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Tiziano: ultimo atto

Dal 15 settembre 2007 al 6 gennaio 2008 a palazzo Crepadona a Belluno si tiene la mostra “Tiziano: ultimo atto”, in cui la città rende omaggio al suo artista più illustre, il genio della pittura rinascimentale nato a Pieve di Cadore e qui tornato proprio negli ultimi anni della sua lunga vita, quando i grandi d’Europa si contendevano le sue opere ed egli aveva deciso di riorganizzare la propria bottega tra Venezia e Pieve di Cadore.
Ultimo atto perché quest’esposizione si concentra sugli ultimi anni di vita del pittore. La mostra infatti inizia con il documento che attesta la morte di Tiziano.
Interessante è capire il motivo di questa scelta; è molto semplice: nell’ultimo periodo lo stile di Tiziano cambia radicalmente e cambia radicalmente anche il suo modo di vedere la vita .

Per capire meglio bisogna partire dall’inizio; la pittura di Tiziano affonda le sue radici nella pittura tonale veneziana, il pittore è infatti allievo a Venezia di Gentile e Giovanni Bellini e si avvicina infine a Giorgione, accanto al quale è impegnato nel 1508 nella esecuzione degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Mostra subito segni di indipendenza nei confronti dei suoi maestri, pone a frutto la calma e ferma partitura cromatica di Giovanni Bellini e la modulazione dei toni di Giorgine, attinge un’intensità di colore steso in dinamici contrasti di piani larghi, con la quale afferma una chiarezza nella definizione dei corpi e delle espressioni. Nell’esecuzione (1516-1518) dell’Assunta dei Frari, la sua prima clamorosa affermazione pubblica, esprime carica vitale dei toni ed esprime la visione di un mondo di bellezza armoniosa nel pieno del suo rigoglio e in gara esaltante con la natura.
Da questo momento in poi la sua fama cresce ed entra in rapporto con le più illustri corti italiane. Colore e luce: sono questi i due elementi fondamentali e il segreto dell’arte di Tiziano, in gioventù come in vecchiaia; Tiziano usa il colore come materia che “fa” il quadro.

La pittura degli ultimi anni si differenzia perché vi è una resa dei conti con la vita. Tiziano ha un’interpretazione non più armonica ma drammatica della realtà, di un’inquietudine spirituale che prima non turbava la sua visione limpida e serena dei destini umani.

Una densità materica che invade la scena e riempie gli spazi; una pennellata grossa e sporca; una luce particolare e intensa si sostituisce alla maniera luminosa e tonale del periodo giovanile. Tiziano giunge così alla disgregazione del tessuto disegnativo e plastico delle figure, attraverso un personalissimo e impegnativo modo di dipingere che lo vede tornare e ritornare sulle sue opere, alla ricerca di un’intensità psicologica prima impensabili.

Ecco la nuova poetica di Tiziano. Il suo ultimo atto.

Come uno scultore che modella la creta, lui stende sulla tela i pigmenti con i polpastrelli; lavora con guizzi di luce che vibrano da dentro il quadro; non definisce le forme e dà un ricercato senso di incompiutezza, quasi ad esprimere l’angoscioso interrogativo del suo animo insoddisfatto, fino all’abbandono di ogni naturalismo.
Restano solo il sentimento, la segreta partecipazione emotiva, i bagliori di un artista disincantato di fronte alla morte.

Per maggiori informazioni: www.tizianoultimoatto.it

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35 scatti per 10 giorni in Cina: “Qilu International Photography Week”

Circa 2300 anni fa, in Cina, viveva un certo Mo-Tse.  Ricercatore ed inventore, scrisse un libro (Mo Jing) che conteneva il risultato delle sue osservazioni. Quest’anno, la Cina attraverso l’APS (Artistic Photographic Society of China) ha voluto rendere omaggio a quel personaggio che, in sostanza, ha scoperto il principio della fotografia. è nata così la Qilu International    Photography Week.

