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“Epocale”. La musica delle alte sfere

Non c’è alcun dubbio riguardo all’aggettivazione: si tratta proprio di un’altra riforma epocale, anche perché così se l’è definita il Ministro.

Con i governi Berlusconi si fanno solo cose epocali…, o non se ne fa nulla!

Dopo quella – pur essa “epocale” – della Brichetto Arnaboldi, (ai più nota col cognome del marito, tal Moratti), i tempi son di nuovo maturi: l’evo muta ancora.
Dopo più di mezzo secolo di quasi totale glaciazione, oggi nella scuola le ere si susseguono affannosamente accavallandosi l’una sull’altra. Dalle tre “i” per un solo alfabeto, che contrassegnavano i tempi delle vacche grasse, si passa alle odierne – epocali – vacche magre gelminiane: niente “i”, in tempo di crisi.
E meno “a”, meno “b”, meno “c”…

Ma, soprattutto, niente “m”!
La musica è completamente sparita da tutti gli indirizzi della scuola superiore.
Ma come? E il liceo musicale, il fiore all’occhiello dell’epocale?

Il Corriere della sera di sabato 10 aprile intitola un suo articolo sul fondo della prima pagina “Il liceo musicale fa il tutto esaurito”. Poi, offrendo la spalla alla réclame di governo, scrive: “Molto bene lo scientifico senza latino. Così così il nuovo artistico. Tutto esaurito al musicale e al coreutico […]”.
Ventotto licei in tutta Italia, per una disponibilità di massimo ottocento posti su una platea di più di cinquecentomila studenti in uscita dalla scuola secondaria di primo grado: solo uno studente e mezzo su mille può ambire a frequentare una prima classe di liceo musicale.
Sarebbe una notizia da prima pagina se “non” ci fosse il tutto esaurito!

Eppure a pagina 31 dello stesso numero del Corriere, si fa dire ad Harding (il celebre direttore d’orchestra) che “l’Italia è all’avanguardia”. Ma proseguendo nel testo, Harding afferma poi: “So quanto sia importante lo spazio riservato alla musica nella cultura italiana e questo per me è sempre stato fonte di ispirazione […]. Senza musica non esisterebbe cultura […]”.

Appunto: in Italia nel prossimo anno scolastico, con tutta questa musica, avremo dunque uno 0,16 per cento di cultura (non in più, in totale: tale è la percentuale ottimistica dell’incidenza del Liceo musicale nel panorama delle scelte possibili). Maestro Harding: è questa l’Avanguardia che tanto ci invidia?
In compenso non si sanerà assolutamente l’ignoranza musicale degli altri licei: si è anzi provveduto ad eliminarne l’insegnamento dall’unica scuola secondaria superiore in cui resisteva, il liceo psico-pedagogico.

E così, per esempio, il futuro studente del Liceo artistico ad indirizzo audiovisivo (si noti l'”audio”) e multimediale non dovrà naturalmente acquisire competenze musicali specifiche. Ma perché mai dovrebbe?, son tutti capaci di suonarsi quattro accordi sulla chitarrina o di strimpellare sulla tastiera le prime tre note di “Per Elisa”.
La musica è come le escort: poco dignitosa; se la si vuole, che la si paghi.
Non è necessaria. È un di più. Da tenere nascosta. Tutt’al più un riempitivo pubblicitario.

E pensare che a noi, delle basse sfere, bastava per esempio che si facessero funzionare i Laboratori musicali territoriali: opportune convenzioni tra gli Istituti superiori di una determinata area geografica avrebbero permesso la diffusione della cultura musicale ben oltre la torricciuola d’avorio di questo Liceo musicale. Qualsiasi studente di scuola superiore avrebbe potuto arricchire il proprio curriculum accedendo ad una struttura che non aveva bisogno di essere inventata ex-novo, ma solo di essere organizzata ed integrata nel complesso dell’istruzione secondaria.

Certo, alla base di tutto c’è anche l’arrogante presunzione che qualsiasi innovazione possa essere “senza oneri aggiuntivi”: tutti son capaci di far belle cose spendendo e spandendo.
Ma in tal caso non sarebbero certo cose “epocali”!

E a quelli delle alte sfere interessano solo le egregie cose capaci di eternare il loro nome nella memoria dei posteri: tra qualche anno – nell’epoca prossimo-ventura che già incalza – il nome di Beethoven sarà definitivamente scomparso e finalmente potrà sovranamente brillare, nella sfera più elevata, quello di Maria Stella!

Noi potremo solo uscire a guardare, muti e attoniti, là in alto.

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“Werckmeister harmóniák” di Béla Tarr

Per la consueta rubrica di cinema, voglio parlare di un regista a mio avviso imprenscindibile nel panorama europeo contemporaneo, poco noto ai più, ma molto amato tra critici e cinéphiles.
Béla Tarr, classe 1955, ungherese di Pécs, da anni persegue l’ideale di un cinema alternativo ai prodotti di largo consumo.

