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Scuola: la nuova resistenza

Proponiamo un estratto dell’intervista della giornalista Simonetta Fiori ad Alberto Asor Rosa, già direttore del Dipartimento di Studi filologici, linguistici e letterari dell’Università “La Sapienza” di Roma, pubblicata dall’Editore Laterza nel volume “Il grande silenzio – intervista sugli intellettuali” – edizione 2009.

I paragrafi sono preceduti dalle sillabe D ed R ovvero “Domanda”, “Risposta”. Le domande sono riportate in corsivo.

D. E’ cambiato il senso degli italiani su fascismo e antifascismo. Il “berlusconismo” si connota come azzeramento del senso storico. Avanza numerosa la tribù dei nuoveax reactionnnaires. Siamo in presenza di un’egemonia culturale di segno radicalmente diverso?

R. Su questo io avrei qualche dubbio. E’ vero che a questa lettura storica rovesciata, o all’ideologia onnivora del presente, non si contrappongono efficacemente né grandi organismi collettivi come i partiti né i tradizionali artefici dell’opinione pubblica. Tra i giornali, alcuni sono consenzienti, altri non sufficientemente avvertiti. Sono pochi i quotidiani che tentano di opporsi a un uso pubblico della storia distorto e strumentale. Ho l’impressione che non vi sia lucida consapevolezza intorno a una fenomenologia che pure è allarmante. Quindi l’operazione in apparenza conosce pochi ostacoli. Sono persuaso però che nel paese vi siano ancora zone di resistenza molto forti, ed è da queste che dovremmo ripartire, quando avremmo deciso di iniziare il nuovo “percorso”.

D. Quali sono queste “zone di resistenza”?

R. Guardi, sono perfettamente consapevole di non essere in grado di farle un elenco ragionato. Del resto, se non fosse così, la diagnosi non sarebbe così pessimistica. Penso dunque che sia più utile parlare in questa fase di “zone di resistenza” che, nonostante tutto, si annidano pressoché ovunque all’interno dell’opinione pubblica, rifiutandosi di farsi coinvolgere nell’operazione corruttrice del berlusconismo. Naturalmente non parlo di operazioni strictu sensu politiche che richiederebbero un discorso tutto diverso. Continuo ad aggirarmi, sia pure in un’ottica diversa, nel campo delle funzioni intellettuali, che hanno il peso più rilevante in questa storia. Siccome non è più lecito aspettarsi granchè dai tradizionali maitres à penser, dobbiamo pensare ad aree di “pensiero diffuso”, spesso organizzate istituzionalmente, con funzioni pubbliche storicamente definite. Da tempo penso di scrivere qualcosa che cominci con questa frase: “Vorrei parlar bene della scuola italiana”. Unità nazionale, spirito critico, modelli culturali: da Sondrio a Capo Pachino non c’è altro tessuto che possa sostituire questo. Funziona male? Funziona, io penso, a macchia di leopardo, come qualsiasi macchina istituzionale comporta. Ma complessivamente è ancora un baluardo di dimensioni difficilmente espugnabili. E tuttavia, non casualmente, hanno già cominciato a provarci. L’accanimento con cui in questi mesi s’è tentata una disarticolazione pesante della struttura scolastica italiana, non a caso ripensata e ridimensionata, è segno rivelatore che in questi luoghi formativi il messaggio “neorevisionistico” o il nuovismo berlusconiano non sono penetrati. Naturalmente parlo sulla base di percezioni limitate e settoriali, che forse varrebbe la pena di approfondire. Come la pensano i professori di storia, di  italiano, di latino, di filosofia, di scienze, di matematica, di arte su questa fase della vita pubblica nazionale? Da quel che avverto, l’egemonismo della nuova cultura è rimasto fuori dalle aule scolastiche.

D. Sta dicendo che l’ideologia della “civiltà che avanza” ha trovato un bastione di resistenza nella scuola più che altrove?

R. Non è un fattore secondario se consideriamo il ruolo formativo svolto da queste strutture sulle generazioni più giovani. Recentemente sono stato tentato di scrivere un “elogio della scuola italiana” proprio per questa attenzione ai valori civili che altrove sembrano calpestati. Tra gli insegnanti, più che in altri settori della vita nazionale, persiste un livello di autonomia molto alto. Rispetto alla sciagurata smemoratezza dilagante nel paese, ai vuoti di memoria che contagiano pesantemente anche la sinistra, allo spirito del tempo celebrato da Berlusconi, la scuola è l’ultima frontiera: le sue strutture, i suoi docenti, i suoi libri di testo rimangono saldamente ancorati alla tradizione storica italiana. L’homo novus italico – plasmato dai Grandi Fratelli e dalle lusinghe della “civiltà montante” – s’imbatte qui in un grosso ostacolo.