Quest’estate, ad Arles in Provenza, ho avuto l’opportunità di mostrare i miei lavori ai due responsabili per la selezione degli autori occidentali da ospitare in Cina, fra cui Ren Shugao. Mi sono perciò ritrovato a Pechino il 20 di settembre, “graziosamente” invitato assieme ad altri 8 fotografi fra cui il presidente della PPA (Professional Photographic Association degli USA) e un suo collega; Serge Assier, fotogiornalista francese; il direttore e vice della rivista francese Phot’Art International; Christian Devers, un Belga specializzato in fotografia digitale; il bravo fotografo inglese Paul Kenee e il nostro simpatico Silvano Monchi, accompagnato dalla moglie, per incominciare la visita di una parte dell’immenso Paese.

Siamo stati trasferiti, via aerea, da Pechino a Jinan, lontana 400 km, per poi continuare il viaggio in pullman, ospitati in alberghi di lusso.
Le giornate, lunghe 16 ore, ci hanno permesso di conoscere vari aspetti della Cina spesso in drastica opposizione: il cantiere dei prossimi giochi olimpici, vero formicaio brulicante di centinaia di migliaia di operai, assieme ai luoghi di nascita di Mo-Tse e Confucio, villaggi modesti, spersi in mezzo alle montagne. Nell’occasione, si passava da uno smog da tagliare col coltello ad un’aria decisamente campagnola, dall’asfalto polveroso ai sottoboschi, pieni di scorpioni.

Le nostre giornate erano marcate da cene esotiche quanto abbondanti, offerte dalle più alte autorità politiche. Con naturalezza, la tartaruga bollita veniva proposta accanto a cicale arrosto, pelle di pesce in gelatina o zampe di gallina affumicate.
L’anitra laccata seguiva la carpa con maiale, pare piatto favorito di Mao, e il tè verde era dimenticato a forza di decine di “kampei” con birra o vino, l’obbligatorio e cerimonioso brindisi adattato a qualunque argomento.

La mostra a Jinan ci ha lasciato senza fiato: 18.000mq e migliaia di immagini, l’Italia era rappresentata dalle 40 immagini di reportage di Silvano Monchi, dai miei 35 nudi in bianco e nero stampati in loco 1 x 0,8m, assieme alle immagini naturalistiche della lega fotografica italiana ed alle singole immagini di Giuricin, Tomelleri, Cartoni, Materassi e Calosi.

Ogni autore invitato all’inaugurazione vedeva le sue immagini esposte su circa 30 metri di parete con tanto di presentazione e ritratto.  La fotografia cinese non ha molto da invidiarci sia dal punto di vista artistico che tecnico. Spazia, senza timori di fare brutta figura, dal descrittivo all’artistico, in b\n  o a colori, dall’immagine classica di Lu Jun a quella con divertenti sovrapposizioni grafiche di Mu Tangjuan, senza dimenticare le inquadrature paesaggistiche concettuali di Li Ruiyong.

Insomma un bel confronto che toglie ogni ombra di confine qualitativo fra le nostre civiltà.

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Federico Tavan

Maledeta chê volta

Maledeta chê volta
ch’ài tacât a scrîve
no parceche
al é mal scrîve
ma parceche
era maledeta chê volta
che ère belsoul
e vaîve
e par chist
‘e scrivêve.

Maledetta la volta

Maledetto il giorno/in cui ho cominciato a scrivere/ non perchè/ sia male scrivere/ ma perchè/ era un giorno maledetto/ quello in cui ero solo / e piangevo/ e per questo/ scrivevo.

Ninuta

Lu farêstu l’amour
cu li mê poesies ?
Cuala te plàse de pì ?
Cun cuala te plasarèssal
zî pì volanteir a liet?
Cuala al gjolde
cuala no postu fâ de mancu,
cuala da nicjulâ
coma un orsut de piecja
o da portâ al mar dentre na valisuta ?
Cuala da mostrâ a li amighes?
Cuala da carecjâ cuala da bussâ ?
cuala un ditalìn cuala’na picjàda
de nascondon. Ninuta
favelanse clâr
me soi rot li bales.