E lo fa scardinando tutte le regole base di ciò che il mercato oggi per lo più propone, e cioè:

  • evitando le trame semplici e prevedibili  od eccessivamente bizzarre ed arzigogolate di molte supposte “pellicole originali”;
  • evitando l’utilizzo di dialoghi e linguaggi eccessivamente banali ed elementari (talora anzi si dilunga in citazioni poetiche);
  • evitando di ingaggiare attori famosi o presunti tali, la cui capacità di recitazione è spesso  inversamente proporzionale all’aspetto fisico; e anzi privilegiando gli sguardi duri, brutti ma espressivi di intepreti sconosciuti ai più;
  • evitando l’utilizzo smodato di effetti speciali per inebriare lo spettatore,  se non se ne sente l’esigenza;
  • utilizzando una fotografia in bianco e nero, fatta più di neri che di luci, più di nascosti che di evidenze, più di naturalezza che di artificiosità;
  • evitando tassativamente quella regia da videoclip per la quale lo spettatore rimane colpito più dalla velocità e sequenzialità delle scene che non dalla cura delle stesse; prendendosi dunque tutto il tempo necessario alla costruzione di riprese estremamente lunghe e complicate.

Stanti tali premesse, l’obiettivo del presente articolo è facilmente desumibile: è possibile trovare (ed è auspicabile cercare) una tipologia di film che abbiano maggiore spessore intellettuale di quelli che vanno per la maggiore.
“Le Armonie di Werckmeister” terza opera del succitato Béla Tarr, è sicuramente una delle possibilità da prendere in considerazione.
In questo lavoro si concentra infatti tutta la poetica precedente del regista (che, ricordiamolo, è autore anche di “Satantango”, dell’epica durata di 7 ore e mezza), e si esplicita attraverso 39 -bellissimi- piani sequenza per una durata complessiva di 145 minuti.
All’interno di questi “long-takes” la macchina da presa si distingue per eccellenza e maestria, riprendendo  avvenimenti complessi e frastorna(n)ti con un’abilità tecnica ed una consapevolezza che ha pochi eguali nella storia del cinema (vedi alle voci “Orson Welles”, “Stanley Kubrick” o “Alfred Hitchcock”).
La trama in breve: in una piccola città di provincia ungherese giunge un piccolo circo che ha due uniche attrazioni: un’enorme balena imbalsamata e un misterioso nano chiamato “il Principe”.
Nella solitudine del suo studio György Eszter studia una teoria musicale che vuole sovvertire l’ordine armonico stabilito nel ‘700 da Andreas Werckmeister.
János Valuska, il ragazzo che consegna i giornali, fa la spola tra lo studio del musicista e la piazza del mercato dove il Principe incita i frustrati e poveri abitanti alla distruzione di tutto.
Una notte la furia divampa e qualcuno ne approfitta per prendere il potere.
Detta così, e di fronte all’universalità anche politica di una trama che tange sia i percorsi esistenziali che le emozioni più profonde dell’uomo, ci si ritrova a condividere con il regista sia la tematica del progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali che l’inevitabile consapevolezza, come cittadini, della propria “riduzione in schiavitù”: temi quanto mai portanti dei nostri  tempi (ed il film è del 2000).
L’autore non lesina nel rappresentare l'”hobbesiana” sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ma la violenza che ne scaturisce è quasi catartica: non a caso una delle scene madri della pellicola è costruita come una sequenza a la “Metropolis” di Fritz Lang.
Ed è direttamente a noi spettatori che egli si rivolge quando tocca punte di lirismo visivo che letteralmente spiazzano,  costringendoci a riflettere sull’insensatezza delle nostre azioni. Non è un’opera a tesi, ma è impossibile non cogliervi un riferimento universalistico.

Un decennio cinematografico che produce un capolavoro come questo è un decennio che merita di essere vissuto.

P.S. Consiglio ai (potenziali) spettatori: se la sequenza iniziale non vi cattura sospendete senza remore la visione, non vi si confa.

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Mail Art Project a Portogruaro

L’ 8 Maggio 2010, l’arte postale è giunta a Portogruaro, o meglio, si è mostrata: in circa sei mesi sono arrivate dai quattro angoli del mondo 475 opere, per un totale di 335 partecipanti. Tutti i lavori pervenuti sono la risposta ad un invito, Mail Art Call Portogruaro 2010: Limite, Scambio, Segno. Tre parole chiave che intendono racchiudere la storia e l’anima stessa di Portogruaro, in quello che è un omaggio alla città. Il titolo nasce da una riflessione sulle particolari caratteristiche del luogo, fondato sulle rive del fiume Lemene, limite geografico, fonte di scambi commerciali, segno distintivo del territorio. Questi concetti, certamente legati a questa terra, hanno lasciato libero spazio di indagine alle più diverse interpretazioni artistiche.

