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Uno sguardo al far east…

Trovo che il cinema, congiuntamente alla letteratura o alla musica, sia uno dei modi più semplici ed interessanti per chi si voglia avvicinare, con le debite contestualizzazioni e limitazioni, alla cultura del “centro del mondo” (“Cina”, in cinese). Nel gran clamore che il “fenomeno Cina” sta suscitando a livello mondiale, spesso ci si sofferma molto sugli aspetti e peculiarità socio-politico-economiche che quell’immenso Paese sta mostrando e forse meno o troppo poco sul fermento culturale -intrisecamente correlato alle prime- che da lì muove. Tra le più popolari e potenzialmente “sovversive” espressioni di tal stampo uno spazio rilevante lo ha la cinematografia asiatica -e cinese- moderna.
Quando si parla di cinema cinese è inevitabile allargare il campo ad una moderna “filmografia d’area” (un po’ come possiamo parlare, con molte approssimazioni, di “cinema europeo”), perché è fuor di dubbio che essa scaturisca e sia strettamente correlata con le esperienze provenienti dai paesi confinanti con la Cina.
È fuor di dubbio che oggi (inteso come “da una ventina d’anni”) nascano in tale contesto geografico realtà e personalità molto interessanti e che esse stiano acquistando anche da noi (pur con enormi difficoltà distributive) un progressivo spazio di visibilità ed interesse, fino a qualche anno fa difficilmente apprezzabili.

Un contributo non da poco a tale “sdoganamento” va certamente riservato al “Far East Film Festival” di Udine, che ormai da 7 anni a questa parte raduna nella nostra area cineasti ed appassionati del settore, ma anche l’apertura della 62esima Mostra del Cinema di Venezia con “Seven Swords” del “mitico” Tsui Hark (da più periodici frettolosamente definito “lo Spielberg cinese”) e l’assegnazione della direzione artistica della stessa ad un sinofilo come Marco Müller, sono indubbiamente uno specchio dei tempi.

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Mentore Romani

Il verme

“Quel verme che osservo dal balcone strisciare per terra sotto gli occhi mi fa venire in mente la notizia, letta stamane sul giornale, del suicidio del famoso principe Lana.
Perchè il principe Lana che possedeva beni, cariche,amici, donne, si è suicidato, mentre i vermi e gli altri animali di infimo ordine, che fanno una vita così misera, non si suicidano? Forse perchè il principe Lama non era un verme?!
O perchè non voleva essere tale, mentre l’inesorabile legge della vita lo spingeva verso l’infimo ordine?!
(Ma ciò non è esatto, dato che il principe Lana non aveva dissesti).
O perchè la vita umana è in stato di involuzione, di generazione?!
(Ma allora cosa c’è di perfetto nella vita dei vermi, per doverli prendere a modello?)
Tutte queste, più che buone ragioni, soddisfacenti ed esaurienti, mi sembrano ipotesi.”

da “Meditazioni di un solitario” – Gastaldi, Milano, 1959

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Paolo Caliari detto il Veronese

Dopo la mostra sul Veronese, tenutasi al Museo Correr, mi è venuta la curiosità di andare a visitare le opere che questo artista ha lasciato a Venezia. Tappa obbligata di questo tour è sicuramente la chiesa di San Sebastiano, uno dei più importanti luoghi dell’arte veneziana, riunendo il più straordinario corpus di opere di Paolo Caliari detto il Veronese. La sensazione che si prova entrando in questa chiesa è di dispersione perché lo sguardo si perde nell’osservare le molte opere presenti e non si sa davvero dove guardare, vista la bellezza di ciò che è conservato in questo edificio. L’intervento del Veronese, voluto dal Priore veronese frà Bernardo Torlioni, a cui spetta la concezione tematica dell’impresa intesa come allegoria del trionfo della fede sull’eresia, si articola in tre momenti, di cui il primo ha inizio nel 1555, ed ha per tema la decorazione del soffitto della sacrestia con Scene dell’Antico Testamento (Vergine Incoronata ed Evangelisti), a cui fa seguito la complessa decorazione del soffitto a cassettoni della chiesa, protrattasi fino al 1556 e ispirata al Libro di Ester (Ester incoronata da Assuero, Ester incontra Assuero e il Trionfo di Mardocheo).

