompagnati da giardiniera, cren e patate lesse; arrosto di pollo, di faraona, d’anatra, d’oca (naturalmente venivano scelti e portati in tavola solo due degli arrosti succitati); più tardi arrivò anche l’arrosto di vitello.
  • Contorni – spinaci al burro (di rigore!), insalata con ravanelli (in primavera), radicchio con le “frisse” (in autunno), patate al forno.

Con le pietanze si serviva il pane e mai polenta (al massimo la si portava in tavola con il formaggio, alla fine del pranzo). La preparazione del rinfresco e del pranzo veniva affidata ad un cuoco o ad una cuoca.

Il giovedì, prima del sabato, giorno stabilito per il matrimonio, incominciavano le pulizie della casa; si partiva normalmente dalla cucina, di solito molto grande che ospitava la stufa, el spoler, che misurava almeno 2,5 metri di lunghezza e 1,5 di larghezza, dove sarebbe stato cucinato il pranzo. Bastavano una imbiancata ai muri, mastellate d’acqua sul pavimento, che era di cemento grigio, con sfumature rosso scuro verso le pareti, una pulitina ai vetri; per l’occasione si cucivano anche tendine nuove. Una volta pulita, si riempiva questa enorme stanza con i tavoli, a seconda del numero degli ospiti.

Il venerdì si passava poi a riordinare il cortile; per prima cosa si rinchiudevano le galline nel pollaio, poi si riparava la stropa (la recinzione del cortile, fatta di pali di salice, tagliati a misura d’uomo e legati, uno vicino all’altro con fil di ferro, anche il cancello era fatto allo stesso modo); si spazzava poi il cortile con grosse scope di saggina; l’operazione veniva ripetuta il sabato mattina, dopo aver fatto abbeverare le mucche, che, si sa, ritornando dalla fonte alla stalla, lasciavano sempre un regalino per strada.
Sempre il venerdì, venivano ammazzati i capi di pollame e raccolte e pulite le varie verdure. Quindi tutti, uomini, donne e bambini, avevano il loro bel daffare, ma per fortuna, a quei tempi, le famiglie erano molto numerose.

Il sabato mattina, verso le 5.30, arrivava la cuoca e, per almeno due ore, era indaffarata a tagliare e a squartare i polli, le galline, le anatre e i tacchini e a scegliere i pezzi per le varie ricette.

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Mondina

  • MONDINA: località della frazione di Bagnara
    L’origine del nome si può individuare nel termine MONDARE, cioè pulire, diserbare, in riferimento alla bonifica della zona.
  • Via Ponzanis: la tesi corrente è che il nome sia di derivazione latina, esattamente derivante dal nome latino PONTIUS. Esso è comunque l’unico nome di origine romana presente nel territorio di Gruaro.
  • Via Macchiavelli Nicolò (Firenze 3/5/1469 – 22/6/1527): scrittore e politico. Segretario della 2a cancelleria della Repubblica fiorentina (1498/1512), compì numerose missioni diplomatiche in Italia e all’estero. Tornati i Medici a Firenze fu costretto a lasciare la vita politica. Si dedicò pertanto alla stesura delle sue opere maggiori: “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, “Il Principe” e i dialoghi ”Dell’arte della guerra”; in esse è contenuto il suo pensiero politico. Nel “Principe”, per la prima volta si ha la precisa formulazione della necessaria distinzione tra la sfera etica e quella politica. L’opera ebbe un’immensa risonanza e fu messa all’indice nel1559 con l’accusa di empietà ed immoralità. Nel 1520 il cardinale Giulio de’ Medici gli affidò l’incarico di redigere la storia di Firenze; ne nacquero le “Istorie fiorentine” opera in 8 libri, rimasta incompiuta.
    Di valore anche la sua produzione letteraria: commedie come la “Mandragola” e “Clizia” e il poema “L’asino d’oro” testimoniano il vivo interesse di Macchiavelli per le questioni linguistiche e il suo sostegno al fiorentino contemporaneo.
  • Via Guicciardini Francesco (Firenze, 6/3/1483 – Arcetri, 22/5/1540): politico e storico. Ambasciatore della Repubblica fiorentina in Spagna, dopo il ritorno dei Medici a Firenze divenne, per incarico del Papa, governatore (1516/1526) di alcune province dello Stato Pontificio. Divenuto responsabile della politica estera della Curia, ebbe un ruolo di primissimo piano nell’organizzazione della Lega di Cognac (1526) contro Carlo V. Nel 1531 fu al servizio dei Medici. Si ritirò a vita privata nel 1537.
    Il suo pensiero politico e la sua concezione storica sono contenuti principalmente nei “Ricordi” dove traspare il suo scetticismo sulla possibilità dell’uomo di poter intervenire sulla realtà e quindi dell’inutilità di elaborare modelli d’interpretazione globale della stessa.
    In questo senso si opponeva al suo contemporaneo Macchiavelli. La sua opera più significativa resta la “Storia d’Italia” (1537/40) che consta di 20 libri nei quali sono presentati gli avvenimenti intercorsi tra la discesa di Carlo VIII nel 1494 e la morte di Clemente VII 1534. L’opera rappresenta il primo tentativo di tracciare una storia politica di respiro europeo.

