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“Scusa amore” di Ichi

Il penultimo film della nottata (è quasi mezzanotte), è il migliore del trittico zombie-movie, nonchè il più brutale, splatter ed irriverente!
Girato con un cellulare “a zero budget” (e non è difficile notarlo), Scusa amore” di Federico Scargiali (in arte “Ichi”: un nick, un programma), non ha alcuna pretesa di originalità o profondità, ma la freschezza dell’irriverenza ed il gusto del gore non mancano di certo.

Serve raccontare la trama? Una coppia scappa da un turbinìo di zombi lanciati al loro inseguimento e si nasconde in un imprecisato stabile. Solo che lui viene morso e lei è incinta, quindi “Scusa amore”, ma ti devo spaccare la testa con un’accetta! Nella confusione che segue, tra la “sistemazione” del cadavere ed il continuo assalto dall’esterno non viene lesinato nulla, ma proprio nulla, allo spettatore, fino ad un’eccezionale e divertente crescendo finale.

Insomma un film immancabile per una “horror night” che si voglia dire, ma anche un lavoro curato, almeno nel montaggio e nel comparto sonoro, seppur costretto (da evidenti limiti tecnici) ad un effetto fotografico sporco ed ottantiano.

Regista da rivedere con budget e mezzi più appropriati!

Voto 3/4

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“Betania” di Andrea Giomaro

Il secondo zombie-movie, e sesto corto della serata è Betania” di Andrea Giomaro. Come gentilmente esplicatoci dal simpaticissimo regista, “Betania” è il nome della città di Lazzaro, “il primo non morto della storia”, e da lì il titolo prende spunto.

E’ la storia di un’anatomopatologa che viene convocata nel fantomatico villaggio di Betania per presenziare al funerale dell’amatissimo nonno, che l’ha nominata propria erede universale. Svolta la sparutissima cerimonia, in un ambiente dominato dal sospetto e dall’abbandono, il sacerdote officiante, nonchè esecutore testamentario, la conduce alla casa del nonno, ove la protagonista sbadatamente dimentica il proprio telefono cellulare.
Al ritorno per recuperarlo le soprese non mancheranno…

“Betania” è ancora una volta un omaggio ai classici del genere con questa tematica del sacro-profano, della realtà apparente e delle verità nascoste, immerso in buone location ed interpretato da bei comprimari, confezionato inoltre con una bella fotografia desaturata (ovvia l’eccezione del rosso) e condito da una discreta regia ed ottimi effetti speciali.
Però troppe sono le pecche che lo segnano: in primis la scelta di una protagonista poco espressiva e poco calata nella parte, poi da una scarsa attenzione per i dialoghi e per le interpretazioni ed infine, anche qui, da una scontata prevedibilità della trama.

Spiace dirlo, ma non ci sono colpi di scena, nè parti particolarmente crude od impressionanti, nè tantomeno soprese o punti di vista originali. Rimane un’ottima confezione, ma permane sempre questa sgradevole sensazione che le cose avrebbero potuto prendere una piega differente… Insomma un’opera che aggiunge poco al genere, e che avrebbe dovuto osare di più.

Voto 2/4

il sito ufficiale del regista

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“Anatomy” di Vincenzo Pandolfi

La quarta opera è brevissima, solo 3 minuti, si intitola Anatomy” ed è diretto da Vincenzo Pandolfi.

Anche questo un film muto, e si fonda su un articolato esperimento di ripresa in 16mm (impossibile per me non pensare al “Begotten” di E. Elias Merhige), con colori ultrasaturi e filtri gialli e viola. L’esperimento dovrebbe consistere nel rendere angosciante e conturbante una scena di vita quotidiana: un uomo porta la colazione a letto alla moglie e poi sparecchia il desinato, ma qualcosa non è come sembra.