Tra il 1558 e il 1559 Veronese realizza il secondo intervento, decorando con affreschi la parte superiore della navata centrale (Padri della Chiesa, Profeti, Sibille e personaggi biblici) e il coro dei frati (episodi della Vita di San Sebastiano) e realizzando le portelle d’organo e il parapetto (Presentazione di Gesù al Tempio, Piscina Probatica e Natività). L’ultimo intervento risale infine al periodo 1565-70, con l’esecuzione della grande pala d’altare con la Madonna in gloria con San Sebastiano e altri santi e dei due teleri laterali del presbiterio raffiguranti i Santi Marco e Marcellino condotti al martirio e il Martirio di San Sebastiano. La chiesa conserva anche le spoglie del Veronese (a sinistra del presbiterio).

Prendendo in considerazione una parte della decorazione del soffitto dipinto dall’artista, cioè Ester incoronata Da Assuero, mi sono posta il problema di capire quale sia il suo stile e che cosa accomuni tutta la sua attività. Quest’opera che, essendo, come già detto, dipinta per il soffitto della Navata, deve tener conto della posizione elevata, dell’ampiezza del luogo e della distanza dallo spettatore. Questi fatti portano ad un accentramento di quelle caratteristiche già presenti in Veronese: la monumentalità e la ricerca dello scorcio particolare.

Una costante di questo pittore è inoltre l’uso dei colori complementari, che accostati, pur restando distinti, generano l’equivalente della luce bianca, determinando un’intesa luminosità chiara.

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“Sete d’Africa – Mali e e Burkina-Faso in bicicletta” di Claudia Perugini

Per cercare di ridurre le distanze fisiche e mentali che ci separano dal Burkina Faso, può essere utile la lettura di “Sete d’Africa”, libro scritto da Claudia Perugini ed edito da Ediciclo nel 2004.

Non si tratta di un testo scientifico o tecnico, o di indagine socio-economica, ma è il diario di un viaggio in bicicletta, fatto dall’autrice con il marito Max nel paese subsahariano, e  in cui essi riescono a coniugare la passione per il cicloturismo con la solidarietà. Max e Claudia, concependo la loro impresa , infatti avevano deciso  che ” la ( loro ) pedalata  doveva essere qualcosa di diverso da una semplice vacanza” ed avevano incominciato , prima del viaggio, a cercare contatti e fondi, approdando ad aderire al progetto ” Acqua è vita” dell’associazione di volontariato internazionale L.V.I.A.

Il libro è quindi la cronaca di questo percorso, fatto dai due protagonisti, fuori e dentro di sè, per costruire e realizzare qualcosa di concreto e utile per  gli altri, oltre che per vivere un’esperienza ciclistica intensa, straordinaria, radicale. Il resoconto del viaggio si snoda in modo diretto, lineare incisivo ed appare scritto con gli occhi, con la mente e con il cuore, per aiutarci non solo a vedere luoghi lontani, colti nella loro complessa realtà, senza alcuna concessione all’esotismo e alla retorica, ma anche a rivedere il nostro mondo e modo di vivere in un’ottica di essenzialità ed autenticità.

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Un fotografo dall’occhio da scultore

Il 24 giugno 2005, è stata inaugurata a Chicago, alla FLATFILEgalleries, la mostra fotografica personale di Claude Andreini, nostro concittadino, dal titolo evocativo “METROPOLIS”.
Riportiamo di seguito la critica della curatrice Susan Aurinko, in collaborazione con il Dr. Michael Weinstein – Prof.  di Scienze Politiche alla Purdue University di Chicago.

“Claude Andreini è un modernista, che realizza immagini nella più grande tradizione lineare, con una composizione formale e senza necessità di spiegazioni.
Nonostante l’autore dichiari a proposito del lavoro METROPOLIS che esso è nato da considerazioni ambientaliste, alla fine risulta che Andreini realizza delle foto assolutamente magnifiche della stessa realtà, quella urbana, che intendeva criticare. A lui è impossibile scattare una fotografia che non sia equilibrata alla perfezione. È in questo modo che funziona il suo occhio ultrapreciso. Che siano fotografati nudi, elementi architettonici, ambientazioni urbane o lugubre camere di campo di concentramento, Andreini rappresenta i suoi soggetti con una purezza e un rispetto estremi. Affiora nell’insieme della sua opera una comprensione della forma e della superficie che nasce dai suoi studi di scultore.

