Se l’acqua arriva nelle case in quantità insufficiente il consumo cala. E’ ragionevole pensare, in queste condizioni, che il privato aggiudicatario del servizio per un tempo limitato decida spontaneamente di ridurre i propri profitti investendo sulle reti? Evidentemente no. Il privato, legittimato dalla gara d’appalto, non interverrà sulle reti con investimenti e compenserà la riduzione di entrata dovuta al minor consumo aumentando le tariffe.
In Italia vi sono territori già serviti da servizio idrico privato e in genere ciò ha comportato un aumento generalizzato delle tariffe. Secondo il dossier di Cittadinanzattiva nel 2008, il costo dell’acqua ha registrato un incremento medio del 5,4% rispetto al 2007, con aumenti a due cifre in 15 città: si parte dalla Campania (+34,3% a Salerno, +31,9% a Benevento) per arrivare in Emilia Romagna (+21,4% a Parma, +10% a Ravenna) passando per Basilicata (+16,1% a Potenza e Matera), Veneto (+16,3% a Padova e +12,3% a Verona), Lombardia (+15,9 a Lodi, +13,4% a Cremona), Piemonte (+14,5% a Verbania, +12,8% a Novara), Marche (+14,4%, ad Urbino e +11,5% ad Ancona) e Friuli (+12,1% Gorizia).
In generale, gli incrementi si sono registrati in ben 68 capoluoghi di Provincia.
La spesa annua media per famiglia nel 2008 si è stata di 253 euro con un aumento medio del 5,4% rispetto al 2007 e corrispondente ad un consumo medio di 192 metri cubi annui.
Le tariffe variano ovviamente a seconda dell’area territoriale di riferimento. Le regioni centrali si contraddistinguono in media per le più elevate tariffe applicate al servizio idrico integrato (295 euro annuali). Dal confronto con l’anno 2007 si evince che la principale variazioni in aumento (+5,9%) è avvenuta nell’area settentrionale, segue l’area centrale (+5,4%) e quindi quella meridionale (+4,4%). Le tariffe regionali più elevate (al di sopra della media nazionale) si riscontrano, nell’ordine, in Toscana, Puglia, Umbria, Emilia Romagna e Marche. Ma elevate differenze esistono anche all’interno delle stesse regioni. Ad esempio, in Sicilia, tra Agrigento e Catania intercorre una differenza di 258 euro. Altri esempi di simile portata si possono riscontrare in Veneto, Toscana, Piemonte, Liguria, Marche e Lombardia.
E tutto ciò perché l’acqua è un bene pubblico. Allora, come suggeriscono alcuni giuristi fra i quali Stefano Rodotà, è necessaria una svolta: l’acqua non come bene pubblico ma come bene comune e perciò riconosciuto come diritto fondamentale alla vita da sottrarre alle logiche di mercato e di profitto.
Padre Alex Zanotelli ci ricorda che nel mondo la quantità d’acqua potabile è pari al 3% della quantità d’acqua presente sul pianeta. Di questa, il 2% viene utilizzata per industria e agricoltura. La nostra vita dipende da quella piccola percentuale, da quella piccola quantità che fa diventare l’acqua un bene primario raro e che quindi ben si presta a realizzare profitti. È ragionevole pensare di vincolare la nostra esistenza alla logica del profitto? È ragionevole continuare a mantenere la dipendenza dal denaro, divenuto oramai il generatore simbolico di tutti i valori?
Possiamo, tutti noi, aderire alla raccolta di firme per la campagna referendaria. Il referendum si articola su tre quesiti: il primo mira a fermare la privatizzazione dell’acqua, il secondo a considerare l’acqua come bene comune la cui gestione deve essere rigorosamente pubblica, il terzo per eliminare i profitti del bene comune acqua.
Possiamo farcela.
http://www.acquabenecomune.org
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Un altro aggiornamento sarebbe l’entrata in vigore del regolamento attuativo del decreto Ronchi, come riportato qui , ma più che aggiornamento trattasi di notizia vecchia (settembre), e con quali conseguenze, poi? Poche le notizie in merito, finora…
Aggiornamento: oggi la Corte costituzionale ha dato l’ok ai referendum su acqua e nucleare.