Ragazzina

Lo faresti l’amore/ con le mie poesie?/ Quale ti piace di più?/ Con quale ti piacerebbe andare più volentieri a letto?/ Quale  il godere/ quale non puoi farne a meno,/ quale da cullare/ come un orsacchiotto di pezza/ o da portare al mare dentro una valigetta?/ quale da mostrare alle amiche?/ Quale da accarezzare quale da baciare/ quale un ditalino  quale un pizzicotto/ di nascosto. Ragazzina/ parliamoci chiaro/ mi sono rotto le scatole.

da: “Augh!” – Edizioni biblioteca dell’immagine – Circolo culturale Menocchio

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“Paranoid Park” di Gus Van Sant

E’ difficile parlare dell’ultima (dodicesima) fatica di Gus Van Sant, regista parecchio controverso, tra sonanti detrattori e sconfinati ammiratori, senza inquadrare in qualche maniera la carriera dell’autore.
Noto al grande pubblico per film quali: “Will Hunting genio ribelle” (1997) e “Scoprendo Forrester” (2000), il regista americano ha operato una vera e propria svolta stilistica a partire da quel “Gerry” che nel 2002 diede avvio ad un’ideale “trilogia della morte” e che lo fece apprezzare dai cinefili più navigati, per lo smaccato allontanamento dai precedenti lavori, più commercialmente orientati.

“Gerry” è una storia minimalista, di evidente ispirazione “belatarriana” (campi lunghi, primissimi piani, silenzi infiniti e tempi dilatatissimi) e racconta di due amici, i “Gerry” del titolo, che durante una gita hanno la sventura di perdersi in un deserto: l’esperienza proverà la loro amicizia.
A “Gerry” fecero seguito il successo di “Elephant”, ispirato alla strage della Columbine High School e girato con attori non professionisti, che nel 2003 vinse la Palma d’oro ed il premio per la miglior regia al Festival di Cannes; e “Last Days”, ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, con l’impiego di interessanti soluzioni filmiche, ma con grossi limiti a livello di trama.

Infine, questo “Paranoid Park”.
Sgombriamo subito il campo: il film NON è, come furbescamente recita la locandina italiana: “il capolavoro di Gus Van Sant”, anche se non tutto è da buttare.
Tratto dall’omonimo romanzo di Blake Nelson, richiama in più punti i precedenti lavori del regista: ambientato interamente nella nativa città di Portland, nord-ovest degli Stati Uniti, interpretato da attori non professionisti (ragazzi del luogo, scelti su MySpace!), girato impiegando differenti tecniche (super-8 e 35 mm, riprese ardite e fuori fuoco “strategici”), grazie alla preziosa collaborazione di un’autorità della fotografia quale Christopher Doyle, presenta tutte le tematiche care al regista: la spersonalizzazione dell’individuo, la solitudine e la mancanza di riferimenti dell’adolescente, la depressione e l’inettitudine degli adulti, il disadattamento nei confronti di un mondo che non si riconosce come proprio. Ma in aggiunta a tutto ciò, il film si concentra in maniera particolare ed essenziale sul concetto del senso di colpa.

La storia è presto detta: Alex è un sedicenne di Portland con la passione per lo skateboard. Con l’amico Jared comincia a frequentare Paranoid Park, un posto conosciuto da tutti gli skater della città, ove incontra altri skater che una sera gli propongono per gioco di saltare sui treni merci in transito nella vicina stazione. Per mera casualità, una mossa avventata di Alex provocherà la morte di una guardia di sicurezza accorsa per dar il fatto suo ai sprovveduti. Da qui diparte l’incubo del protagonista, che influenzerà i rapporti con chi gli sta attorno; lascia la sua ragazza Jennifer e inizia ad uscire con Macy, alla quale confessa che è accaduto qualcosa di brutto. Macy gli consiglia, per liberarsi del peso, di scrivere quello che è successo in una lettera per un amico, magari per lei. Alex scrive i fatti ed è seguendo la sua scrittura che pian piano si viene a conoscenza degli avvenimenti.
La vicenda pertanto è lentamente sviscerata nel corso del racconto di Alex, al quale Van Sant, non bastasse l’estrema dilatazione della storia e l’onnipresente uso del racconto in prima persona, dedica infiniti primi piani apatici e monoespressivi.

