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Un poeta: Romano Pascutto

(San Stino di Livenza, 1909 – Treviso, 1982)

INSOGNO AZURO

Ancùo son contento, vorìa far ‘na poesia
liziera come l’è ‘sto primo sol de istà
che’l s’ha levà bonora e de bona voia
come ‘na massera che spalanca i veri
a l’aria pura. Ma la pena resta ferma,
el folio bianco, la volontà se nina
fra el far e no far,pian,pianpianìn,
in un insogno azuro. Anca mi ancùo
me sinte drento come ‘na massera
che slarga i brassi e la se senta
dopo che l’ha netà tuta la casa.

CO POCHE PAROE

Co poche paroe far poesia granda
come’l sass co s’cioca su l’acqua
e po’ conta le onde che’l manda.
No far ciasso e gnanca pianzere
come l’è le robe de ‘ sto mondo
che manco le ziga pi’ le è vere.

TEMPO DE BRUMESTEGHE

Me alze co’l scrinzèt.
Come lu me sinte picinin,
ma manco de lu contento
in ‘sto mondo cussì grando.
Lu sora ‘na rama el canta,
mi tase rampegà co fadiga
su ‘sto scaràzz de la vita
che sbrega braghe e cuor.
L’è tempo de brumesteghe,
de costioe roste de porçel
e de vin novo che speta
el Nadal par farse ciaro,
de caivi fissi che sconde
i monti e lustra i copi.
El sol riva a tera tamisà
sul formento morto de fredo.
L’è ora de pensar al caivo
Grando, co i oci se sera
Par sempre e la brumestega
Se ferma là sora ‘na piera.

I DISE

I dise che son un omo tranquilo
e ghe someie al most che boie
ne le brente, a la scorza de vida
che se spaca sora l’ocio primariol,
a la zopa de tera rosa de butoe
taiade a metà, che fùmega al sol.
Son mi busier o’st’ altri mone?
Cossa conta? L’importante l’è viver
Senza tradir el zorno che se nasse,
come vermeti che i metarà le ae.

SERA DE ISTÁ

I pra’ no basta a tegner tute l sol
che’l se ingruma al de qua de i monti
e fraca le palade, impignisse i fossi,
pica recini de oro su le foie de vida.
Un tochèt de specio roto fa ‘ na casera
E po’, vanti che vegna scuro patòch,
l’è un momento che’l mondo se slarga
e el cuor se strenze parchè ghe stemo
drento orbi e senza ae come i notoi.

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Sempre a proposito di scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

Caro diario,
la scuola è cominciata da più di quattro mesi e ti confesso che sono cambiate un po’ di cose.

Il mio primo giorno di scuola, il mio primo giorno alle medie, perchè questa è la novità, non è stato brutto, a dire il vero lo pensavo peggio.
Arrivata a scuola, stavo aspettando, un po’ intimidita, di entrare in classe.
Non sapevo come funzionava, quindi mi guardavo attorno per capire cosa avrebbero fatto gli altri per poi imitarli.

Ad un tratto una voce gridò: “Mettetevi in fila”.
Io e quelli che sarebbero stati i miei compagni ci dirigemmo, nervosi, verso quella che sarebbe diventata la nostra scuola per i prossimi tre anni.
Entrati in classe, ognuno di noi scelse il posto che preferiva, ben sapendo che i professori, seguendo criteri diversi dai nostri, lo avrebbero cambiato.

In questi quattro mesi, come ho già detto, le cose sono un po’ mutate: sono alle prese con materie nuove, professori al posto delle maestre, compagni e ambiente diversi… il passaggio è stato, e a volte è ancora, faticoso, ma interessante.