Attraverso l’invio di centinaia di e-mail ad altrettanti artisti di tutto il mondo con l’invito a partecipare al progetto (in gergo “call”), l’Associazione culturale Rizoo ha raccolto quasi 500 opere d’arte (dipinti, fotografie, disegni, grafiche,…) dedicate a Portogruaro e inviate una ad una per posta ordinaria, riuscendo, in un certo senso, a generare una sintesi tra le due forme (elettronica e fisica) di servizio postale.

Per capire meglio la natura di questo progetto è bene conoscere alcuni cenni storici sulla Mail Art: è uno dei più longevi movimenti artistici della storia, che affonda le sue radici nel movimento Fluxus (e sull’idea di “multipli”, ovvero opere d’arte prodotte in serie), oltre che nell’opera dei futuristi (i “collaggi” postali di Ivo Pannaggi, 1920). Una rete eterogenea e non gerarchica di Mail artisti, composta da migliaia di partecipanti provenienti da oltre cinquanta paesi, si è evoluta dagli anni ’50 agli anni ’90 a partire dall’opera di Ray Johnson. Proprio dal gruppo Fluxus proviene l’americano Johnson, che nel 1962 realizzò il primo esperimento di Mail Art, Add to and return to, inviando per posta i suoi lavori in tutto il mondo. Johnson fondò la New York Corrispondance School of Art (Scuola d’arte “per corrispondenza”) nella quale non solo gli elaborati spediti, ma buste, francobolli e timbri finirono per confluire nell’operazione artistica.

L’Arte Postale è uno straordinario circuito a cui fanno parte artisti di tutto il mondo, i quali utilizzando la posta inviano le loro opere per aderire a progetti internazionali a tema, senza alcun condizionamento di critica e di mercato: ogni opera è un dono. Le tecniche e i mezzi impiegati, sono tra i più vari, cartoline, timbri e francobolli autoprodotti, buste decorate o illustrate, tele, collage, poesie e componimenti. Tutto all’insegna della più totale libertà espressiva e tecnica.
I Mail artisti sono stati tra i primi a percepire e sfruttare le possibilità di diffusione del World Wide Web quando apparse nel 1992 portando la novità della grafica rispetto all’Internet precedente, basato principalmente sul testo. Ma allo stesso tempo, Internet non offriva niente di nuovo a questi artisti (non essendo certo possibile spedire oggetti tramite la rete). I Mail artisti, come i graffitisti, spesso lavorano anonimamente o collettivamente usando pseudonimi.

Al progetto rivolto a Portogruaro hanno partecipato artisti provenienti da 31 Stati con una adesione che rispecchia la diffusione della Mail Art stessa. I Paesi che annoverano più Mail artisti sono l’Italia, la Germania, la Francia e gli Stati Uniti.
In Italia si possono citare molti artisti che hanno aderito a questa forma d’arte negli anni come Piermario Ciani, Vittorio Baccelli, Enrico Baj, Vittore Baroni, Guglielmo Achille Cavellini, Anna Boschi e Pablo Echaurren. Tra questi, Baroni e Boschi hanno partecipato al progetto su Portogruaro, quest’ultima è una tra le maggiori esperte e studiose dell’argomento; senza dimenticare la partecipazione e la collaborazione di Tiziana Baracchi, nata a Venezia, Mail artista affermata, che partecipa a mostre in Italia ed all’estero, sia in spazi ufficiali che alternativi. Alcune sue opere sono conservate in musei e collezioni private di tutto il mondo ed è stata invitata alla Biennale di Venezia (2003 e 2005) e quella di Londra (2004 e 2006). E’ soprattutto alla sua esperienza pluriennale e alla sua conoscenza personale del circuito internazionale, che questo progetto ha visto la partecipazione di artisti di rilievo provenienti dai posti più lontani del mondo.

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Un poeta: Giancarlo Pauletto

(Portogruaro, 1941)

Batti quietamente
sillabe nel giorno
mite al suo tramonto
e forse lieto della tua impotenza
agiti parole
(ma grida la sua fame
la primigenia cellula
che ingloba e sputa, ingloba e sputa
atrocemente).

Questa luce che si sgrana da altra
luce, riverbera negli occhi una bellezza
che la mente contraddice,
la mente che recide le parole
e in serti le compone
(eppure
è fragile la mente, cede al vino
e al sonno, è una grazia
intermittente, che da sé
muore e risorge).

Si rompono talvolta le parole
come vetri, non la loro
musica ci manca, sì una stella
che le guidi.

Di questo sempre sono in traccia
esse, le sonanti: di una fede
provvisoria che mai stanca
al nulla le contesti.

A cosa si oppone la nostra
parola, veccia, voce di canna:
alle grida di guerra?
alla tortura?
alla morte che latra?

È una dura impotenza, un cruore.