Ed è forse proprio nella pretesa non professionalità dei protagonisti, nelle scarse indicazioni che il regista ha fornito agli attori, che il film soffre maggiormente. Se da un lato l’”autenticità” degli interpreti (realmente sedicenni, realmente skater, realmente del luogo) garantisce quell’aura di realismo ai loro comportamenti e modi, d’altro canto rende particolarmente artificiosa l’angoscia del protagonista dal quale non traspare mai più che un conclamato senso di indifferenza.

A ciò la pellicola compensa con le scene “documentali” degli skater, girate in Super-8, su sottofondo musicale del convincente Ethan Rose, veramente coinvolgenti, e con la scena della doccia di Alex dopo l’incidente, nella quale regia e musica sposano perfettamente l’animo del personaggio.

Un film che prescinde dagli interpreti, dunque, e che per certi versi accontenta tutti: i detrattori vi rileveranno tutte le mancanze tipiche  del regista (trama dilatata ed inconcludente, un certo narcisismo stilistico, disinteresse per la linearità degli eventi), gli ammiratori godranno delle arguzie tecniche e del “purismo neorealistico” della rappresentazione.
Ad ogni modo un coerente prosieguo della filmografia più sperimentale di un autore non prescindibile, nel panorama attuale.

scheda del film su IMDb

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De Chirico: un pittore moderno con uno sguardo verso il passato

A Padova, dal 20 gennaio al 27 maggio 2007, per iniziativa della Fondazione Bano, Palazzo Zabarella propone “DE CHIRICO”. Prima di entrare nei dettagli della mostra però bisogna chiedersi: chi era Giorgio  De Chirico? Questo artista fu sicuramente il più importante esponente della Pittura Metafisica. La Metafisica nasce nel 1917 attraverso l’incontro di De Chirico con Carlo Carrà, in precedenza esponente del movimento futurista. Per Metafisica Giorgio De Chirico intendeva l’allusione a una realtà diversa, che va oltre quello che vediamo, i contenuti di un dipinto infatti devono andare al di là della realtà, cioè oltre natura e questo modo di pensare è ben spiegato dalla sua frase “Bisogna dipingere ciò che non si vede”.

Può essere metafisico tutto quello che è estraneo alla logica ambientale in cui siamo abituati a vederlo, in pratica un qualsiasi oggetto isolato dal contesto in cui solitamente si trova e inserito in un altro. Questo crea in noi inquietudine, angoscia, quasi un senso di paura, perché tutto sembra insolito, inaspettato, a- logico. Elemento fondamentale per creare questa sensazione di inquietudine è il disegno che per questo artista ha sempre costituito un fattore idealizzante della realtà poiché gli oggetti totalmente incongrui rispetto al contesto vengono rappresentati con una minuzia ossessiva, una definizione tanto precisa da sortire un effetto contrario a quello del realismo.

Per comprendere meglio questo spirito è bene analizzare un’opera di questo artista, che è presente in mostra, che si intitola Ettore e Andromaca. In questo quadro tutto è statico, sospeso; quello rappresentato è un luogo sognato, solo apparentemente reale, dove tutto è immobilizzato. In questo luogo no possono abitare uomini, esseri viventi ma solo manichini, che degli uomini hanno l’aspetto ma non l’essenza. In questo luogo no possono abitare uomini, esseri viventi ma solo manichini, che degli uomini hanno l’aspetto ma non l’essenza. I manichini molti presenti nei quadri di De Chirico infatti sono solo figure geometriche astratte. Il percorso si articolerà dunque in diverse sezioni corrispondenti ai vari “momenti” artistici di de Chirico.