D. Ed è per questo che si cerca di indebolire la scuola?

R. Il disegno mi sembra abbastanza evidente. Per il nuovo potere dominante, questo spazio formativo non ancora omologato allo “spirito del tempo” risulta intollerabile. Non è casuale l’attacco parallelo all’altro polo autonomo per decisioni e scelte, ossia la magistratura. Scuola e magistratura sfuggono al pensiero unico che si vorrebbe egemone: per questo devono essere smantellate.

D. Perché la scuola pubblica italiana riesce oggi ad assolvere una funzione del genere?

R. La scuola pubblica italiana è un’istituzione più che secolare, che ovviamente ne ha viste di tutti i colori, ma che neanche sotto il fascismo si è degradata ad ancella del regime. Del resto la riforma “fascista” della scuola era più una riforma idealistico – umanistica che non una riforma totalitaria, subalterna del regime, e portava il nome di uno che si chiamava Giovanni Gentile. Gentile, non Gelmini, mi spiego? Dopo l’antifascismo e la Resistenza, la scuola pubblica italiana s’è conformata allo spirito pubblico per decenni dominante, e per molti versi ha attinto alle culture migliori del periodo, quella cattolico – democratica, quella liberalsocialista e quella comunista; e poi, per una fase più vicina a noi, alle istanze progressiste, laiche, egualitarie e libertarie degli anni Sessanta e Settanta. Una miscela del genere può difficilmente essere devitalizzata. Poi, come sua caratteristica strutturale, la scuola ha a che fare con i processi formativi e con le giovani generazioni: un meccanismo che per sua natura rilutta all’incasellamento nelle maglie strette del “pensiero unico” e della dittatura mediatico – politica del berlusconismo. Uno non ci pensa mai, o ci pensa poco, ma dove altro mai gli italiani, i giovani italiani, hanno la possibilità di conoscere e praticare una cultura anch’essa di massa, ma non mediatica, e sufficientemente compatta e omogenea, se non nella scuola? Forse nelle famiglie? Lo escludo nel modo più assoluto. Anche qui si potrebbe osservare, sia pure marginalmente nell’ambito del nostro discorso: possibile che la “politica di sinistra” non se ne sia accorta, privilegiando fino in fondo il discorso su questo fondamentale bastione di resistenza?

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Ricordi di scuola…

“Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”

A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.

L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.

La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”

La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).

Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.

Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.

C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.

Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.

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Dall’università alla ricerca: amarcord ed esperienze rivisti a mente fredda

E’ con piacere che approfitto dell’occasione offertami di poter parlare della mia esperienza nel mondo dell’università, ora che, trascorsi ormai quasi due anni dal giorno della mia laurea, mi trovo nella miglior posizione per valutarla a tutto tondo senza condizionamenti.
Anzi, ora che ho fatto il salto “dall’altra parte della barricata” passando dall’università alla ricerca, posso ancor meglio valutarne i punti deboli e di forza e poter capire se davvero i cinque anni trascorsi tra corsi, esami e laboratori mi hanno lasciato in eredità la preparazione di cui ho bisogno adesso.

Sono trascorsi ormai più di 7 anni da quando, nel settembre del 2001, mi iscrissi all’università; la sede scelta, per ragioni logistiche oltre che per qualità rinomata, Trieste, il corso di laurea Fisica.
Nonostante la mia formazione prettamente umanistica e classica che poteva far sembrare strana o quantomeno azzardata la mia scelta, nessuno di quanti mi erano vicini mi fece mai pesare questo aspetto, ma anzi un unanime coro di sostegno mi diede l’energia necessaria per iniziare un percorso che, di certo, non di prospettava come il più semplice possibile. E così infatti fu.

I primi mesi non furono per nulla semplici, non tanto per il carico di lavoro che la nuova realtà mi imponeva quanto per il notevole gap che mi divideva dalla maggior parte dei miei compagni di corso che, provenendo da background già di impronta scientifica, mostravano di trovarsi sin da subito a proprio agio nella nuova realtà, o almeno così credevo io.
Non mi sono però lasciato scoraggiare dalle prime difficoltà e sono andato avanti per la strada che mi ero prefisso cercando di colmare le mie lacune iniziali passando lunghe ore su libri ed appunti. A lungo andare, i risultati furono dalla mia parte e nel corso degli anni mi sono lasciato alle spalle o addirittura ho perso di vista compagni che ritenevo molto più quotati di me, i quali però peccando di supponenza o semplicemente incontrando maggiori difficoltà di quelle preventivate, non sono stati risparmiati dalle falci degli esami di fine trimestre.