Ma parla, parliamo.

da “Una dura impotenza”, Edizioni Concordia Sette

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La Casa delle Bambole

Spettacolo di teatro-danza nel Giorno della Memoria 2010

Oratorio Giai di Gruaro – 29 gennaio 2010

Immagini, parole e musica. Questi gli ingredienti che, dosati saggiamente e con estremo equilibrio, hanno generato, venerdì 29 gennaio 2010 nella sala dell’oratorio di Giai di Gruaro, una piccola grande opera d’arte.
Nell’ambito delle manifestazioni per i “giorni della memoria”, l’Associazione Culturale “La Ruota” di Gruaro, in collaborazione con Arte Danza Portogruaro, ci ha offerto “LA CASA DELLE BAMBOLE”: uno spettacolo di “teatrodanza” con testi curati da Mariella Collovini, recitati dalle bellissime voci degli attori Filippo Facca e Angela Perissinotto, accompagnati dalle danzatrici-attrici Tiziana Passoni e Michela Silvestrin e dal violino e violoncello di Laura Bortolotto e Leo Morello. Il tutto amalgamato dalla splendida coreografia di Serenella Fonzar.

La rappresentazione trattava un argomento poco proposto della tragedia nazista: la violenza perpetrata su giovani donne, anche non ebree, che venivano rapite per essere trasportate nei campi di concentramento a svolgere l’umiliante compito di prostitute. “Puttane da campo” venivano chiamate, utilizzate dai soldati delle SS come oggetto di piacere, per dare sfogo alla loro disgustosa aggressività e sottoposte a violenze di ogni sorta. Venivano strappate alla loro vita quotidiana, ai loro affetti più cari e gettate improvvisamente nel buio più nero dell’annullamento della loro persona, del saccheggio del loro corpo, della distruzione della loro dignità di donne; non avevano più nemmeno un nome, ma solo un numero. Usate per brutali esperimenti di farmacologia, chirurgia e genetica, venivano poi spesso uccise, come accade alla fine della rappresentazione alla piccola “bambola” che cerca la fuga dal campo di concentramento, ma viene colpita dal cecchino di turno come fosse una preda di caccia, un colpo di fucile sparato ad un uccellino che cerca la libertà dalla gabbia in cui è stato brutalmente rinchiuso. Abusi sulle donne quindi, argomento purtroppo di attualità se pensiamo a quante donne oggi subiscono violenze gratuite, e con minacce di ogni tipo vengono avviate e costrette al mercato del sesso.

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L’età di Courbet e Monet

A Villa Manin si sta svolgendo una mostra, a mio parere, molto interessante.
Essa ha un preciso obiettivo: mettere a confronto dipinti francesi con quelli di vari paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est, evidenziandone legami ed influenze.
Per sviluppare meglio quest’intento la mostra non è stata divisa per nazionalità degli artisti ma per tematiche: 1) boschi e campagne, 2) città e villaggi, 3) acque, 4) nevi, 5) ritratti e figure.
Realismo e Naturalismo prima e l’Impressionismo poi, sono il punto di partenza dell’esposizione, che sottolinea gli spunti che questi movimenti artistici portarono nelle grandi capitali europee come Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Monaco, Zurigo, Vienna, Mosca, San Pietroburgo, Varsavia, Praga, Budapest e Bucarest. Queste suggestioni arrivavano in Europa centrale e orientale attraverso viaggi di pittori a Parigi, mostre che portavano nelle città le opere degli artisti francesi, o quadri che venivano realizzati come testimonianza da chi a Parigi c’era stato e voleva trasmettere ciò che aveva visto.
Questo però non significa assolutamente che i pittori francesi siano stati  semplicemente copiati, ci fu invece un vero e proprio dialogo che permise anche alle particolari e affascinanti caratteristiche nazionali di emergere.
L’esposizione, ha, a mio parere, il pregio di rendere affascinante questo viaggio nella pittura europea della seconda metà dell’Ottocento, poiché rende un percorso abbastanza noto, come può essere quello che parte dal Realismo e dal Naturalismo e arriva all’Impressionismo, originale e non scontato. E lo fa esponendo opere di artisti sicuramente poco conosciuti alla maggior parte dei visitatori, che però hanno dato un grande contributo alla pittura, come nel caso di Ensor.
La mostra in sostanza indica quali furono le basi che servirono allo sviluppo dell’Impressionismo.
Esaminiamo le tappe di questo percorso.
Il Realismo parte dal fatto che, a metà dell’800, l’incontrollato processo d’espansione industriale appunta l’attenzione verso nuove tematiche come la natura e la vita quotidiana. Courbet, Daumier e Millet, i maggiori esponenti del Realismo, fanno diventare protagonisti dei loro quadri le classi più umili, cercano di far riflettere sulle conseguenze dello sviluppo industriale e sottolineano che esso non aveva solo aspetti positivi, come si voleva far credere, richiamando l’attenzione ad esempio sulle campagne, che in quel periodo si stavano spopolando.
Il Naturalismo invece parte dal presupposto che il paesaggio elaborato in studio non bastava più. I pittori a poco a poco presero a volere un contatto diretto con la natura, rinnovando la tecnica pittorica per catturare impressioni sempre più passeggere. La scuola di Barbizon ne è l’esempio per eccellenza. Questa iniziò nel 1830 quando in un villaggio, Barbizon appunto, poco fuori da Parigi, vicino alla foresta di Fointainbleau, alcuni artisti cominciarono a dipingere dal vero la natura incontaminata di quei luoghi, seppur ovviamente continuando a perfezionare le loro opere in studio.
Presto la scuola di Barbizon divenne sinonimo di idillio con la natura, dove l’uomo e gli animali vivevano insieme e le persone non erano  contaminate dalla vita della città moderna. Corot, Daubigny, Troyon, Dupré e Rousseau, i maggiori esponenti di questa scuola esprimono nei loro quadri l’intensità delle emozioni che si possono provare davanti a un paesaggio.
Lo sviluppo naturale di questi due movimenti fu l’Impressionismo. Questo movimento continua le ricerche e le sperimentazioni dei primi due arrivando a una pittura completamente nuova, immediata e veloce. Dipingendo “en plein air”, cioè all’aria aperta, i pittori impressionisti capiscono che l’occhio percepisce un insieme di colori che varia con il mutare della luce. Questo portò alla comprensione delle infinite possibilità di dipingere lo stesso soggetto, in base alla diversità di luce e di impressione. La pittura di questi artisti infatti proprio per rendere la complessità di visione che si presentava davanti ai loro occhi, avevano bisogno di alcune tecniche particolari, come l’uso dei colori complementari, l’abolizione dei toni grigi, del disegno e del chiaroscuro. Per questo  motivo i dipinti di Manet, Monet, Degas, Rousseau e di tutti gli esponenti dell’Impressionismo non furono mai accettati dagli esponenti della pittura tradizionale rappresentata dal Salon, ma anzi essi furono derisi quando gli impressionisti organizzarono la loro prima mostra nel 1886 nello studio di Nadar; ed è proprio da un articolo di un critico che nasce il termine “Impressionismo” usato con connotazione dispregiativa.
Qui si conclude il nostro viaggio di introduzione alla mostra, che consiglio caldamente di visitare.