Dalle prime opere simboliste si arriva fino alla scoperta delle piazze e delle torri, architetture dell’invisibile e dell’infinito, tra il 1909 e il 1913, per approdare nel 1914 a quella che l’artista chiamava “la solitudine dei segni” ovvero la metafisica che dal 1914 al 1918, avrà il suo pieno sviluppo di cui fa parte il quadro “Ettore ed Andromaca”.
Poi vi è una svolta nel primo dopoguerra, infatti, nel 1919, dato lo scarso riconoscimento critico riservatogli in Italia, mentre in Europa e in particolare a Parigi si guardava alla sua pittura metafisica come a un punto di riferimento, de Chirico sorprende tutti tornando a forme di rivisitazione classica. E’ l’epoca dei grandi quadri allegorici conosciuti col nome di “Ville Romane”, delle nature morte e degli autoritratti pieni di metafore e di simboli.

Il rientro a Parigi, alla fine del ‘25, comporta un ritorno alla metafisica. In realtà de Chirico rimane legato a una sua visione del mondo basata sulla nostalgia del classico, ma concepita in pieno spirito di modernità. A questo periodo, che dura fino alla fine del 1929, appartiene gladiatori.
Gli anni ’30 segnano una crisi e vedono il Maestro in bilico tra naturalismo e metafisica. È il periodo dei famosi “Bagni Misteriosi”.
La svolta verso un ridondante gusto “Barocco”, che si manifesta nella pittura di de Chirico a partire dal suo rientro dal lungo viaggio in America (agosto 1936 – gennaio 1938) sarà rappresentata, per decisione dei curatori, solo da un’ampia selezione di autoritratti.
La mostra si concluderà con una scelta di opere neo-metafisiche, nelle quali il vecchio pittore, dopo la metà degli anni ’60, rivisita figure e temi del suo  passato.

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L’altra faccia dello sviluppo cinese… “Still Life” di Jia Zhang-Ke

Vincitore del Leone d’oro all’ultima mostra del cinema di Venezia, il film “a sorpresa” della sezione in concorso, Still Life del 37enne Jia Zhang-Ke non è un film facile, e come altre opere di cineasti cinesi indipendenti, non ha avuto vita facile, in patria (pur avendo ottenuto l’approvazione della State Administration of Radio, Film and Television).
Non è un film facile per il pubblico occidentale, perchè in alcun modo cerca di “strizzare l’occhio” allo spettatore, né da un punto di vista meramente emotivo, nè da un punto di vista “epico” (alla Zhang Yimou, per intendersi). Non è un film di denuncia (anche se affronta tematiche sociali), o almeno non lo è in senso stretto, né tantomeno sottende particolari metafore o giudizi. Non propone soluzioni alle situazioni che rappresenta, né critica direttamente le politiche di “sviluppo” del Partito Comunista Cinese (tema sottilmente centrale del film, e per questo soprende l’approvazione dei censori), si astiene dall’indirizzare troppo profondamente l’idea che può formarsi lo spettatore alle vicende che narra.

Still Life è, come dice il titolo, la ripresa di uno spaccato di vita, a Fengjie nei pressi della diga delle 3 gole sul fiume Yangtze, opera colossale già sognata da Mao, e nella fattispecie dei lavoratori addetti alla costruzione del nuovo quartiere della città. Nonostante ciò, Still Life non è nemmeno un documentario.
Ambientate tra la vecchia città (già allagata) ed il nuovo quartiere in costruzione, s’intrecciano due storie di ricerca, distanti per estrazione sociale dei protagonisti, ma per certi versi similari: quella di Han Sanming, minatore, in cerca della moglie “comprata” (e scappata) 16 anni prima, che troverà temporaneamente lavoro come demolitore; e quella di Shen Hong, infermiera trascurata dal marito imprenditore edile, che si reca nella medesima città sulle sue tracce, dopo che per due anni non è rientrato a casa. I due personaggi non s’incontrano mai (frequentano anche ambienti diversi), le loro storie procedono parallele ed entrambi porteranno a termine i propri fini, anche se le soluzioni alle loro vicende non sono certo esaustive. Non c’è compassione per gli accadimenti, è quasi come se fossero dei meri “comprimari”, sui quali cala temporaneamente l’interesse del regista, che li usa come “uni tra tanti”.