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La politica ambientale… a Gruaro

Questa politica è come l’ultima proposta del Ministro Amato, o come alcuni aeroplani da combattimento: a geometria variabile. In volo di crociera, fra due elezioni, con le ali ripiegate, e quasi non se ne percepisce il passaggio, tanto va veloce.

Invece, durante la campagna elettorale, alettoni dispiegati al massimo, essa plana sulla cittadinanza, trasformando gli “ecologisti” più brillanti, di cui, ultimamente, tenta di recuperare i meriti, in pallide verdastre evanescenze. In quel periodo, i progetti ambientali si sovrappongono, si combattono, si offrono agli elettori a colpi di depuratori di ultima generazioni, di riforestazioni, di riqualificazioni, di acque cristalline, di disinquinamenti, di protezione al massimo livello, di impietosa repressione e ritorni alla natura di una volta.

Questo vale per tutti gli schieramenti.

Personalmente, io che di ambiente non vivo, ma soffro da 17 anni a Boldara, non ne voglio parlare, ma schiettamente descriverne la realtà attraverso  sia il mio impegno personale che quello della mia associazione “Un parco per Boldara”, tanto  vituperata quanto ignorata.

Nel 1980, ho trovato a Boldara, ambientalmente parlando, uno scorcio di ‘700 con dei prati stabili separati da splendidi filari di  “vencheri”; un Lemene dalle acque trasparenti, ancora ricche di una grande varietà di pesci e con le rive popolate di uccelli acquatici. Le strade erano bordate di alberi maestosi, “talponi”, platani, frassini, con quelle poche luci che bastavano alla circolazione ridotta di questa zona campagnola.

Nel 2007, qual è la situazione?
Grazie a circa 50 variazioni al piano regolatore, una superficie enorme di terreni agricoli è stata trasformata in zone edificabili. Certo è difficile resistere a non vendere un terreno agricolo, che dai 30 milioni all’ettaro passa ai 250, quando diventa edificabile. Ma di questo cambiamento d’uso, ne approfitta solo il venditore?

Esistono anche i prodigi: come fa una zona ad essere considerata di “completamento” (quando inclusa fra due case), quando essa è compresa solo fra una casa e il fiume? A Boldara si può osservare il miracolo.

Questa speculazione ha trasformato Gruaro in un complesso di  lottizzazioni, dove non sempre quanto costruito è abitato, ma diventa, a parer mio, una “fascia dormitorio”, molto comoda per la zona industriale vicina, ma scarsa di  attività culturali, ricreative o economiche. In sostanza, cosa può fare la gente fuori casa e fuori lavoro? Andare in piscina? Andare al cinema? Andare al teatro? Passeggiare facendo shopping? Ritrovarsi in una piazza alberata, accogliente, dove ci si può sedere e scambiare due parole? Andare in circoli ricreativi per imparare qualcosa, dalla musica alla ceramica? Prendere una navetta per recarsi in città? Fare una passeggiata  su una pista ciclabile  lungo le strade che incrociano le nostre campagne ancora intatte?

C’è una piazza, certo.
Con alcune panchine, senza appoggio dorsale, posizionate in modo perfetto per non godere dell’ombra del solo albero presente, assolutamente non autoctono (un leccio toscanosardo), una fontanella molto erotica, lo concedo, al limite di una superficie cementata, che arriva ai 54 gradi al primo raggio di sole estivo. Il tutto separato dal paese da una strada ad alta velocità, sprovvista di dossi di rallentamento.