Per ulteriori informazioni: www.villamanin-eventi.it

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Un poeta: Romano Pascutto

(San Stino di Livenza, 1909 – Treviso, 1982)

INSOGNO AZURO

Ancùo son contento, vorìa far ‘na poesia
liziera come l’è ‘sto primo sol de istà
che’l s’ha levà bonora e de bona voia
come ‘na massera che spalanca i veri
a l’aria pura. Ma la pena resta ferma,
el folio bianco, la volontà se nina
fra el far e no far,pian,pianpianìn,
in un insogno azuro. Anca mi ancùo
me sinte drento come ‘na massera
che slarga i brassi e la se senta
dopo che l’ha netà tuta la casa.

CO POCHE PAROE

Co poche paroe far poesia granda
come’l sass co s’cioca su l’acqua
e po’ conta le onde che’l manda.
No far ciasso e gnanca pianzere
come l’è le robe de ‘ sto mondo
che manco le ziga pi’ le è vere.

TEMPO DE BRUMESTEGHE

Me alze co’l scrinzèt.
Come lu me sinte picinin,
ma manco de lu contento
in ‘sto mondo cussì grando.
Lu sora ‘na rama el canta,
mi tase rampegà co fadiga
su ‘sto scaràzz de la vita
che sbrega braghe e cuor.
L’è tempo de brumesteghe,
de costioe roste de porçel
e de vin novo che speta
el Nadal par farse ciaro,
de caivi fissi che sconde
i monti e lustra i copi.
El sol riva a tera tamisà
sul formento morto de fredo.
L’è ora de pensar al caivo
Grando, co i oci se sera
Par sempre e la brumestega
Se ferma là sora ‘na piera.

I DISE

I dise che son un omo tranquilo
e ghe someie al most che boie
ne le brente, a la scorza de vida
che se spaca sora l’ocio primariol,
a la zopa de tera rosa de butoe
taiade a metà, che fùmega al sol.
Son mi busier o’st’ altri mone?
Cossa conta? L’importante l’è viver
Senza tradir el zorno che se nasse,
come vermeti che i metarà le ae.

SERA DE ISTÁ

I pra’ no basta a tegner tute l sol
che’l se ingruma al de qua de i monti
e fraca le palade, impignisse i fossi,
pica recini de oro su le foie de vida.
Un tochèt de specio roto fa ‘ na casera
E po’, vanti che vegna scuro patòch,
l’è un momento che’l mondo se slarga
e el cuor se strenze parchè ghe stemo
drento orbi e senza ae come i notoi.

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Il vescovo e il ciarlatano. Omaggio alla musica popolare

Ma da qualche tempo è difficile scappare / c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare / è dolce, ma forte e non ti molla mai /è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai / E’ la musica, la musica ribelle / che ti vibra nelle ossa / che ti entra nella pelle / che ti dice di uscire / che ti urla di cambiare / di mollare le menate /  e di metterti a lottare.