Ciò che colpisce prima di tutto è la dinamicità di questa “nuova” Cina, così lontana sia da quei stereotipi classici che ancora si amavano nei cineasti della quinta generazione (Yimou e Kaige tra tutti) sia dalla frenetica modernità delle città maggiori viste in altri opere (“Le biciclette di Pechino”, “Suzhou River”, ad esempio). Colpisce come tutti (o molti) possiedano un telefono cellulare, come la televisione influisca sulle menti dei più giovani, come l’anacronistico apprezzamento di un concerto rock possa alleviare le fatiche del giorno. Ancora ciò che colpisce è lo spirito di questi operai cinesi, che ai nostri occhi potrebbero superficialmente sembrare dei poveracci, quasi dei reietti sociali, ma che di fatto costituiscono quel “corpus” pulsante e operoso, fondamento dello “sviluppo” cinese; fieri, giovani, dediti al lavoro e pazientemente speranzosi nel futuro, carichi ancora di una forte componente sociale le (vivono, mangiano, discutono insieme), non suscitano nè mostrano alcun pietismo: la povertà come condizione comune è accettata, il benessere di pochi è visto come una meta per il quale impegnarsi.

Pur non mancano moltissimi riferimenti alle condizioni di lavoro in cui si trovano gli operai: l’assoluta scarsezza di mezzi (emblematica la scena dello smantellamento A MANO di una fabbrica), gli infortuni non retribuiti, le paghe basse, lo sfruttamento, la burocrazia pressochè onnipresente, l’assurdità e disumanità degli espropri e lo scarso valore in genere per la vita umana (che porta a delle vere e proprie faide tra poveri).

Un film sicuramente poco comune e -ahimè- finanche poco visibile, ma che consiglio caldamente a tutti gli interessati di Cina (se qualcuno può ancora permettersi di non esserlo…).

scheda film su IMDb

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Ernesto Calzavara

Te si dentro

Te si dentro e no te trovo
te si fora e no te trovo
te si da par tuto
fra tute le robe del mondo
le pigne le piaghe le stringhe le ongie
le franze che sponze
le pignate de marenghi remenghi
le patate sgionfe de sono
e me poro nono

e no te trovo.

Ti che te si
fra mi e mi
no te vedo no te trovo
no te trovo.

La scelta

Tra quel che xe fora e quel che xe drento
tra quel che xe nudo e quel che xe vestìo
tra quel che par e quel che xe
tra la màscara e el viso
tra el dir e el far
tra mi e no-mi
tra note e dì
te si ti
mente che trema
‘desso a decìdar

e se sbagli te mori.

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Per ricordare Andrea Mantegna, nel 5°centenario dalla sua morte

In questo periodo è stata allestita, per il 5° centenario dalla sua morte avvenuta a Mantova nel 1506, una mostra su Andrea Mantegna. Essa si articola in tre sedi, nelle tre città che hanno segnato la carriera artistica del Mantegna (Padova, Verona e Mantova).

Andrea Mantegna nasce ad Isola di Carturo, piccolo borgo in provincia di Padova, nel 1431. A Padova entra a far parte della bottega dello Squarcione, di cui risulta anche figlio adottivo. Francesco Squarcione era un ex sarto che aveva un grosso interesse per i manufatti antichi di cui era raccoglitore e mercante, egli era anche pittore e sfruttava i garzoni che prendeva a bottega. Mantegna però aveva trovato a Padova un altro maestro, Donatello, che aveva realizzato l’altare della Basilica del Santo in maniera straordinariamente moderna.

