A colloquio con un viaggiatore… Etiopia

Conosco Guido Rossi da sempre e, prima di lui la sua famiglia, ma era una conoscenza superficiale, che nasceva dalla contiguità e non dalla frequentazione, per cui sapevo che studi aveva fatto, conoscevo la sua passione per il Milan, mi appariva come una persona cordiale e riservata, ma nulla più. Mi era giunto sì all’orecchio di alcuni suoi viaggi in altri continenti, ma pensavo nascessero, come per la maggioranza, da un fatto di moda, dal gusto per l’esotico, o concretamente dal fatto che andava in ferie in periodi in cui queste mete diventano particolarmente appetibili; poi la svolta: alla ricerca di materiale per il giornale, su indicazione di un’amica comune, ho fatto con lui una lunga chiacchierata sul suo ultimo viaggio in Etiopia, ed allora mi sono trovata davanti ad un viaggiatore autentico, con i suoi appunti di viaggio, attento a ciò che aveva visto, desideroso di capire più che di giudicare, pronto a cogliere l’autenticità dell’esperienza fatta. Innanzitutto mi ha incuriosito la meta prescelta, l’Etiopia e alla mia domanda egli mi ha risposto che la scelta era stata determinata dal fatto che a lui interessa il passato più che il presente ed in particolare tutto ciò che riguarda l’uomo ed il suo rapporto con l’ambiente, i suoi costumi, i suoi modi di vivere.

Avevo letto -racconta Guido- di come nell’Etiopia meridionale, vivessero delle etnie che avevano mantenuto le loro peculiarità, per dire così primitive, che non si erano assimilate alla maggioranza della popolazione etiope neanche nella lingua; inoltre volevo vedere la mitica “Lucy”, l’ominide ritrovato nel Gondar ed esposto al museo di Addis Abeba. La mia avventura è partita proprio da questa città, che mi è apparsa come un agglomerato enorme, (è infatti la seconda città africana dopo il Cairo) inquieto, contraddittorio, dove accanto a palazzi di foggia occidentale in cemento, ci sono baracche e baracche in lamiera, dove non c’è traccia di fognature. Tuttavia l’impressione generale che ho avuto è stato quello di una città ordinata e pulita. Impressionante ho trovato poi il mercato, che si estende su una superficie di 3 km quadrati e che mi si è presentato come una bolgia infernale per il frastuono enorme che vi regna, ma che al tempo stesso mi ha affascinato per la molteplicità e varietà dei colori.
Da Addis Abeba, con la guida e due compagni di viaggio, mi sono spostato di circa 6-700 km verso sud, verso il Kenia e il Sudan, in direzione della Riftey Valley, toccando il lago Longano, Abaya, Chamo, utilizzando strade dritte e lunghissime, percorse da tanta gente a piedi, attraverso territori incolti, sostando in campi attrezzati con tende come quello del parco Mago.

La prima etnia che ho incontrato è stata quella Dorze, i cui villaggi sorgono a  circa 2000 m. di altitudine e sono costituiti da capanne altissime (10 m. circa), fatte con foglie di banano, molto resistenti, mobili. I Dorze sono dei bravi tessitori di cotone; tutti, uomini e donne, fumano, servendosi di pipe lunghissime.
Anche qui ho visitato il mercato e ciò che mi ha colpito è stato vedere in vendita, accanto ai cereali tradizionali, granoturco e sorgo, e alle bucce di caffè, taniche di plastica.
Quest’ultime, di provenienza, a detta della guida, cinese, sono  usate dalle donne per attingere l’acqua;  il che mi ha fatto fare alcune considerazioni sulla globalizzazione.

Abbiamo incontrato poi i Conso, che mi sono parsi più “civilizzati” degli altri e che sono stati gli abili artefici del terrazzamento dell’altipiano dove coltivano, ancora oggi, sorgo e granoturco. Interessante mi è parsa la loro organizzazione sociale e la conseguente suddivisione dello spazio all’interno del villaggio; infatti qui esistono i cosiddetti recinti familiari, gruppo di capanne all’interno di un recinto appunto, chiuso da un cancello rudimentale  che accolgono i vari clan. In questi villaggi ci sono capanne con diverse funzioni, quella più grande accoglie le donne dopo che hanno partorito  e qui vengono accudite per circa una settimana.

Spostandoci verso il Kenia, abbiamo incontrato la popolazione Banna, le cui donne si adornano braccia e collo di perline multicolori con un effetto visivo particolarmente piacevole. Una difficoltà nei contatti con queste etnie era rappresentato dalla lingua: ognuna di loro ne aveva una sua e non tutte comprendevano l’amarico.

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