Da qui la scelta tecnica del 16 mm come quella che può garantire la massima immersione, e nel contempo favorire un clima di tensione sottolineato ossessivamente da una colonna sonora claustrofobica (ed ottimamente scelta). Il risultato però non è dei migliori: le didascalie spezzano fastidiosamente il ritmo della vicenda, e per quanto indispensabili non danno linearità nè alla chiarificazione nè alla stessa rivelazione finale, non di immediata lettura.

Non che sia tutto da buttare, ma se chiedi un certo sforzo allo spettatore dal punto di vista visivo, devi garantire altrettanto dal punto di vista emotivo. Altrimenti il tutto rischia di apparire fin troppo freddo e fine a se stesso, un’anatomia, per l’appunto… era questo l’intendimento?

Voto 2/4

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“A joke of too much” di Francesco Picone

Il primo cortometraggio in concorso è A joke of too much” di Francesco Picone.

A detta del regista un omaggio dichiarato e agli horror “ironici” del passato e alla serie “Grindhouse” della coppia Tarantino / Rodriguez (in verità deve più a costoro…). Come in Grindhouse, il film si apre con un finto trailer: “L’invasione dei vermi mutanti”, divertente parodia de “L’invasione degli ultracorpi” più “I visitors”, ma insomma… da subito si nota come il tutto sia un po’ sfilacciato e tirato per le lunghe, ed in tal senso qualche taglio in più avrebbe giovato; anche le battute strappano appena qualche sorriso.

Passato il trailer veniamo al film vero e proprio, che segue il canovaccio classico della coppietta che si infratta e la cui gita amorosa viene bruscamente interrotta dal solito omicida seriale pazzo e appena scappato di prigione (e ti pareva!).
Il tutto condito da battute di facile e dubbia volgarità e dallo scherzo del titolo, che si rivelerà (come nel più classico film di genere) un’involontaria anticipazione della fine fatale.

La recitazione è poco convincente, la scena dell’inseguimento è confusionaria, ci sono svarioni di fotografia che sinceramente non ho capito e gli effetti sono di serie Z, ma questo non sarebbe nemmeno un problema, se accompagnati da una storia minimamente originale.

Forse per rendere un po’ più appetibile il tutto si poteva sviluppare maggiormente la parte “eros”.

Voto 1/4

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“Bloody toner” di Francesco Roder

Il secondo lavoro, Bloody Toner” di Francesco Roder omaggia l’horror degli anni 20, attraverso una riuscita parodia muta in bianco e nero dei classici di genere. Opera realizzata in sole 60 ore per il premio Collio Cinema di Gorizia (se non ho capito male…), tutto il mio plauso agli autori per essere riusciti ad inventarsi e condensare in 6 minuti un soggetto veramente divertente.

La storia di una fotocopiatrice demoniaca che si scatena con la goccia di sangue di una vergine è quanto di più improbabile possa pensarsi, ma qui la sospensione dell’incredulità è egregiamente sostenuta da una messa in scena veramente efficace. Gli “eccessi” registici non sono sovrabbondanti, la recitazione tutta sopra le righe (ancora un plauso alla protagonista, deliziosa) è convincente, le scelte di montaggio danno ritmo e brio al tutto, finanche le didascalie sono ottime: ironiche e divertenti. Insomma un lavoro onesto, ben girato, e soprattutto originale, senza tronfie o troppe pretese di esplicare chissà quali proponimenti… Ed in tale quadro e tale ottica posso ben volentieri mancare di eccepire a stereotipi ed anacronismi, ma semplicemente divertirmi.

Regista da rivedere in ambiti e modi più articolati.

Come già detto alla fine il film è risultato (meritatamente) il vincitore della serata, con una media voti di addirittura 3,30. Il fatto che non sia propriamente orrorifico la dice lunga sulla qualità delle altre pellicole in concorso.