Dopo circa sette anni vissuti presso la casa–bottega dello Squarcione, nel 1448 Mantegna scioglie il sodalizio con lui e firma il contratto – insieme ai colleghi Nicolò Pizolo, Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna – per l’esecuzione del ciclo di affreschi della Cappella della famiglia Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova. Nel corso della realizzazione della grandiosa opera, ci furono diversi avvicendamenti che portarono il solo Mantegna a concludere il lavoro intorno al 1457. Questa è senza dubbio l’opera più importante di Mantegna a Padova, infatti qui, a soli 17 anni, dipinge le storie di San Giacomo e di San Cristoforo. Questa cappella si trova nel braccio destro del transetto della chiesa degli Eremitani. Di quest’opera purtroppo rimangono solo alcune scene poiché la cappella venne bombardata l’11 marzo del 1944. Già qui notiamo i caratteri fondamentali della pittura di questo artista: si possono osservare la puntuale descrizione delle diverse espressioni dei volti, il gusto per gli elementi vegetali e la predilezione per l’arte classica.

Nel 1453 Mantegna sposa Nicolosia Bellini figlia di Jacopo e sorella di Giovanni e Gentile Bellini. Questo legame parentale sarà importante soprattutto per l’influenza che avrà sulla produzione artistica e di Giovanni Bellini e di Andrea Mantegna, infatti Giovanni trae forza plastica dal Mantegna e lui, viceversa, carpisce l’uso dei colori tipico del pittore veneziano.

Nel 1457, conclusi i lavori alla Cappella Ovetari, Mantegna era già in trattative con Gregorio Correr, abate della Basilica di San Zeno a Verona, per la realizzazione della pala destinata a decorare l’altare maggiore della chiesa.

In quest’opera ritroviamo, ancora più evidente che nella cappella Ovetari, la concezione tipica del Mantegna di scambio tra pittura e scultura, infatti le figure sembrano quasi statue all’interno dell’ambiente architettonico. Questo aspetto è sicuramente dovuto anche dall’influenza che ha avuto, sulla realizzazione di questa pala, l’altare della chiesa dedicata a Santo Antonio a Padova di Donatello.

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“Babel” di Alejandro González Iñárritu

Babel è la 3a prova del virtuoso Alejandro González Iñàrritu, giovane regista messicano, già autore di “Amores Perros” e del fortunato “21 grammi”. Il film, presentato quest’anno a Cannes ha vinto il premio per la miglior regia, sfiorando la Palma d’Oro (almeno così dicono le cronache, mentre la palma più ambita è andata a Ken Loach).
Contrariamente al precedente “21 grammi”, Babel convince di più: è sempre un film corale e “ossessivamente” girato (ricchi cambi di macchina, campi lunghi ed impietosi primi piani), che mantiene una cura direi quasi maniacale per la fotografia e l’ormai solito “gioco ad incastri” della sceneggiatura, caratteristica, questa, tipica del regista e del fido sceneggiatore Guillermo Arriaga; qui ancor più accentuata dal meccanismo delle “4 storie parallele”.
Babel è un film internazionale “tout court”, sia nelle location (è ambientato in Messico-Marocco-USA-Giappone), sia nella caratterizzazione dei personaggi (tutti tratteggiati con enorme attenzione e rispetto, privi di qualsiasi immagine stereotipata), sia nell’uso stesso della lingua originale (e qui, per una volta, ho apprezzato la scelta del doppiaggio, limitato esclusivamente agli americani), sia propriamente nelle scelte stilistiche con il quale va a raccontare le 4 storie; ma Babel è soprattutto un film che in questo senso tenta di “gettare un ponte” tra le varie culture e umanità di cui narra, o quantomeno invita a riflettervi, anche se per quanto riguarda la trama specifica non lascia molte speranze.