Il corpo del lavoro intitolato METROPOLIS, rivolto all’evocazione di distese urbane e dell’assenza di natura, osanna invece la bellezza lineare della città. Gli angoli sono utilizzati al meglio per creare immagini che mostrano il paesaggio urbano come un mondo di strutture monumentali di acciaio e di vetro, simili nella loro essenza, a delle sculture che si drizzano verso il cielo. Immensi pannelli pubblicitari, mostrando visi enormi, giustapposti all’architettura aggiungono una strana umanità a questo ambiente peraltro sterile. Quando appaiono individui, le loro sagome sono indistinte, spettrali, e si muovono dietro una lastra di vetro traslucido lavorato. In un caffè all’aria aperta, ombrelloni sistemati in cerchi concentrici nascondono ogni essere  suscettibile di pranzare al loro riparo, mostrando di nuovo una versione surrealista della città, priva dalla gente che la crea e l’abita. Un po’ come se la città sorgesse dalla terra completamente formata, senza l’aiuto delle popolazioni, tanto le sue strade sono vuote in queste fotografie sconcertanti.” (…)

(trad. Selim e Indira Chanderli)


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A proposito di “Metropolis”… intervista a Claude Andreini

Ho incontrato Claude Andreini al ritorno da Chicago e gli ho posto alcune domande, allo scopo di evidenziare e di meglio capire la genesi, le motivazioni e le intenzioni comunicative ed artistiche che stanno alla base di questo suo lavoro di fotografo ed artista.

Come è nata Metropolis?
“L’ispirazione per questo mio lavoro è nata visitando tante città europee, grandi e piccole, dove ho avuto la sensazione che l’architettura moderna, rigorosa, funzionale, fatta di materiali  lisci e duri, come l’acciaio, brillanti e trasparenti come il vetro, non fosse affatto accettata. Idem per altre strutture, magari antichizzanti, segni di passata ricchezza, ma non certo di socializzazione; perciò al piede di slanciate torri di cristallo, l’impiegato si rifugia a sorseggiare una bibita sotto ombrelloni di paglia; lo stesso avviene nel cortile, circondato da imponenti colonne greco-romane, di un museo; sui muri poi di centinaia di appartamenti, appollaiati gli uni sugli altri, campeggiano manifesti di persone sorridenti… e così via.”

Mi sembra di capire che quello che rappresenti nelle tue foto è un ambiente urbano, alienante, che genera disagio.
“Sì, le immagini vogliono evidenziare proprio il malessere dell’uomo a vivere in strutture che non sono consone per la vita naturale a cui aspira. Esse tentano di dimostrare che la scelta è stata sbagliata e che, individualmente, nel suo piccolo, ogni individuo cerca di ricrearsi un angolo a sua misura.”

Hai colto questo stesso disagio di abitare anche a Chicago?
“La stessa domanda mi è stata fatta anche da Michael Weinstein, giornalista-filosofo americano, nel corso di una intervista, ed ho dovuto rispondere che no, non avvertivo nel paesaggio urbano americano quel disagio palpabile che avevo testimoniato con le mie foto. In effetti, la vista delle formidabili torri di Chicago, città simbolo dell’architettura americana, (grazie alle opere di Van Der Mies e Wright, fra gli altri), non mi ha fatto cogliere la stessa sensazione che mi aveva colpito in Europa. Lì, il cittadino non sembra per niente soffrire dell’assenza di dimensione umana, nonostante tutto sia enorme, gigantesco, smisurato. Forse per l’assenza di radici antiche, la modernità è totale, dalla testa ai piedi, senza compromessi: niente ombrelloni di paglia, niente bar “esotizzanti”, nessuna nostalgia affidata a poster di Lawrence d’Arabia. E quindi non ho potuto confermare la mia tesi con altri scatti americani.”