Voto 3/4

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“Durante la morte” di Davide Scovazzo

Il primo zombie-movie della serata si intitola Durante la morte” di Davide Scovazzo, di cui ho apprezzato sicuramente il dichiarato intento: quello di utilizzare un linguaggio classico del cinema di genere per raccontare qualcosa di differente.
Girato (in digitale) interamente a Genova, tra archittetture indubbiamente inquietanti e decadenti, si ispira ad una frase dello scrittore Niccolò Ammaniti (*), che a detta del regista gli ha ispirato la storia.

Essa principia all’alba: in un anonimo monolocale suona una sveglia, il nostro protagonista si alza e, ben bardato, comincia la propria errabonda giornata, senza una meta precisa, ma senza variazioni di rilievo (così almeno ci rivela la voce fuori campo). Per una buona parte del film egli non fa altro che incontrare non morti che si comportano come vivi e scappare da loro, e per 4 volte ci viene riproposta la medesima metodica incontro-rivelazione-fuga. Per carità, il trucco è discreto e non lesina trovate divertenti, ma ho trovato francamente eccessiva questa riproposizione, soprattutto perché non finalizzata ad alcun avanzamento della trama. Ad un certo punto il nostro, esausto, viene finalmente catturato, e da lì un brusco taglio apre la seconda parte del film, che conduce rapidamente alla rivelazione finale.

La prima cosa che colpisce è la precarietà della recitazione, nonché l’abuso della voce fuori campo… spesso ridondante, poteva tranquillamente essere omessa.
La seconda cosa che colpisce è che il “qualcosa di differente” del regista in realtà è uno dei temi portanti del cinema di Romero: gli zombie non sono differenti da noi, e sono finanche meglio di noi. La storia degli zombie che non si riconoscono come tali, che rimpiangono e perpetuano la propria vita passata, non è altrettanto nuovissima (basti pensare agli zombie di “Land of the dead”, che nel mondo fuori dalla città continuano ad esercitare le proprie attività e lavori). Ma a parte questo, il film è almeno coinvolgente?

Direi molto a tratti: belle le location e buona la fotografia, ottimi gli effetti sonori ed il trucco, ma sinceramente a questi zombie non ci si affeziona, sono morti più che “non morti” (anche se parlano, e ridono, e amano) e sono strumentali esclusivamente ad un’idea di fondo ben poco sorprendente…

Insomma un film da rivedere e da curare soprattutto nelle interpretazioni, o almeno da rimontare eliminando una parte di superfluo.

Voto 2/4

(*) la frase dovrebbe essere: “i ricordi sono zombie che ti uccidono instillandoti una nostalgia che ti leva il respiro”.

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“Juan con miedo” di Daniel Romero

A mezzanotte la proiezione dell’ultimo film in concorso, lo spagnolo “Juan con miedo” di Daniel Romero, di cui ricordo poco, sarà stata l’ora, la mancanza di sottotitoli e la mia bassa propensione per le lingue, ma non sono riuscito pienamente a cogliere il succo della trama.

Sicuramente apprezzabili la cura della messa in scena, la tecnica e la scelta di dirigere dei bambini (non certo semplice), però di questa maledizione in questa casa abbandonata con questo fantasma non sono riuscito a cogliere granché, se non che mi è sembrato tutto un bel po’ stereotipato e a tratti pacchiano…

Non mi sono comunque espresso sul voto finale, riservandomi un’ulteriore visione.

S.V.

Scheda su imdb

Il blog del regista

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“Darkness within” di James Kendall

Controverso il terzo film della serata: “Darkness Within” dell’italo-inglese James Kendall, peraltro tra i più lunghi (20 minuti), con il quale svoltiamo proprio pagina, sia da un punto di vista formale che meramente tecnico.
Progetto pensato per il diploma di regia cinematografica alla London Film School, datato 2009, girato interamente a Berlino per ragioni economiche (a detta del regista), il film è un thriller claustrofobico che si tramuta via via in un horror movie splatter, pur mantenendo le caratteristiche estetiche di cui al principio.