Le vicende si possono riassumere come segue:
Storia 1: due giovani fratelli marocchini, provando il fucile del padre, feriscono accidentalmente una turista americana e vengono ricercati dalla polizia. Il padre tenta di trarli in salvo.
Storia 2: la turista ferita e il marito vanno in cerca d’aiuto in un villaggio, ma vengono abbandonati dai propri compagni di viaggio dove attendono l’arrivo dei soccorsi (e intanto la questione del ferimento si fa
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fa diplomatica, tra paranoie terroristiche ed esagerazioni giornalistiche).
Storia 3: in America, intanto, una tata messicana, cui sono affidati i figli della coppia americana, si deve recare al matrimonio del figlio e non sapendo a chi lasciare i bambini, decide di portarli con sé. Purtroppo al rientro dal Messico vengono fermati dalla polizia di confine e finiscono col darsi alla fuga nel deserto californiano, con tutti i rischi annessi e connessi.
Storia 4: in Giappone un uomo, che durante una battuta di caccia in Marocco regalò il fucile ad una guida (che poi lo vendette al padre dei due ragazzini della storia 1, ammetto che sia un collegamento un po’ forzato), si ritrova a gestire la difficile situazione della figlia adolescente e sordomuta, orfana di madre suicida, la quale, ossessionata dall’idea di essere un mostro, cerca disperatamente un rapporto sessuale.

Il minimo comun denominatore di tutte le storie è il dolore cui sono sottoposti i personaggi e la ricerca, proprio attraverso lo stesso, di una comunanza d’intenti e vicinanza d’affetti che, fino a quel momento non erano tenuti in grande considerazione.
derazione. Peccato che tale comunanza non venga condivisa e che quindi l’occasione d’incontro venga irrimediabilmente sprecata o incompresa.

Uno dei meriti principali di Iñàrritu (oltre a quello di imbruttire Brad Pitt e dargli una parvenza di credibilità) è proprio la modalità con cui sviscera l’umanità dei personaggi e la profondità del dolore; l’abilità con cui passa da situazioni apparentemente lievi ad eccezioni particolarmente forti; la compassione non pietistica con la quale guarda e ci coinvolge nelle disavventure dei suoi uomini / donne / bambini sullo schermo; e la profonda commistione di emozioni contraddittorie che è in grado di evidenziare nei suoi personaggi e suscitare nel pubblico.
Iñàrritu non dà giudizi politici precisi, ma è quasi manicheo nel delineare l’equazione: poveri=felici, ricchi=tristi. Emblematiche in questo senso sono le vicende messicana e marocchina, dove la vicinanza e sincera solidarietà dei primi, in qualche maniera, “punisce” sul piano morale l’egoismo poco verecondo dei secondi.

Ed in questo senso Babel è un film quasi ostinato e “pilotato” nella sua tesi: in un mondo globale l’individualismo non paga.

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Per tutti gli alberi sacrificati per “sicurezza”…

L’olmo caduto

Chiunque avesse abbattuto l’olmo
Non lo aveva tagliato netto,
E sanguinò finché la neve dal cielo
Non sanò la ferita con una placenta d’argento

Il tronco, lucente di smalto di ghiaccio
Bianco venato come teca di cristallo,
Rigido giacque contro la nuova voce
Sibilata tra i denti invernali del vento.

Qualunque mai cosa scaldasse
L’olmo fino alle radici entro il suolo
Pietosa come la primavera
Scaldò il cuore del fusto

Legato al suo ceppo da un lembo
Di legno, quasi cordone d’ombelico,
Simile a madre che nutra il figliolo
Nel suo mondo d’embrione

Finché poté far breccia nel muro,
E s’aprì il varco, quando ogni irto ramo,
Germogli di foglie esplose, in verzura
Dalla coppa dell’olmo caduto.

da L. SALOMON, in “Poesia americana del’900”, Guanda

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