In ogni caso, siccome mi è stato chiesto di parlare a tutto tondo della mia esperienza universitaria, non posso esimermi dallo spendere qualche parola su quello che, molto e forse troppo spesso, è uno degli aspetti più delicati nella vita universitaria dello studente, ossia il rapporto con l’organizzazione del proprio corso di laurea e con la “burocrazia”:  professori, lezioni, segreterie, moduli… a volte ce n’è abbastanza per un vero teatro dell’assurdo. E le testimonianze di generazioni di studenti stanno li a dimostralo.
Ebbene, contrariamente all’esperienza di molti altri studenti in altre facoltà della mia università o in altre università, la mia esperienza in tal senso è stata tutto sommato positiva, in alcuni aspetti anche molto positiva. In oltre 5 anni, gli orari delle lezioni e le date degli esami sono state sempre rispettati e, nelle rarissime occasioni in cui non lo sono stati le comunicazioni al riguardo erano sempre tempestive e puntuali.

Molti dei miei professori non hanno mai avuto un orario di ricevimento fissato ma sono sempre stati disponibili a ricevere gli studenti pressoché in qualsiasi momento, e non ricordo di aver mai dovuto fare i salti mortali per poter parlare con un docente per chiarimenti, domande o fissare la data di un esame.
Ritengo che una fetta significativa di questo merito vada attribuito al fatto che il corso di laurea in Fisica non si è mai distinto per un numero spropositato di studenti iscritti, e pertanto il buon senso ha prevalso nel momento in cui si è capito che è bene tenersi vicini quei pochi studenti che ci sono onde evitare di ritrovarsi, entro qualche anno, con un corso di laurea senza iscritti.

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Delle maestre di una volta…

In questo periodo dell’anno mi vengono in mente un sacco di proverbi e modi di dire.
Sarà perché è primavera e, si sa, non esistono più le mezze stagioni oppure è piovuto per un mese, sia sulle palme che sulle uova; forse perché siamo in campagna elettorale e qui i luoghi comuni si sprecano o semplicemente perché, disillusa e di mezza età, non trovo grandi cose da dire che non siano frasi fatte.
Una cosa che ho sentito dire in questi ultimi tempi è che “non ci sono più le maestre di una volta”. Pare che vada forte. Soprattuttotra le madri, padri, nonne e nonni di bambini in età scolare, che non posso esimermi dal frequentare visto che ne ho due anch’io. Sarà proprio così? Allora mi abbandono a qualche ricordo.
Io rammento bene la mia maestra; ovviamente parlo di un esemplare risalente a più di una trentina di anni fa, quindi sicuramente rientra nella succitata categoria.

La mia Maestra (con la maiuscola, allora era così) era una vera signora.
Di mezza età (mi sembrava a quel tempo, ora facendo i calcoli doveva essere più giovane di me adesso) era bella, elegante anche sotto il suo grembiule, scarpe col tacco e calze fine anche nei giorni della merla, unghie smaltate di rosso, pettinata, truccata e soprattutto profumata. Ricordo a malapena il suo nome ma il suo profumo sì. Quando giocavo alla scuola mi impiastricciavo di cera di cupra della mamma per imitarne l’odore.
Lei era una dea, un essere soprannaturale, onnisciente ed onnipotente.
Lei non camminava, fluttuava. Lei non parlava, cantava. Lei non piantava la classe per bere il caffè con le colleghe, evanesceva. Lei non ti dava potenti scapaccioni e umilianti punizioni, sapeva mantenere la disciplina. Lei non lavorava a maglia durante le lezioni, creava. Lei non stava tre mesi in vacanza, si godeva un meritato riposo.

Tuttavia, a ben pensarci, a scuola si faceva Q.B cioè quanto basta, come nelle ricette di cucina.
Due quadernetti mignon, cartelle che non ti facevano certo venire la scoliosi, stilografica, carta assorbente, sei pastelli e, per i più fortunati i pennarelli, bene di lusso che potevano durare tutto l’anno iniziando ad “allungarli” con alcool dopo natale.
Le attività scolastiche erano come i farmaci, da banco, nel senso che si stava seduti e zitti; sono arrivata troppo tardi per le aste ma in tempo per i dettatini a sfondo ortografico-aneddotico-stagionale. Le ore di religione si esaurivano con le poesie per i defunti, natale e pasqua, la storia stile “leggi-ripeti” e la geografia coi nomi a memoria. Gli asinelli in ultimo banco. Fine della storia.
E così siamo cresciuti; un’intera generazione che ha colmato lacune in età matura, senza grosse pretese ma neppure grossi traumi e con l’idea che non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice; cioè con la giusta dose di sane frustrazioni e il senso dei limiti.
Oggi non ci sono proprio più le maestre di una volta; assistiamo alla caduta delle dee.