La storia è piuttosto semplice: racconta il rientro a casa di una coppia borghese (Marc e Marie), trasferitisi da poco in un quartiere altolocato, che viene presa di mira dai vicini psicopatici e omicidi.

Molti dei cineasti presenti ieri sera dovrebbero studiare il film di Kendall, per capire come si gestiscono gli attori e curano le interpretazioni, senza che risultino sovrabbondanti o poco credibili, anche in un contesto thriller-horror. Ma dovrebbero studiarlo anche per altri aspetti: è infatti la pellicola meglio curata, sotto tutti i profili e punti di vista, fotografia (forse con l’eccezione di alcuni neri talora frastornanti), recitazione, montaggio, riprese, e dimostra come pur con pochi mezzi si possa realizzare un’opera che nulla ha da invidiare a produzioni più blasonate.

Però… c’è un però. Cosa manca al film di Kendall per essere memorabile?

Sicuramente le limitazioni della storia, e l’abbondanza di topoi poco originali, pertanto poco inquietanti. Quello che manca è la tensione angosciante che dovrebbe essere fondativa della prima parte, più interlocutiva e psicologica. In molte scene la prevedibilità rovina letteralmente l’atmosfera. Quando Marie entra finalmente in casa il riproporsi del classico stilema “squillo di telefono”, “coltello da cucina”, nascondiglio ed apparizione del “boogieman” è talmente telegrafato ed abusato che non spaventa minimamente. Altrettanto abusato è poi l’impiego delle maschere veneziane dei sadici torturatori: più che alienare le loro emozioni forse il regista avrebbe fatto meglio ad esplicare maggiormente le loro “ragioni”.
Infatti anche se da un lato suggerisce “un patto” con Marc per spaventare Marie, dall’altro non comprendiamo quali finalità perverse la “regina sadica” Babette Winter (sicuramente la migliore interprete del lotto) si proponga… forse una maggior insistenza su di un piano vagamente lesbo-nazistoide avrebbe aiutato?

Un plauso infine alle scene splatter, efficaci proprio perchè poco esplicite. Insomma un’ottima prova, ma che va completata e messa alla prova con uno script più attento.

Voto 3/4

Un’intervista a James Kendall su filmdoc.it

Un’interessante intervista di Chiara Pani a James Kendall su italiansexymodels.com

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Presentazione del libro “Fuori dal tempio” di Pierluigi Di Piazza

Giovedì 9 giugno 2011 alle ore 20.45 siamo orgogliosi di presentare il libro: “Fuori dal tempio. La Chiesa al servizio dell’umanità” ed ospitarne l’autore Pierluigi Di Piazza, del Centro di accoglienza per stranieri e di promozione culturale “Ernesto Balducci” di Zugliano (Udine).

Dalla presentazione tenuta al Centro Balducci:

“Mi sento laico, umile credente sempre in ricerca, prete per un servizio disponibile, disinteressato, gratuito nella comunità cristiana e nella società; anticlericale, cioè non appartenente ad una categoria; non funzionario della religione. Si può così intuire quale sia a livello di comunicazione l’effetto del cercare giustizia, verità, uguaglianza, pace, condivisione”. Parla don Pierluigi Di Piazza, fondatore del Centro di accoglienza per stranieri Ernesto Balducci di Zugliano, e racconta la sua storia di uomo e di prete, di insegnante e di animatore culturale, alle prese con i temi più discussi nelle comunità cristiana: le delicate posizioni dei separati e divorziati nella Chiesa, l’aborto, l’omosessualità, il celibato dei preti, il sacerdozio delle donne, la pedofilia, la malattia e il fine vita.

Pierluigi Di Piazza, prete parroco, laureato in Teologia, ha ricevuto nel 2006 la laurea ad honorem dell’Università degli Studi di Udine quale “imprenditore di solidarietà”. Insegnante per 30 anni, nel 1988 ha fondato il Centro di accoglienza per stranieri e di promozione culturale “Ernesto Balducci” di Zugliano (Udine) di cui è responsabile. Collabora con giornali e riviste. Tra le sue pubblicazioni, “Nel cuore dell’umanità, storia di un percorso” (2006) e “Questo straordinario Gesù di Nazaret” (2010).