Questa tua affermazione mi sembra un po’ controcorrente.
“Ribadisco che questa esaltata struttura architettonica non ha tolto umanità ai rapporti tra cittadini. Da tanto tempo avevo dimenticato il saluto sistematico di sconosciuti quando entri in un negozio; la conversazione con estranei che, curiosi, ti chiedono cosa stai fotografando sul marciapiede; la moneta che ti rendono sul palmo della mano e non sul freddo vetro del banco; o lo scambio di biglietto da visita quando inviti una persona, mai vista e conosciuta prima, alla tua mostra. Insomma ho avuto la sensazione che effettivamente ci sia a Chicago un “homo diversus” da quello europeo, adattato alla struttura della città. Di conseguenza, per integrare e sviluppare, per contrasto, la mia tesi, ho fatto foto di quella architettura, di quelle persone, di quella modernità.”

Sarà possibile vedere allestita anche qui da noi qualche tua mostra?

“Ottobre 2005: New York. 2006: Chicago e Ginevra.
Sono quindici anni che le mie opere sono inserite in collezioni pubbliche e private internazionali e che insegno ed espongo fotografia in giro per il mondo, ma mai ho avuto la possibilità di farlo a Gruaro. Il perchè…”

Ultimo lavoro visibile: http://www.photodigitalgrosseto.com

Sito ufficiale

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Ce l’esi poesiis?

Ce scrivitu nona ?
Scrif poesiis
E ce l’esi poesiis?
Zin, zin, sot la lobia
a vede li sisilis ch’i
scrif poesiis…
(Rosanna Paroni Bertoia)

Una serata dedicata alla poesia e, in particolare, a quella dialettale ha bisogno di alcune precisazioni. Essa, innanzitutto non è fine a se stessa, ma nasce nell’ambito di quel percorso di valorizzazione del territorio che “La Ruota” si è proposta di realizzare anche se, apparentemente, ne rovescia la prospettiva. Infatti una scelta di questo genere può apparire, ad una analisi affrettata, azzardata, elitaria, difficile, punto d’arrivo non di partenza, ma noi siamo convinti che il linguaggio poetico, con la sua libertà, allusività e capacità di suscitare, in ognuno di noi, echi, sia pur diversi, può aiutarci a stabilire un sentire insieme, una sintonia,da cui prendere avvio per il nostro viaggio, che non vuole essere solo  emozionale, ma percorso di conoscenza e di consapevolezza. Non è poi estranea a questa nostra iniziativa, la riflessione sulla centralità che il fenomeno lingua riveste all’interno di una comunità, anche se, realisticamente, non ci sono in noi intenti di restaurazione linguistica, o di un anacronistico ritorno al passato, o di pseudo rivendicazioni culturali, in quanto pensiamo che la lingua sia qualcosa di vivo, dinamico e funzionale, che cambia nel tempo e si adegua alle necessità dei parlanti; siamo però convinti anche che, perché ognuno di noi viva completamente il suo presente, debba conoscere anche il suo passato, la sua storia, che si intreccia con quella degli altri e diventa quindi comunicazione, linguaggio.
Da qui è nato il repertorio di testi poetici e autori dialettali, curati dalla prof.ssa Mariella Collovini, dal titolo “Le voci della terra, le parole dell’uomo – amore e nostalgia nella lingua dei poeti tra Isonzo e Piave” che si strutturerà come lettura scenica, fatta da tre attori, Filippo Facca, Angela Perissinotto, Daniela Turchetto, accompagnata dalle musiche eseguite dal maestro Gianni Fassetta.
Il nostro sarà quindi un itinerario che avrà tra le sue tappe “amore e nostalgia”, ma come meta la presa d’atto, assieme al desiderio di condividerla  con altri, dell’esistenza di un patrimonio poetico – letterario sconosciuto al gran pubblico e che affronta, usando il dialetto veneto e friulano o alcune sue varietà, tematiche universali (il dolore, la malinconia, l’allegria, l’amore, la nostalgia, il rimpianto…) che superano i limiti territoriali imposti dallo strumento linguistico usato.
Numerosi e stilisticamente diversi tra loro sono anche gli autori utilizzati (per citarne solo alcuni): si va da Andrea Zanzotto a Pier Paolo Pasolini, a Giacomo Noventa, a Biagio Marin, a Ernesto Calzavara, a Giacomo Villalta, a Novella Cantarutti a Romano Pascutto; ma non sono stati trascurati neanche i poeti locali, come Giovan Battista Donato, poeta del’500, nato a Venezia e vissuto a Gruaro, Giacomo Vit, Lionello Fioretti ed altri ancora che rivelano talora, nel loro consapevole bilinguismo (lingua, dialetto) la complessità delle relazioni esistenti tra strumento poetico e materia trattata.
La serata è dedicata al poeta Lionello Fioretti, Natale per noi, “appartatosi”, come dicono, con una struggente e felice immagine i suoi amici del Menocchio, quasi un anno fa, lasciandoci soli in compagnia della sua poesia “…fresca eppure permeata di cultura, trasparente per immediati sapori, abitata da una robusta densità meditativa…” (Gianfranco Scialino) e, soprattutto, mai “complice”.