[Eugenio Finardi, “La musica ribelle”, da “Sugo”, 1976]

Ha da poco compiuto un anno di vita un gruppo musicale che ha fatto dell’esperienza live la propria ragione d’essere: IL VESCOVO E IL CIARLATANO.

Questo progetto unisce già nel nome (scippato dall’omonimo saggio di psicologia di Giorgio Manganelli) le due forze che lo muovono, strettamente legate alla materia trattata: la musica popolare e cantautorale del nostro Paese, per lo più prodotta dalla fine di quel lungo decennio che parte dal 1968, e che vide l’Italia tutta, scossa da fremiti di ogni tipo. Musica che si fa veicolo di infinite istanze, con la precisa consapevolezza che non ci sono confini tra l’essere artisti e l’esercitare il diritto ed il dovere di prendere posizione, di farsi portavoce. E’ questa l’anima più seria, impegnata, rispettosa delle fonti e degli intenti. Il repertorio che propongono è molto vario da questo punto di vista: da Fabrizio De André ad Alberto Fortis, da Rino Gaetano ca Ivan Graziani, a Battiato, Fossati. Senza rinunciare ad incursioni in territori solo apparentemente più leggeri, quali pezzi di Cocchi e Renato, o di Elio e le storie Tese, per esempio. Sono canzoni che raccontano, esaltano, ironizzano, provocano, ma che mai rinunciano e dare giusta importanza alle parole, che sono, sempre e nonostante tutto, veicolo di messaggi, a volte di critica sociale.

La seconda anima è quella più giullaresca, conviviale, rumorosa ed improvvisata, spontanea, il concerto. E’ questo il momento in cui si fanno attori di un antico mestiere: usare il proprio corpo e la propria energia come catalizzatori di un momento topico dello stare insieme, il coinvolgimento totale. In poche parole, via i freni e si canta, meglio se davanti ad un bicchiere di vino rosso.
Alfieri delle proprietà terapeutiche e fraternizzanti della musica, in un crescendo di interventi ai confini dell’avanspettacolo, ogni loro esibizione si trasforma presto in una festa in cui sono tutti chiamati a contribuire. Per questo prediligono suonare in locali contenuti e “caldi” come osterie e birrerie, ed in sagre e feste paesane; il confine tra il loro spazio d’azione e quello di chi hanno davanti non ha ragione d’esistere, riconoscendo, tra il serio ed il faceto, la giusta dignità ad entrambi.

Nato come una scommessa tra amici – presto sfuggita di mano – il progetto vede coinvolti inizialmente Loris Cusan alla voce (alla sua prima esperienza in formazione, vera sorpresa in continua crescita) e Gian Marco Orsini alla chitarra (figura mitologica della  storia musicale del portogruarese, ricordiamo fra le tante la militanza nei leggendari Neurox negli anni Ottanta e nel Monica Guareschi Group nei Novanta). Il passaggio di quest’ultimo al basso acustico avviene  contestualmente all’entrata prima di Claudio Barro (compagno inseparabile di Orsini in innumerevoli avventure musicali e in quella della fondazione di Woodstock Music Village, una della realtà musicali più vive e solide d’Italia) che si posiziona alle chitarre; poi di Flavio Di Nardo (che vanta la partecipazione in molteplici ed eterogenei progetti musicali) alle percussioni; e di Michele Marchesan (dalla lunga e prestigiosa carriera bandistica) alla fisarmonica.

Ma IL VESCOVO E IL CIARLATANO è una creatura viva, in continuo divenire, per sua stessa natura aperta alla collaborazione. Niente di cui stupirsi se una sera vi troverete proprio voi dietro un microfono a cantare “…ma il cielo è sempre più blu…”.

Alzati che si sta alzando la canzone popolare / se c’è qualcosa da dire ancora / se c’è qualcosa da fare / alzati che si sta alzando la canzone popolare / se c’è qualcosa da dire ancora, ce lo dirà / se c’è qualcosa da imparare ancora, ce lo dirà.

[Ivano Fossati, “La canzone popolare”, da “Lindbergh”, 1992]

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Fotografia contemporanea emergente: Valentina Brunello

All’interno del progetto Spazi Pubblici Arte Contemporanea (SPAC), la Neo Associazione Culturale, con sede a Buttrio (Ud), ha proposto a partire dal 7 novembre 2009 la mostra “Specchio Specchio delle mie Brame chi è il più Artista del Reale?”, riflessione sul recente lavoro di alcuni tra i più interessanti artisti visivi operanti in Friuli Venezia Giulia.

Per i quattro sabati consecutivi del mese di novembre, dal 7 al 28, gli appassionati d’arte contemporanea, o anche semplicemente curiosi o amanti dei siti storico-artistici della regione, hanno potuto seguire le fasi d’inaugurazione della mostra. Alcune tra le opere più significative prodotte in regione negli ultimi dieci anni sono state rivisitate nel contesto di palazzi, ville, castelli: nella settecentesca Villa Di Toppo Florio a Buttrio (Ud) dal 7 novembre al 6 dicembre, in Palazzo Orgnani – Martina a Venzone (Ud) dal 14 novembre al 6 dicembre, nel medievale Castello di S.Pietro a Ragogna dal 21 novembre al 20 dicembre e a Palazzo Locatelli (Museo Civico del Territorio) a Cormòns (Go) dal 28 novembre al 27 dicembre.