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Metti una mattina a scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

7:55. prima campanella. Ancora nessuno all’orizzonte. 8:00. Seconda campana. Una mandria di giovani colorati si riversa in classe, sulle spalle l’Eastpack, in mano l’amato espresso della macchinetta.
Tra i visi assonnati si può già scorgere il terrore del compito della quinta ora, quel terrore che si prova quando si sa di non sapere.

Per fortuna a scuola, almeno in quella, ci si aiuta ancora.
Un matematico impertinente spiega ad un capannello di compagni la formula della circonferenza; un altro decanta Parini; una compagna declina gli aggettivi in tedesco.
Pian piano le menti si animano, i pensieri cominciano a vorticare sempre più veloci.
Le matite fremono, i cancellini indugiano; si pongono domande, si danno risposte.

Oggi in Italia è successo qualcosa di importante. Allora si alzano le mani, i toni si scaldano, sbuffi salgono qua e là come i vapori di una locomotiva; non è vero che ai giovani italiani la politica non interessa; noi ne parliamo eccome. Purtroppo però non se ne capisce granché…

Le lezioni vanno avanti, alcune lente, altre veloci. Ora a scuola si può ridere. Si ride di una battuta di un compagno, del nome assurdo di qualche filosofo medioevale, della bidella che entra correndo. Però si ride. Lo trovo molto bello.

Suona la 5°ora. Dalla retrovie si alzano scongiuri alla martire via, si implora pietà. Nulla da fare: questo compito s’ha da fare.
Le teste si chinano. Ci si avvicina più che si può per farsi coraggio e copiare quella data lì.

Scriviamo, sempre più veloci scriviamo. A volte, scriviamo per quei professori per cui abbiamo passato pomeriggi interi a studiare, per quei professori che ti fanno stare in bilico sulla sedia perché ciò che stanno facendo non è propinarci dati di carta bensì regalarci il loro sapere nella miglior confezione possibile.

Suona. Si consegna.
Si infilano i cappotti le cartelle si chiudono.
La mandria di giovani dai sogni troppo grandi se ne va.
Senza chiudere la porta.

Sara Andreini

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Scuola dicendo…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

Dopo aver letto l’articolo apparso sul vostro giornale sulla Riforma Moratti, vorrei esprimere le sensazioni che sto provando come genitore da quando si è cominciato a parlare di questa riforma. Parto dal presupposto che, per me, la scuola, essendo un diritto di tutti, debba essere pubblica. Solo l’istituzione pubblica, infatti, in un paese democratico, è in grado di garantire le stesse prestazioni a tutti, anche se di razza, ceto, religione o credo politico diverso e di aiutare coloro che vivono una situazione di disagio fisico o psicologico.

Questa Riforma, invece, che sottrae risorse alla scuola pubblica e le trasferisce al privato, sta trasformando la scuola in un’impresa che, come tale, deve seguire le leggi del mercato Soltanto chi è naturalmente dotato o chi ha i soldi per potersi comprare l’istruzione potrà progredire; chi è in una situazione di difficoltà, non essendo un investimento redditizio, resterà un cittadino di serie B. Delle tre “I” tanto decantate dalla riforma -Inglese- Informatica- Impresa- quest’ultima mi sembra l’unica realmente riuscita. Le ore di inglese, nella nostra realtà, sono infatti diminuite rispetto al passato e l’informatica si svolge in laboratori dotati spesso di macchine obsolete o addirittura mancanti.

Ma la cosa che più mi preoccupa è il torpore e la rassegnazione con cui la gente sta vivendo questa situazione, senza rendersi conto che una scuola che si basa solo sul profitto e non ha il tempo e la volontà di formare le coscienze trasforma il popolo in una massa pronta ad applaudire al personaggio che meglio sa proporre la sua immagine e incapace di costruire, con le proprie forze, un futuro migliore. Voglio però sperare che le persone che la pensano come me continuino a far sentire la loro voce e che chi ci governa sappia ascoltare ed agire per garantire un’adeguata crescita culturale alle giovani generazioni, nella consapevolezza che è per il bene di tutti.

E parlando di scuola, vorrei concludere con un ringraziamento ad un giovane professore di lettere che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita di studente della scuola media, il quale parlandoci dei valori della pace, della fratellanza e della libertà con le parole delle canzoni di Fabrizio De Andrè mi ha insegnato, oltre che all’italiano e al latino, il rispetto per me stessa e per gli altri.

Lorella Venaruzzo

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