Però, c’è una passeggiata, a destra e a sinistra del fiume Lemene, a Boldara.
Quella di destra è stata realizzata con l’ausilio di un cingolato che, in un paio di ore, ha azzerato un bosco di zona umida con avvallamenti naturali contenenti specie autoctone, ormai rare. Queste geologiche e naturali ondulazioni sono state “rettificate”  con terre di riporto di origine sconosciuta e arricchite, non solo di piante estranee, ma anche “orticole”. La passerella è stata, chissà per quale motivo, costruita nella zona golenale, di esondazione, quando bastava appoggiarla sul terreno vicino, rialzato. “La ciliegina sulla torta” è stata la creazione di una pozzanghera (che necessità una regolare e costosa disinfestazione contro le zanzare) addobbata con “Tifa”, giunco infestante che non lascia  spazio ad altre specie. In sostanza, un concentrato di non rispetto delle direttive del Genio Civile e della Forestale di Treviso, di cui abbiamo  la documentazione.

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Voci dal pianeta immigrazione – Storia di Silvia M.S., badante

La storia di questa giovane donna ucraina è simile a quella di tante altre che sono arrivate in Italia spinte dalla necessità perché assediate dalla povertà del loro Paese dopo la fine dell’U.R.S.S. avvenuta in seguito al crollo del muro di Berlino nel 1989. Questo è il racconto che lei stessa fa della sua esperienza.

“Sono giunta qui nel 2001, non avevo ancora 30 anni. Avevo sentito parlare dell’Italia da una mia amica al suo rientro in Ucraina per le ferie estive. Lei mi raccontava che qui si trovava bene e che anch’io avrei potuto fare lo stesso.
Io non avevo però i soldi per il viaggio e così la mia amica si è offerta di aiutarmi. Anche lei lavorava prima come badante e poi come collaboratrice familiare. Il mio ingresso in Italia è avvenuto da turista; arrivai a Salerno, ospite dell’amica per circa un mese. Io non conoscevo l’italiano, né gli Italiani, comunque trovai occupazione come badante di una signora anziana invalida. Sono rimasta con lei 7 mesi fino alla sua morte.

Avevo un cognato a Milano che mi ha dato ospitalità e mi ha trovato un lavoro come badante in un paese in provincia di Pavia.
Il datore di lavoro di Milano mi ha fatto avere il permesso di soggiorno e mi ha regolarizzata. Quando la signora è mancata, sono tornata a casa per due mesi. Volevo tornare a Milano, ma un’altra amica che vive tuttora a Cordovado e ha una casa in affitto, mi ha fatto venire qui. Dopo tre giorni dall’arrivo, mi hanno assunto i sig. Bortolussi per assistere la loro mamma, la signora Maria, con la quale sono rimasta tre mesi fino alla sua fine. Su indicazione della signora Denise ho conosciuto la famiglia Stefanuto e ancora oggi seguo il signor Ferruccio con cui vivo da tre anni.

Qui mi trovo benissimo come mi sono trovata sempre bene con tutte le persone che ho conosciuto. Non ho mai avuto problemi: sono assunta regolarmente e sono sempre stata pagata.
Gli Italiani sono come tutta la gente del mondo: bravi e meno bravi; ho notato una differenza tra quelli del Sud e voi del Nord: i primi sono più estroversi ed allegri, mentre qui la gente è sempre presa dal lavoro.

In Ucraina avevo lasciato la mia famiglia: mio fratello di 28 anni sposato con una bimba, mia madre di 53 anni vedova e mia figlia, dalla quale mi ero separata con tanta sofferenza. Sono venuta qui per poter realizzare un sogno: avere una casa mia perché ora viviamo ancora tutti insieme nella casa della mamma.
Il mio paese è Gagor in provincia di Cernivzi e si trova nel sud dell’Ucraina a 300 Km circa da Odessa.

Lo Stato è povero e la situazione economica è peggiore del tempo in cui eravamo una repubblica russa; i prezzi sono come quelli europei, ma il salario medio è di circa 200 euro mensili. E’ tanto dura! Al tempo della Russia almeno la gente lavorava in fabbrica e si aveva quanto bastava per vivere. Adesso tantissimi giovani vanno all’estero a cercare lavoro.
Da noi ora ci sono tanti ricchi, ma anche tanti poveri che fanno la fame; quando sono tornata in Ucraina questa estate, vicino alla mia casa che sto costruendo con i risparmi del mio lavoro, sono sorte tante ville.
Da dove vengono i soldi?