Quando ero alle elementari, mi chiedevo sempre come avrei affrontato le medie. Avevo, lo confesso, un po’ di paura, ora posso dire che la mia paura era ed è la stessa di tutti i bambini che, come me, stanno per salire una scala, perché in fondo noi siamo ancora i bambini di 5°, in bilico sopra un gradino con su scritto “non sono né grande, né piccolo”, con addosso il desiderio di essere grande e la paura di non esserne all’altezza.
A questo punto, mi viene in mente il titolo di un libro abbastanza noto, “Io speriamo che me la cavo”, ecco io spero non solo di cavarmela, ma di essere sempre all’altezza di quello che chiedo a me stessa: imparare, imparare ed ancora imparare… ed affrontare serenamente i gradini che dovrò salire durante il mio percorso scolastico.

Un’alunna.

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Agli elettori mancini!

Consigli utili: come sopravvivere a B&B

(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 aprile da qui fino al 2013.)

  1. Evitare le trasmissioni televisive politiche.
  2. Darsi un’anima internazionale evitando con cura le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano e i primi 15 minuti dei telegiornali.
  3. Pensare il meno possibile.
  4. Evitare le vacanze in luoghi amministrati dal centro sinistra e dal centro destra; meglio starsene a casa.
  5. Molta natura: la natura funziona sempre, e soprattutto non l’ha inventata Berlusconi.
  6. Evitare le passeggiate per la pianura padana, lungo il Po e la Costa Smeralda.
  7. Trovarsi un hobby o uno sport non attinente con la cronaca politica. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci a B&B, potrebbero andar bene gli scacchi, la dama o i videogiochi.
  8. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull’Italia di oggi. Darsi alla letteratura. Imparare a ballare; per i balli di coppia scegliere partners che non siano di sinistra.
  9. Iscriversi a una stagione di concerti rigorosamente di musica classica; meglio la musica barocca che ti fa illudere di vivere in un Paese migliore.
  10. Per chi è single, trovarsi un fidanzato o una fidanzata, meglio stranieri, perché non pensano troppo a Berlusconi e non sanno chi siano Bossi o Maroni.
  11. Niente cultura. Leggere libri certo.  Meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale. Finisce che ti senti di nicchia.
  12. Attendere con pazienza; non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. E’ raro che a quell’ora telefoni Berlusconi. Provare a sorridere, nonostante tutto.

da “l’Unità” del 16 aprile 2008

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(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 Aprile da qui fino al 2013.)

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Metti una mattina a scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

7:55. prima campanella. Ancora nessuno all’orizzonte. 8:00. Seconda campana. Una mandria di giovani colorati si riversa in classe, sulle spalle l’Eastpack, in mano l’amato espresso della macchinetta.
Tra i visi assonnati si può già scorgere il terrore del compito della quinta ora, quel terrore che si prova quando si sa di non sapere.

Per fortuna a scuola, almeno in quella, ci si aiuta ancora.
Un matematico impertinente spiega ad un capannello di compagni la formula della circonferenza; un altro decanta Parini; una compagna declina gli aggettivi in tedesco.
Pian piano le menti si animano, i pensieri cominciano a vorticare sempre più veloci.
Le matite fremono, i cancellini indugiano; si pongono domande, si danno risposte.

Oggi in Italia è successo qualcosa di importante. Allora si alzano le mani, i toni si scaldano, sbuffi salgono qua e là come i vapori di una locomotiva; non è vero che ai giovani italiani la politica non interessa; noi ne parliamo eccome. Purtroppo però non se ne capisce granché…

Le lezioni vanno avanti, alcune lente, altre veloci. Ora a scuola si può ridere. Si ride di una battuta di un compagno, del nome assurdo di qualche filosofo medioevale, della bidella che entra correndo. Però si ride. Lo trovo molto bello.

Suona la 5°ora. Dalla retrovie si alzano scongiuri alla martire via, si implora pietà. Nulla da fare: questo compito s’ha da fare.
Le teste si chinano. Ci si avvicina più che si può per farsi coraggio e copiare quella data lì.

