Il past (il pranzo di nozze)

Le cosce, il petto, le ali del pollo o dell’oca, o dell’anatra, o della faraona andavano fatte arrosto; il corban (così si chiama nel nostro dialetto la schiena del pollo) invece lo si faceva in umit sec, seguendo questa ricetta: si preparava un soffritto di cipolla e strutto, si faceva rosolare bene, si aggiustava di sale e di pepe, si sfumava con il vino bianco; si aggiungevano carote, sedano, salvia, rosmarino e aglio e, a metà cottura, un cucchiaino di conserva di pomodoro, diluita in acqua o brodo; si cuoceva fino a che non restava nessuna traccia d’acqua; il fondo di cottura assumeva un colore rosato, a causa della conserva di pomodoro. I corbans, così preparati, venivano mangiati alla sera, per cena.

Per l’arrosto si disponevano i pezzi nel tegame con sale, rosmarino, salvia e aglio, burro e pepe, fettine di lardo, vino bianco e acqua; si copriva il tegame con un coperchio e si metteva a cuocere, poi, una volta assorbiti vino ed acqua, si toglievano gli odori e si infornava per una croccante doratura.

Il lesso, doverosamente misto (gallina, tacchina, e a volte, manzo), richiedeva una interminabile operazione di schiumatura che veniva eseguita quasi come un rito sacro. A cottura ultimata, i pezzi ben tagliati venivano disposti sul piatto di portata e cosparsi di sale fino. Il lesso si accompagnava con il cren, che a quei tempi era preparato in casa. Si partiva dalla coltivazione della radice che veniva grattugiata e a cui si aggiungevano pezzetti di mela e aceto, il tutto dosato con sapienza e conservato, fino all’uso, in vasi di vetro. A volte si portava in tavola anche l’insalata russa, fatta con patate lesse, giardiniera e maionese.

Con l’arrosto venivano servite le patate al forno che venivano tagliate a spicchi, deposte su un letto di sugo d’arrosto, rosolate pian piano e cosparse, prima di essere infornate, con formaggio vecchio di latteria grattugiato; non mancavano mai gli spinaci. Si rosolava nel burro e strutto la cipolla, tagliata fine fine, la si bagnava con vino bianco, poi in questo soffritto venivano tuffati gli spinaci, salati e pepati, girati e rigirati fino a che non erano ben asciutti e, per finire, una bella spolverata di formaggio grattugiato.

La torta poi era quasi sempre fatta dal fornaio del paese, o dalla cuoca, se era all’altezza, e poteva essere anche a due o tre piani.

A fine pranzo, veniva servito il caffè, graditissimo a tutti; in genere non si usava caffè puro, ma mescolato con la famosa miscela Leone; alcuni lo bevevano corretto con la grappa, altri, cosa strana ma non insolita a quei tempi, con vino. La frutta era quella di stagione, ma bagigi e coculi non mancavano mai.

Tutte le pietanze erano accompagnate da vini bianchi e rossi: si andava dal Bacò al Merlot, al Franconia, al Pinot  bianco, al Tocai, fatti naturalmente con le uve delle nostre vigne.

Il tutto si svolgeva in allegria, con canti, poesie ruspanti e, se la casa lo permetteva, anche con la musica della fisarmonica e balli fino al mattino.

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