Le difficoltà economiche spingono molte ragazze verso l’Italia, disposte a tutto pur di guadagnare tanto, magari in breve tempo. Per questo spesso diventano vittime di trafficanti senza scrupoli che le avviano alla prostituzione.
Io sono stata fortunata perché ho trovato sempre persone oneste che mi hanno aiutata.
Devo rinnovare il permesso di soggiorno ogni 2 anni, però nel 2008 potrò ottenere un permesso a tempo indeterminato.

A livello affettivo non ho nessuno; sono ancora provata dal divorzio dal padre di mia figlia Cristina, che sono finalmente riuscita a portare in Italia dopo gli ostacoli impostami dal mio ex marito che, pur vivendo in Russia con una nuova famiglia, non voleva concedermi il permesso a tempo indeterminato.
Mi sono sposata a 21 anni e Cristina è nata subito dopo.
Ora mi sembra di essere in paradiso, perché mia figlia è tranquilla, dopo la lunga separazione e la sofferenza per il divorzio. Qui frequenta la 2° media e mi pare ben inserita nel contesto scolastico.

Ho nostalgia della mia famiglia, soprattutto della mamma che, a 53 anni, si ritrova vedova e che comunque continua a lavorare. Gli uomini spesso sono dediti all’alcool e le donne devono affrontare da sole il peso della sopravvivenza.
Per ora penso di restare qui ancora 5/6 anni perché il mio obiettivo primario è quello di finire la mia casa e di ritornare in Ucraina anche se… non si può mai dire quello che avverrà.”

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Voci dal pianeta immigrazione – Storia di Silvana V., collaboratrice domestica

La storia di Silvana è una storia di immigrazione “normale”, meno “disperata” di quelle, ad effetto, che ci propongono i mezzi di informazione. Manca in essa l’aspetto drammatico della clandestinità, ma come ogni storia di emigrazione ha in sé il risvolto del distacco, di scelte a volte dolorose, di precarietà.

Silvana è argentina ed arriva in Italia con il marito, italo -argentino, nel 2004, spinta dalla grave crisi economica che ha colpito il suo paese, portandolo sull’orlo della bancarotta.
Silvana, in Argentina, lavorava in banca: trattava con i clienti e il suo posto di lavoro era un osservatorio privilegiato e sensibile di quanto stava accadendo attorno. Lei ricorda ancora come particolarmente difficile e doloroso quel periodo in cui doveva affrontare le persone allo sportello e riferire loro che le condizioni generali erano cambiate e che la banca non poteva aiutarli e venire incontro alle loro necessità e, davanti a quelle facce deluse a volte disperate, vedeva infrangersi quel rapporto di fiducia  e cordialità che si era andato instaurando nel corso degli anni, 11 per la precisione.

Queste difficoltà, unitamente al fatto che la banca riduceva il personale e raddoppiava la buonuscita per chi lasciava volontariamente e al fatto che il marito, italo-argentino con passaporto italiano, aveva saputo da alcuni parenti residenti in Italia che potevano esserci per loro possibilità d’impiego, la inducono ad emigrare.

Ottenuto un visto dal Consolato italiano ed un permesso di soggiorno, si trasferisce nel nostro paese. Le difficoltà non mancano: non conosce la lingua, la gente,  pur disponibile e cordiale, le si rivolge in dialetto, il che accresce il suo disorientamento, ha difficoltà a trovare un lavoro qualificato, fisso e adeguato al suo titolo di studio, ma si adatta e diventa collaboratrice domestica; anche il marito, nel frattempo ha trovato impiego come autista.

Il problema del lavoro è così risolto, rimane quello dell’inserimento nella nuova realtà sociale, che avviene con più lentezza e che è condizionato da tutta una serie di fattori di tipo lavorativo, culturale e di non condivisione di esperienze. Silvana non dispera che questo possa accadere al più presto anche se considera, quella italiana, una parentesi della sua vita, parentesi  tutto sommato positiva ma a termine, spera infatti di ritornare, appena le cose si saranno sistemate, in Argentina.

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