Il comune denominatore degli undici artisti presenti in mostra, al di là dell’appartenenza generazionale, di corrente, ecc, è la costante attenzione alle contraddizioni del presente e l’inequivocabile emergenza, nelle loro opere, di forti segni della contemporaneità; a presentarli, altrettanti curatori, critici, organizzatori culturali, giornalisti.

In questa direzione ho scelto di esporre il lavoro della fotografa Valentina Brunello, vincitrice nel 2008 del secondo premio al concorso ManinFesto, indetto dal Centro d’Arte Contemporanea Villa Manin di Passariano (Ud), con la direzione artistica di Francesco Bonami. L’artista nasce a Gorizia nel 1970, dove tuttora vive e lavora; parallelamente agli studi in architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, approfondisce l’interesse per la fotografia, sviluppando diverse tematiche che vanno dal paesaggio al ritratto.

Sin dai primi scatti analogici in bianco e nero, la sua attenzione è rivolta principalmente ai soggetti architettonici e al paesaggio urbano; in sintonia con il proprio percorso di studi è portata ad osservare gli elementi particolari e dettagliati che connotano lo spazio delle città, e all’interazione dell’uomo con essi. Da questi concetti nascono la serie in bianco e nero Segni urbani, e quella a colori Frammenti urbani.
Se in questi primi due lavori la presenza dell’individuo è fisicamente assente, nella serie in bianco e nero Street photo, realizzata in parallelo a Frammenti urbani, le persone diventano quasi sempre le protagoniste, colte in attimi di vita nella relazione naturale con gli spazi circostanti.

Da questa ricerca rivolta all’uomo, i suoi interessi si sono indirizzati verso il tema del ritratto con la serie Ritratti (Tracce) che mostra volti e corpi sfuggenti, rarefatti ed isolati da qualsiasi contesto. Successivamente si è rivolta al ritratto di famiglia, analizzando le tematiche dei rapporti interpersonali, in particolare tra madri e figli. Proprio quest’ultimo progetto, Interno di famiglia, ha messo in risalto le doti della fotografa, portandola ad ottenere il secondo premio al concorso ManinFesto – Fotografia in Friuli Venezia Giulia del 2008 (Villa Manin Centro d’Arte Contemporanea, Passariano-Codroipo, Udine).

Il progetto nasce da una ricerca rivolta alla maternità e al rapporto che si viene a creare tra la madre e i propri figli. L’artista irrompe delicatamente nelle abitazioni private di amici e conoscenti, mantenendo un distacco rispettoso nei confronti di questi luoghi così intimi, in cui ogni oggetto e ogni spazio è il riflesso delle personalità di chi lo abita. Ne risulta un’indagine socio-antopologica sul tema della famiglia, dove è inevitabile per il fruitore spingersi a ricercare le relazioni tra i diversi soggetti ritratti, i rapporti che intercorrono tra loro e il background di ogni nucleo.

Nelle serie fotografiche realizzate dall’artista non vi è alcuna finzione nel senso cinematografico del termine, non esiste sceneggiatura, non vengono create delle sovrastrutture ideologiche; vi è una sensibile aderenza alla realtà, in una narrazione che non può essere compresa e vissuta se non per esperienza diretta. Un genere di analisi documentaria, che testimonia la consapevolezza e l’attenzione della fotografa alla riflessione sul proprio tempo.

Una maturità artistica quella di Valentina Brunello alimentata da una naturale e costante ricerca, che è in primo luogo una risposta ad una necessità ed esigenza personale; in equilibrio tra introversione e disincanto si relaziona con curiosità allo spazio che la circonda e a come questo diventi habitat e specchio dell’uomo, in un continuo e perenne scambio a cui nessun individuo può sottrarsi.

Documentazione on line:
per la mostra: www.spacfvg.it
per l’artista: www.valentinabrunello.eu

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“Antichrist” di Lars Von Trìer