Scriviamo, sempre più veloci scriviamo. A volte, scriviamo per quei professori per cui abbiamo passato pomeriggi interi a studiare, per quei professori che ti fanno stare in bilico sulla sedia perché ciò che stanno facendo non è propinarci dati di carta bensì regalarci il loro sapere nella miglior confezione possibile.

Suona. Si consegna.
Si infilano i cappotti le cartelle si chiudono.
La mandria di giovani dai sogni troppo grandi se ne va.
Senza chiudere la porta.

Sara Andreini

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La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

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Federico Tavan

Maledeta chê volta

Maledeta chê volta
ch’ài tacât a scrîve
no parceche
al é mal scrîve
ma parceche
era maledeta chê volta
che ère belsoul
e vaîve
e par chist
‘e scrivêve.

Maledetta la volta

Maledetto il giorno/in cui ho cominciato a scrivere/ non perchè/ sia male scrivere/ ma perchè/ era un giorno maledetto/ quello in cui ero solo / e piangevo/ e per questo/ scrivevo.

Ninuta

Lu farêstu l’amour
cu li mê poesies ?
Cuala te plàse de pì ?
Cun cuala te plasarèssal
zî pì volanteir a liet?
Cuala al gjolde
cuala no postu fâ de mancu,
cuala da nicjulâ
coma un orsut de piecja
o da portâ al mar dentre na valisuta ?
Cuala da mostrâ a li amighes?
Cuala da carecjâ cuala da bussâ ?
cuala un ditalìn cuala’na picjàda
de nascondon. Ninuta
favelanse clâr
me soi rot li bales.

Ragazzina

Lo faresti l’amore/ con le mie poesie?/ Quale ti piace di più?/ Con quale ti piacerebbe andare più volentieri a letto?/ Quale  il godere/ quale non puoi farne a meno,/ quale da cullare/ come un orsacchiotto di pezza/ o da portare al mare dentro una valigetta?/ quale da mostrare alle amiche?/ Quale da accarezzare quale da baciare/ quale un ditalino  quale un pizzicotto/ di nascosto. Ragazzina/ parliamoci chiaro/ mi sono rotto le scatole.

da: “Augh!” – Edizioni biblioteca dell’immagine – Circolo culturale Menocchio

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Ernesto Calzavara

Te si dentro

Te si dentro e no te trovo
te si fora e no te trovo
te si da par tuto
fra tute le robe del mondo
le pigne le piaghe le stringhe le ongie
le franze che sponze
le pignate de marenghi remenghi
le patate sgionfe de sono
e me poro nono

e no te trovo.

Ti che te si
fra mi e mi
no te vedo no te trovo
no te trovo.

La scelta

Tra quel che xe fora e quel che xe drento
tra quel che xe nudo e quel che xe vestìo
tra quel che par e quel che xe
tra la màscara e el viso
tra el dir e el far
tra mi e no-mi
tra note e dì
te si ti
mente che trema
‘desso a decìdar

e se sbagli te mori.

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Il past (il pranzo di nozze)

Nell’immediato dopoguerra, negli anni che vanno, grosso modo, dal ‘45 al ‘55, sia il rinfresco, sia il pranzo di nozze venivano fatti in casa; naturalmente, per l’occasione si mobilitava tutto il vicinato con richieste di tovaglie, tovaglioli, posate, pentole, piatti, bicchieri e bicchierini, il tutto rigorosamente contrassegnato, onde evitare litigi quando avveniva la restituzione. Le liti però nascevano lo stesso, regolarmente, vista la furbizia delle donne, che non aspettavano momento migliore per poter scambiare, ad es., un tovagliolo macchiato con uno  perfettamente pulito.

I preparativi incominciavano una quindicina di giorni prima della data prefissata; i genitori degli sposi si riunivano e decidevano il menù.

