“Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”
A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.
L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.
La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”
La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).
Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.
Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.
C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.
Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.
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