Impossibile prescindere dal regista per parlare di questo film.
Lars Von Trier: cosa dire su quest’uomo che non sia già stato detto? Provocatore, genio, venduto al mercato, fallito, arrogante, pervertito…
Personaggio quantomai controverso, fuori dagli schemi del sistema filmico, ma contemporaneamente così addentro al sistema filmico da capire perfettamente quali leve toccare per promuovere i suoi lavori. Le sue poliedricità ed irriverenza, la sua ossessione per le regole, la sue fobie, ne fanno un artista che spicca per meriti (ha contribuito a risollevare l’asfittico cinema danese degli anni ’90 e posto le basi per un certo tipo di cinema europeo, vedi i fratelli Dardenne), ma che nel contempo lo rende insopportabilmente autoreferenziale ed arrogante.
Von Trier è un dandy moderno, nel senso più ampio del termine, ma anche un’artista fondamentale e non trascurabile del panorama cinematografico europeo, che ad ogni opera innova e rinnova il proprio stile, non lesinando di chiedere uno sforzo allo spettatore che si avvicini alle sue produzioni.
Tutto ciò è quantomai valido per l’ultimo suo film: “Antichrist”, presentato alla 62esima edizione del Festival di  Cannes (2009) e che pur suscitando ilarità in parte del pubblico, rappresenta fuor di dubbio una summa del cinema e della psicologia del “personaggio” Lars Von Trier, indubbiamente mai così a nudo.
Non a caso il film è stato presentato anche come il racconto catartico del periodo di depressione del regista.
Ed infatti quello che viene messo in scena in “Antichrist” è un vero e proprio percorso psicanalitico, sia per la presenza del personaggio “lui” (psicoanalista che tenta di curare la moglie), sia perché carico di figure dell’onirico e dell’inconscio, di simbologie biblico-cristiane, di superstizione medievale (forse l’elemento più debole, in verità), e finanche per la precisa divisione della pellicola in momenti distinti e conseguenti: prologo, quattro capitoli (dolore, pena, disperazione, i tre mendicanti), epilogo.
Partendo dal canovaccio di una coppia che perde un neonato a causa della propria sventatezza e dal dolore provocato da questa perdita e dal tentativo di superarlo affrontandolo quanto più possibile in maniera razionale, Von Trier affronta i temi tipici del suo cinema, ma lo fa in una maniera più “candida” del solito: il dolore, la violenza, la giustapposizione tra i generi maschile e femminile, l’ipocrisia della coppia, il viaggio come ricerca inevasa di pace, sono qui rappresentati come una sorta di “fenomenologia dello spirito” inversa, tramite la quale perdono via via di senso concetti come “umanità” e “speranza”.
Infatti i protagonisti, diventati simboli di questa diarchia tra l’uomo e la donna, ma anche tra l’utopia che la razionalità possa vincere sull’animalità dell’essere umano, perdono via via l’uno nell’altra la compiutezza della propria esistenza, svelando finalmente l’ipocrisia che mina la loro vera natura.
Se quindi il tema principale dovrebbe essere quello dell’elaborazione di un lutto, Von Trier in realtà mette in scena l’essere umano, ed in particolare le seguenti tematiche: il rapporto controverso con e per le donne, l’ossessione disturbante del sesso, la trivialità e violenza intrinseche nella psicologia umana, l’angoscia per l’inevitabile divenire, la spinta alla mutilazione genitale ed all’autolesionismo come riscatto dalla debolezza delle carni.
In questo senso il film è disperatamente violento, un colpo allo stomaco, ma non per la presenza delle pur abbondanti scene di violenza, orrore o sesso (nelle quali peraltro non viene risparmiato nulla), quanto per il progressivo ed inarrestabile disvelamento della natura umana che viene messo in atto: a precipitare nella follia dei “tre mendicanti” (dolore, pena, disperazione, per l’appunto) non sono solo i protagonisti, ma siamo noi in quanto “umanità”.
In tale ambito vengono altresì inseriti: il rapporto conflittuale casa/natura, l’eterno contrasto tra pulsione, desiderio ed i costrutti razionali dell’individuo, il rifiuto del proprio corpo e del corpo di donna in particolare, la visione della maternità come dannazione, insomma in questo film ci sono tanti e tali spunti di riflessione che l’elenco potrebbe essere lunghissimo e l’analisi sconsideratamente prolissa.
Infine almeno un cenno è necessario fare al contrasto tra la sublime fotografia curata da Anthony Dod Mantle e le scene più crude, all’uso del rallenty a sottolineare i momenti più liricamente elevati, allo splendido bianco nero che caratterizza il prologo e l’epilogo, all’azzecatissimo uso dell’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel; sta di fatto che Antichrist è il film tecnicamente meglio realizzato e diretto dal regista danese. Il punto però è che il livello di impegno richiesto per la visione è tale che è facile indurre lo spettatore al rifiuto dell’opera. La normale “sospensione dell’incredulità” non è infatti qui necessaria, perché da subito il “patto artista-pubblico” è: o mi segui per tutto il tempo, fino in fondo, o prendi tutto come un’immane, grottesca scemenza ed allora è meglio che non prosegui oltre. Una sorta di “patto di fede”, anche se ciò che ne segue è veramente l’anticristo: siamo soli, non c’è salvezza, non c’è speranza.
Ancora una volta Von Trier spiazza tutti e costruisce un film profondo, impermeabile alle critiche. Film dell’anno 2009.

P.S. Magnifici (e coraggiosi) gli attori: il premio a Cannes per la migliore intepretazione femminile a Charlotte Gainsbourg è ultra-meritato!

scheda film su IMDb