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Lionello Fioretti

Di sé ha scritto:

“In un giorno di vento, Lionello Fioretti nacque a Bagnarola,
benedicendo la primavera del ’45.
Per rendere lieti i genitori dimorò nelle galere della scuola italiana,
laureandosi in lettere a Padova,
dove capì suo padre che esclamava ”mus padovan”,
quando da piccolo impuntava i piedi.
Non volendo trasmettere ignoranza a ignoranti,
evitò a muso duro e berretta rincalcata, la carriera scolastica.
Non potendo vivere di pittura (ebbe un maestro misericordioso
e pieno di significativi silenzi: Tramontin),
diventò medico di dipinti antichi,
condannandosi a un eterno precariato:
non conosceva l’uso della “sportula”
e in più diceva quello che pensava: insomma un discreto imbecille.
Ebbe (chi è il maestro, chi è l’allievo?) esperienza di insegnamento
Di tecniche pittoriche, maschere e altro, in corsi liberi con terze età,
portatori di handicap e fuori di testa.
Particolarmente con questi ultimi si trovò bene, fu accolto con
Larghezza, si riconobbe e fu riconosciuto,
proprio come Pinocchio, quando nel teatrino di Mangiafuoco
fu festeggiato dalle altre marionette.
Ahimè dipinse, scrisse, ma cucinò per sé e per gli amici.
Ai fornelli cuoco raffinato (anche gli invidiosi davano il placet)
Capì di aver sbagliato carriera e che nel calderone universale,
instancabili collaboratori,
veniamo tutti cotti a puntino, anche i furbi. Amen”.

(da I’sielc’ peravali’)

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PENSIERI diVINI!

Non c’è praticamente
cultura al mondo
che non abbia
conosciuto e fatto
uso, sacro e profano,
di sostanze alcoliche,
inebrianti, ma, qualsiasi ne sia il mezzo, lo
scopo del bere sembra essere stato il medesimo
attraverso i tempi: il tentativo di uscire da un quadro di vita avvertito come ripetitivo,  banale, soffocante  o  insopportabile
per  approdare a rive di sogno,  di rilassamento, di esaltazione  o  di  superamento dell’incertezza  e  dell’angoscia.  Il consumo delle bevande   alcoliche  appartiene  perciò    alla   struttura stessa  del festeggiare ed il vino, in particolare, invoglia all’abbandono, specie se bevuto   in gioiosa  compagnia.  La  serata propone  perciò   un   viaggio    sorridente   e   frizzante  attraverso  le  storie,  i versi, gli aforismi, gli scherzi, i deliri ed i canti di  poeti,  scrittori,   saggisti, cantautori,   studiosi   ed……….ubriachi vari che,    come  dice
Baudelaire, hanno dato voce all’anima del vino che canta
nelle bottiglie. E questo argomento, che inzuppa
la letteratura di ogni luogo e di ogni tempo,
sarà servito a  temperatura   ambiente,
il 27 novembre, nella sala consiliare
del municipio di Gruaro.