Quello tipo era :

rinfresco:

  • Vermut con savoiardi, caffé, vino bianco, grappa.

pranzo:

  • Antipasto – salame, pancetta, ossocollo, con giardiniera o insalata russa.
  • Primo – minestrina in brodo con pastina (con il passare degli anni arrivarono anche i tortellini).
  • Secondi – lesso di gallina e di tacchina, a volte anche manzo, accompagnati da giardiniera, cren e patate lesse; arrosto di pollo, di faraona, d’anatra, d’oca (naturalmente venivano scelti e portati in tavola solo due degli arrosti succitati); più tardi arrivò anche l’arrosto di vitello.
  • Contorni – spinaci al burro (di rigore!), insalata con ravanelli (in primavera), radicchio con le “frisse” (in autunno), patate al forno.

Con le pietanze si serviva il pane e mai polenta (al massimo la si portava in tavola con il formaggio, alla fine del pranzo). La preparazione del rinfresco e del pranzo veniva affidata ad un cuoco o ad una cuoca.

Il giovedì, prima del sabato, giorno stabilito per il matrimonio, incominciavano le pulizie della casa; si partiva normalmente dalla cucina, di solito molto grande che ospitava la stufa, el spoler, che misurava almeno 2,5 metri di lunghezza e 1,5 di larghezza, dove sarebbe stato cucinato il pranzo. Bastavano una imbiancata ai muri, mastellate d’acqua sul pavimento, che era di cemento grigio, con sfumature rosso scuro verso le pareti, una pulitina ai vetri; per l’occasione si cucivano anche tendine nuove. Una volta pulita, si riempiva questa enorme stanza con i tavoli, a seconda del numero degli ospiti.

Il venerdì si passava poi a riordinare il cortile; per prima cosa si rinchiudevano le galline nel pollaio, poi si riparava la stropa (la recinzione del cortile, fatta di pali di salice, tagliati a misura d’uomo e legati, uno vicino all’altro con fil di ferro, anche il cancello era fatto allo stesso modo); si spazzava poi il cortile con grosse scope di saggina; l’operazione veniva ripetuta il sabato mattina, dopo aver fatto abbeverare le mucche, che, si sa, ritornando dalla fonte alla stalla, lasciavano sempre un regalino per strada.
Sempre il venerdì, venivano ammazzati i capi di pollame e raccolte e pulite le varie verdure. Quindi tutti, uomini, donne e bambini, avevano il loro bel daffare, ma per fortuna, a quei tempi, le famiglie erano molto numerose.

Il sabato mattina, verso le 5.30, arrivava la cuoca e, per almeno due ore, era indaffarata a tagliare e a squartare i polli, le galline, le anatre e i tacchini e a scegliere i pezzi per le varie ricette.

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Sandra Torresani

Nuvole disordinate

Nuvole disordinate
sono i pensieri
sillabe spezzate
il vento mette in fila
nuvole di canto
se sei il cielo
disteso nell’azzurro
completamente
bianco.

da “Con respiro lieve”

per Alda Merini

Crescono da sole
le figlie della notte
devo metterle al mondo

Ogni poeta lava
il suo pensiero, Mia Signora
e la mia acqua
è ancora così colorata….

da “Con respiro lieve”

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Mentore Romani

Il verme

“Quel verme che osservo dal balcone strisciare per terra sotto gli occhi mi fa venire in mente la notizia, letta stamane sul giornale, del suicidio del famoso principe Lana.
Perchè il principe Lana che possedeva beni, cariche,amici, donne, si è suicidato, mentre i vermi e gli altri animali di infimo ordine, che fanno una vita così misera, non si suicidano? Forse perchè il principe Lama non era un verme?!
O perchè non voleva essere tale, mentre l’inesorabile legge della vita lo spingeva verso l’infimo ordine?!
(Ma ciò non è esatto, dato che il principe Lana non aveva dissesti).
O perchè la vita umana è in stato di involuzione, di generazione?!
(Ma allora cosa c’è di perfetto nella vita dei vermi, per doverli prendere a modello?)
Tutte queste, più che buone ragioni, soddisfacenti ed esaurienti, mi sembrano ipotesi.”

da “Meditazioni di un solitario” – Gastaldi, Milano, 1959

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