L’incontro si terrà  presso la Villa Ronzani di Giai di Gruaro e sarà possibile acquistare il volume.

Allego la locandina dell’evento ed invito come sempre tutti a segnalare la serata.

  Fuori dal tempio: la Chiesa al servizio dell'umanità, di Pierluigi Di Piazza (448,2 KiB, 13 download)
Non hai il permesso di scaricare il file.

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Neurox: 30 anni e non sentirli

Nel 1981 un gruppo di amici con un’insana passione per la musica suonata, forma quello che sarà per i sette anni successivi la loro più grande occupazione: i Neurox.
Claudio Barro, fondatore ed anima storica della band (che ha visto in formazione Raffaella Ruggero, voce; lo stesso Barro al basso; il fratello Marco Barro, chitarra; Gianmarco Orsini, synth/tastiere; Maurizio “Lulu” Tolasi, dall’81 all’85, batteria; Daniele Sclip, dall’85 all’87, batteria), in una lunga chiacchierata casalinga mi racconta cosa è stata l’esperienza di militare in un gruppo nella prima metà degli anni ’80, un misto di dedizione pura, ingenuità ed intransigenza. Una conversazione che è stata un’occasione per fare il punto della situazione sullo stato attuale del panorama musicale portogruarese e non solo. Perchè i Neurox, dopo una pausa di quasi vent’anni si sono ristretti in formazione, con la loro solita attitudine sperimentale, a scanso di ogni sentimento di revival.

Ma andiamo con ordine.
Durante la sua prima vita, che possiamo racchiudere negli anni compresi tra l’81 e l’88, il gruppo  si può paragonare ad clan esclusivo, che pretendeva assoluta dedizione e fedeltà ai suoi membri: una filosofia che si è tradotta in una continua evoluzione musicale, in un percorso che lo ha visto partire da un’impronta punk di matrice bolognese, fino a perfezionarsi in un solido rock elettronico, affine a quell’ondata new wave che stava esplodendo in Europa. L’autofinanziamento nell”84 del 45 giri A Raving Night / Romantic allo studio Celesta, quello che è stato l’unico studio di registrazione di Portogruaro, è stata la tappa naturale di un gruppo di musicisti che avevano passato i tre anni precedenti a sperimentare e ad affinare il proprio suono nel loro garage-sala prove e in molte feste dell’Unità. Un passo che ha permesso loro, musicalmente maturi, di ritagliarsi uno spazio nel panorama rock nostrano, e di essere trasmessi con costanza nella rete delle radio private, complice l’incontro con Aldo Tagliapietra, storico fondatore delle Orme, che li nota e che per un periodo li accoglie sotto l’ala del suo management.

In un accumularsi di esperienze che li ha portati a dividere il palco con band che segneranno in maniera profonda la storia del rock in Italia, come i CCCP, i Litfiba, i Denovo, o i Gaznevada, e a venir recensiti su riviste di tiratura nazionale. Ma neppure il terzo posto nell’87 ad uno storico Rock Targato Italia, poi vinto dai Timoria, ha scalfito la loro attitudine naïf verso quel mondo, non preoccupandosi neppure di ritirare il premio, ma ripartendo subito per la delusione del piazzamento. “Eravamo dei provinciali senza alcun tipo di guida – confida sorridendo Claudio – l’unica cosa che ci interessava era suonare, non ci siamo resi conto di nulla, per noi era tutto normale: facciamo musica nostra, la facciamo bene, quindi è giusto che partecipiamo a certe manifestazioni. Non abbiamo fatto mai niente per promuoverci, pensavamo che bastasse suonare. Ovviamente non avevamo capito un cazzo di management.”